Si può parlare di “responsabilità collettiva” della Russia?
L’invasione dell’Ucraina alimenta un dibattito complesso sul rapporto tra le scelte di Putin e la popolazione che le sostiene
di Antonio Russo
Il 21 febbraio scorso, quando al termine di una riunione straordinaria il presidente russo Vladimir Putin firmò il decreto in cui venivano riconosciute le autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e di Luhansk, pochi giorni prima dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il giornalista inglese Shaun Walker commentò sul Guardian il clima surreale di quella riunione e il fatto che gli interventi dei principali esponenti del governo sembrassero preparati per assecondare il presidente russo.
Walker scrisse che l’obiettivo di quella riunione non era discutere decisioni politiche all’interno di una squadra di governo ma permettere a un «leader supremo» di assicurarsi la «responsabilità collettiva di una decisione che, come minimo, cambierà l’architettura della sicurezza in Europa e che potrebbe portare a una guerra orribile che distruggerà l’Ucraina».
L’evoluzione del conflitto in Ucraina, la scoperta del massacro compiuto a Bucha durante l’occupazione russa e, in generale, la morte di centinaia di persone in bombardamenti e attacchi ad aree e strutture civili hanno reso attuale una domanda sulla responsabilità collettiva della guerra. È un dibattito che si concentra in parte sulle responsabilità russe, estese alla popolazione che sostiene il presidente Putin, e in parte su una categoria di responsabilità ancora più ampia, che arriva a comprendere l’intera comunità internazionale e si ripresenta con una certa frequenza nelle discussioni portate avanti nei paesi occidentali.
Il dibattito sulle responsabilità in Occidente
Un anno fa, ad aprile 2021, a proposito degli scontri armati incessanti nelle zone di confine dei territori filorussi dell’Ucraina orientale, il presidente francese Emmanuel Macron parlò della necessità di ridurre l’escalation attraverso un processo politico che portasse pace e stabilità, e attribuì esplicitamente alla comunità internazionale la «responsabilità collettiva» di aver affrontato superficialmente fin dal 2014 la violazione dei confini territoriali da parte della Russia in Ucraina.
In riferimento alle responsabilità dell’Occidente nel corso dell’ultimo decennio, il settimanale tedesco Spiegel ha scritto che «rimane un mistero come i governi occidentali, in particolare quello tedesco, siano stati in grado di credere per tutti questi anni che Putin fosse in definitiva un partner affidabile e degno di fiducia». Le responsabilità attribuite all’Occidente in questo caso sono quelle di aver instaurato relazioni stabili con la Russia nonostante l’abbondanza di prove pubbliche della repressione politica e della violazione dei diritti umani in quel paese, oltre che la già accertata propensione all’espansionismo militare.
Nel dibattito in Italia è poi da tempo presente, tra le altre, una tendenza ad attribuire alla comunità internazionale e alla NATO la responsabilità di aver sottostimato le conseguenze delle politiche dell’alleanza e di aver creato nel tempo condizioni favorevoli all’insorgere di un conflitto armato in Ucraina.
Queste posizioni sono spesso motivo di discussioni – anche molto animate – e oggetto di critiche sia da parte di chi ritiene fuorviante una certa interpretazione dei fatti storici legati all’espansione della NATO in Europa orientale, sia da parte di chi, in generale, reputa che un certo atteggiamento eccessivamente autocritico dell’Occidente sia viziato da un implicito complesso di superiorità: si tende a incolpare l’Occidente come se alcuni paesi – in questo caso la Russia – fossero ritenuti non in grado di portare responsabilità significative dell’evoluzione degli eventi.
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Il dibattito sulla Russia
Una parte consistente del dibattito, però, riguarda la questione della responsabilità collettiva della Russia nella guerra, anche alla luce del sostegno apparentemente molto ampio espresso dalla popolazione verso le scelte del governo in merito all’intervento militare in Ucraina, sostenuto, secondo varie ricerche, da oltre i due terzi della popolazione.
Alcune riflessioni sostengono che i risultati dei sondaggi e degli altri tradizionali sistemi di rilevazione delle opinioni siano da considerare poco attendibili in contesti ritenuti non democratici, privi di una stampa libera e fortemente condizionati sia dalla propaganda sia da reticenze motivate da anni di repressione di ogni forma di opposizione politica interna.
Altre riflessioni descrivono invece come reale e credibile il sostegno della maggioranza del paese all’intervento militare in Ucraina, sulla base di una presunta adesione di estese parti della popolazione a un modello di identità nazionale fondato tra le altre cose sull’imperialismo e sulla nostalgia del passato, in cui la Russia era una grande potenza.
In generale, la questione della responsabilità collettiva della Russia nella guerra in Ucraina è quindi declinata, a seconda dei casi, o in termini di convinta ed esplicita condivisione di un’ideologia, o in termini di silenzio-assenso della maggioranza della popolazione, anche quella eventualmente contraria alle scelte del governo ma non disposta a correre i rischi di manifestare apertamente il proprio dissenso.
Il dissenso in Russia
Il ricercatore russo Andrei Kolesnikov si occupa di politica interna e istituzioni politiche russe presso il Carnegie Moscow Center, un think tank con sede a Mosca che fornisce analisi e approfondimenti in materia di cooperazione internazionale. Di recente, Kolesnikov ha parlato di una «catastrofe antropologica» in corso in Russia e di una regressione morale del paese, un ritorno agli anni più repressivi e paranoici dello stalinismo.
Secondo Kolesnikov, la diffusione del putinismo in Russia – un’ideologia «che conosce soltanto eroi, non vittime» – rende altamente improbabile per i suoi sostenitori qualsiasi possibile forma di pentimento futuro in considerazione degli eventi di queste settimane a Mariupol, a Bucha e in altre città ucraine.
«Il culto della vittoria della Russia nella Seconda guerra mondiale non si è trasformato in una lezione su come evitare la guerra ma in un culto della guerra stessa», ha scritto Kolesnikov. E ha aggiunto che da questa prospettiva ideologica, per giunta condivisa dalla Chiesa ortodossa russa, i comandanti delle forze russe del Donbass come Arsen Pavlov – accusato di crimini di guerra e morto in un attentato nel 2016 – sono in Russia considerati eroi più di Yuri Gagarin, primo essere umano nello Spazio.
Kolesnikov attribuisce la piena approvazione delle politiche militariste della Russia non a tutta la popolazione ma a una maggioranza. E questa situazione sarebbe motivo di grave imbarazzo per una minoranza che prova invece sentimenti di «orrore e vergogna» per le azioni di Putin e per il sostegno che riceve.
La presenza di una minoranza contraria alle decisioni del governo pone la questione problematica di come definire una responsabilità collettiva provando a escludere dalla collettività coloro che manifestano il proprio dissenso. E per tracciare i limiti della responsabilità, secondo Kolesnikov, è essenziale tenere conto di una profonda differenza tra le opposizioni manifeste e il dissenso presunto e inespresso della parte di popolazione che resta in silenzio.
Kolesnikov cita l’esempio storico dell’invasione russa della Cecoslovacchia nel 1968, avvenuta in risposta alle rivolte riformiste culminate nella “primavera di Praga” e sostenute dalla maggioranza del paese contro il regime comunista cecoslovacco appoggiato dall’Unione Sovietica. «Anche allora, come adesso, le persone in Russia venivano arrestate e condannate semplicemente per aver mostrato un cartello», scrive Kolesnikov. Ma questo non fece desistere la dissidente Larisa Bogoraz dal partecipare a una manifestazione contro l’invasione organizzata nella Piazza Rossa di Mosca: in tutto i manifestanti erano otto, compresa Bogoraz.
In una dichiarazione resa alla fine del processo in cui fu condannata a trascorrere quattro anni in esilio in Siberia, nell’ottobre 1968, Bogoraz disse, riferendosi ai dirigenti sovietici:
A me non bastava sapere che non c’era la mia voce tra quelle che li sostenevano. Per me era un problema il fatto che loro non sentissero la mia voce contraria. Se non lo avessi fatto [partecipare alla protesta del 25 agosto 1968], mi sarei ritenuta responsabile di quelle azioni del governo, così come tutti i cittadini maggiorenni del nostro paese sono responsabili di tutte le azioni del nostro governo.
Bogoraz aggiunse di essere perfettamente consapevole dell’inutilità pratica della manifestazione, del fatto che non sarebbe servita a cambiare il corso degli eventi: «Ma alla fine decisi che non si trattava di cosa avrebbe prodotto di buono ma della mia responsabilità personale».
Manifestazioni di protesta contro il governo sono state organizzate in Russia anche recentemente, nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina, suscitando ammirazione in molti paesi occidentali. Anche in considerazione dei precedenti storici, a partire dal caso di Bogoraz, è infatti molto condivisa e presente tra gli osservatori di quei paesi la consapevolezza che le manifestazioni di dissenso in Russia espongano i responsabili a rischi completamente diversi rispetto a quelli corsi dai dissidenti in contesti democratici.
A marzo, il New York Times ha raccontato anche le storie di molti cittadini russi che, a un ritmo che non si vedeva dai tempi della fine dell’Unione Sovietica, hanno lasciato il paese dopo l’invasione dell’Ucraina.
Tra le loro motivazioni, oltre alla contrarietà alla guerra, c’era la preoccupazione per la chiusura dei confini, le misure draconiane di limitazione della libertà di stampa e le voci riguardo alla possibile istituzione di un servizio militare punitivo. In merito alle ripercussioni sulla popolazione russa delle sanzioni economiche decise dai paesi occidentali, il New York Times segnalava peraltro quanto le sanzioni avessero inevitabilmente reso le cose più difficili anche per le persone desiderose di scappare dalla Russia.
Se la Russia fosse un paese libero e democratico, ha scritto Kolesnikov, le parole della dissidente Bogoraz sarebbero imparate a memoria nelle scuole, e il 25 agosto sarebbe celebrato come «l’anniversario del risveglio della coscienza nazionale». La Russia di oggi, prosegue, è invece un paese in cui la verità è screditata e derisa, e in cui ai bambini viene insegnato a denunciare i «traditori della nazione».
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Denunciare i traditori è un’attitudine a cui ha fatto riferimento anche Jack Watling, ricercatore inglese dello storico think tank britannico Royal United Services Institute (RUSI), in un articolo in cui tenta di contestualizzare le azioni militari più efferate dell’esercito russo nelle città ucraine. Le descrive come pratiche note all’intelligence ucraina perché già messe in atto durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan negli anni Ottanta, quando una parte dell’esercito era composto da forze ucraine che oggi combattono contro la Russia.
Le rappresaglie sui civili, un fenomeno che Watling descrive come frequente in molte guerre e diffuso tra molti eserciti, sarebbero nel caso dell’esercito russo espressione di un’idea di punizione collettiva radicata in una lunga storia di operazioni «antipartigiane». «Proveniente da un’epoca in cui i contadini russi vivevano per la maggior parte in una comune, l’idea di responsabilità collettiva spinse lo stato a incoraggiare i contadini a reprimere i crimini all’interno delle loro comunità, o la comunità nel suo insieme sarebbe stata punita», scrive Watling.
Questo metodo, prosegue, è stato efficacemente applicato in passato dalla Russia in una serie di conflitti in cui «il sostegno alla resistenza aveva conseguenze così pesanti che le comunità diventavano ostili agli insorti».
La responsabilità collettiva
Il concetto di responsabilità collettiva – in particolare quella della Germania nazista nella Seconda guerra mondiale e per l’Olocausto – fu centrale nelle riflessioni della scrittrice, politologa e storica tedesca Hannah Arendt, una tra le autrici più conosciute e studiate nella storia del pensiero filosofico occidentale.
Come sostenuto da Arendt in alcuni suoi testi degli anni Sessanta, raccolti nei libri Alcune questioni di filosofia morale e Responsabilità e giudizio, la questione della responsabilità dovrebbe essere al centro di un dibattito che, anziché soffermarsi soltanto su quella collettiva, sia in grado di affinare una maggiore sensibilità per il concetto di responsabilità personale.
Concentrare l’attenzione sull’individuo, secondo Arendt, dovrebbe essere tanto più necessario proprio nel contesto della società di massa, «un’epoca in cui tutti si considerano più o meno come ingranaggi di una grande macchina», sia essa un apparato burocratico, sociale, politico o professionale, o «la macchina caotica e rattoppata delle semplici circostanze fortuite in cui sono intrappolate le nostre vite». Inoltre è soltanto questa la prospettiva che permette di definire un concetto diverso: quello di colpa.
Nella Germania postbellica, dove esplose il problema della responsabilità di ciò che il regime hitleriano aveva fatto agli ebrei, il grido “Siamo tutti colpevoli”, che a prima vista sembrava così nobile e invitante, in effetti è servito solo a discolpare, almeno in parte, coloro che erano realmente colpevoli. Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è.
Per Arendt la colpa è qualcosa di strettamente personale e non può mai essere collettiva, a differenza della responsabilità. Non possiamo dirci colpevoli delle azioni dei nostri antenati o del nostro paese, se non in un senso metaforico. Possiamo invece essere responsabili delle azioni di un gruppo: la responsabilità riguarda infatti la sfera della politica, non della morale, e può estendersi all’intera comunità nella misura in cui quella comunità politica risponde della responsabilità dei membri che ne fanno parte.
Perché si possa parlare di responsabilità collettiva, secondo Arendt, occorre da una parte che l’individuo sia ritenuto responsabile di qualcosa che ha fatto e dall’altra che la sua responsabilità sia «integralmente ascritta al fatto di essere membro di un gruppo», in un senso che implichi non avere alcun modo di rinnegare o cancellare l’appartenenza a quel certo gruppo. «La responsabilità collettiva è sempre politica, sia che l’intera comunità si assuma la responsabilità di ciò che ha fatto uno dei suoi membri, sia che una comunità venga ritenuta responsabile di ciò che è stato fatto in suo nome», afferma Arendt.
Nel dibattito sui fatti di Bucha, e in generale sulla guerra in Ucraina, alcuni partecipanti sostengono che una responsabilità collettiva possa essere attribuita ai russi negli stessi termini in cui l’opinione pubblica la attribuì ai tedeschi degli anni Trenta e Quaranta. E chi lo sostiene, come Kolesnikov, lo fa sulla base del fatto che in particolari situazioni il silenzio dovrebbe essere inteso come approvazione e non come dissenso, e che «la conformità passiva non è meno terribile della conformità attiva e aggressiva».
L’homo sovieticus
Come altri pensatori e osservatori, Kolesnikov collega il comportamento della maggioranza della popolazione russa a un adattamento al regime politico vigente. E lo fa utilizzando il concetto tedesco di gleichschaltung (“allineamento”, “sincronizzazione”), un eufemismo riferito all’adattamento delle strutture e delle istituzioni sociali all’ideologia dominante del partito nazionalsocialista in epoca nazista, e che prevedeva l’eliminazione di qualsiasi forma di opposizione o organizzazione non “allineata”.
A questo adattamento fa riferimento anche Masha Gessen, giornalista statunitense di origine russa, nel libro Il futuro è storia, vincitore del National Book Award nel 2017, in cui descrive gli anni della Russia post-sovietica come «la morte di una democrazia che non era mai veramente nata» e definisce una irriducibile ideologia – quella dell’«homo sovieticus» – come uno dei fattori determinanti nell’evoluzione di un paese sempre più repressivo e autoritario.
Gessen riprende il concetto di homo sovieticus da un’espressione resa popolare tra gli altri dal sociologo e politologo russo Yuri Levada, peraltro fondatore della storica organizzazione indipendente Levada Center, una delle poche agenzie di sondaggi russe ancora oggi considerate sufficientemente affidabili. Secondo Levada, che rese pubbliche le sue ricerche negli anni Ottanta, una caratteristica peculiare della persona comune nell’Unione Sovietica era la capacità di sostenere un’idea e, all’occorrenza, l’idea contraria: capacità che Levada sintetizza con la parola «bipensiero», citando la lingua immaginaria utilizzata nel romanzo di George Orwell 1984.
Questa capacità deriverebbe in parte da una consolidata abitudine del cittadino sovietico a pensare per antinomie, a cominciare da quella che Levada definisce «sindrome imperiale»: una frustrazione legata all’«impossibile scelta tra un’identità etnica e un’identità sovraetnica» per un cittadino abituato fin da piccolo a essere orgoglioso e difendere il fatto di vivere nel primo paese al mondo per estensione territoriale, un sesto di tutta la superficie terrestre.
D’altra parte, sostiene Gessen riprendendo il concetto di Levada, il bipensiero dell’homo sovieticus sarebbe il risultato di un adattamento «antropologico» finalizzato alla sopravvivenza in una società totalitaria. Adattamento che ha generato nel tempo un profondo conformismo e una diffidenza verso qualsiasi iniziativa individuale che minacci di destabilizzare le gerarchie e le identità di gruppo esistenti.
Questa ideologia, secondo Gessen e contrariamente alle aspettative di Levada, non si è estinta con la fine dell’Unione Sovietica ed è anzi riemersa negli atteggiamenti di sostanziale indifferenza dei russi per le proprie libertà politiche e di risentimento per la perdita di centralità nel mondo.
Animati da una sorta di revanscismo imperiale e da un’ostilità verso il liberalismo occidentale – sentimenti ravvivati dalla vittoria di Putin alle elezioni del 2012 e dall’inizio del suo terzo mandato non consecutivo – l’homo sovieticus e le istituzioni cominciarono, secondo Gessen, a cercare prima di tutto i nemici all’interno del paese. Le persone gay subirono per prime i crescenti sentimenti di intolleranza e xenofobia: «Mettere al bando i gay, o perlomeno metterli a tacere, costituiva la via più breve verso il benessere e il potere, un ammonimento all’Occidente e una garanzia di una nazione florida e sana», scrive Gessen.
Come ricordato da Kolesnikov, il conformismo e la paura di subire ritorsioni furono citati da Bogoraz già nel 1968 e descritti come sentimenti dominanti, alla fine del processo contro lei e gli altri manifestanti:
L’accusa ha concluso il suo intervento suggerendo che la sentenza che chiede sarà approvata dall’opinione pubblica. Non ho dubbi che l’opinione pubblica approverà questa sentenza, così come ha approvato sentenze simili in passato e approverebbe qualsiasi sentenza. L’opinione pubblica approverà un giudizio di colpevolezza in primo luogo perché le saremo presentati come parassiti, eretici e portatori di un’ideologia nemica. E in secondo luogo perché, se qualcuno avesse un’opinione diversa da quella “pubblica” e trovasse il coraggio di esprimerla, presto si ritroverebbe dove mi trovo io adesso.
L’isolamento e la disinformazione in Russia
L’ipotesi di una chiara responsabilità collettiva dei russi, che Kolesnikov intende più che altro nei termini di una «irresponsabilità» di massa e una «cecità collettiva volontaria», è generalmente contestata da altri osservatori che si concentrano sulle particolari condizioni di isolamento e disinformazione sistematica a cui si ritiene sia sottoposta gran parte della popolazione russa. E che si interrogano sui limiti della responsabilità di una collettività resa ignorante o insensibile rispetto a eventi molto noti nel resto del mondo e discussi in termini completamente diversi.
Come raccontato proprio da Gessen in un recente articolo sul New Yorker, osservare i manifestanti che vengono arrestati in piazza Pushkin a Mosca da poliziotti in tenuta antisommossa, mentre il traffico pedonale scorre normalmente ignorando quanto accade a pochi passi da loro, dà l’impressione che ci siano due gruppi di persone che vivono in due mondi alternativi. In uno, la Russia è responsabile di una guerra brutale e ingiustificata in Ucraina; nell’altro, non esiste alcuna guerra ma soltanto «un’operazione per ristabilire la pace».
«Questo è in gran parte un paese di persone anziane e povere», per la maggior parte composto da persone di 45 anni o più, ha detto a Gessen l’attuale direttore del Levada Center, Lev Gudkov. La maggioranza della popolazione in Russia, secondo un recente sondaggio del Levada Center, si informa attraverso la televisione, che è quasi interamente controllata dallo stato.
Dopo l’interruzione straordinaria dei normali palinsesti, in occasione dell’annuncio del 24 febbraio in cui il presidente Putin informò dell’inizio della «operazione militare speciale» in Ucraina, la programmazione televisiva non è cambiata quasi per niente. Non c’è alcuna copertura mediatica degli eventi in diretta, ha raccontato il New Yorker, né edizione straordinaria dei telegiornali: niente che dia agli spettatori l’impressione che stia accadendo qualcosa di diverso dal solito.
Un’edizione abbastanza tipica del telegiornale, andata in onda sul primo canale nei primi giorni di marzo e durata sei minuti, riferiva di un nuovo ciclo di colloqui di pace tra Russia e Ucraina, descrivendo la Russia come la parte interessata a trovare un «terreno comune». Raccontava poi del «bombardamento della Repubblica popolare di Donetsk da parte delle forze armate ucraine», causa della «morte di 25 civili».
Poi c’era un servizio su Chernihiv, un’area in quel momento controllata dalle forze armate russe, in cui si diceva – mostrando però soltanto immagini di veicoli blindati – che i civili continuavano a circolare normalmente in città, presi dalle loro routine quotidiane. Successivi servizi dicevano che «la Russia ha preparato oltre 10 mila tonnellate di aiuti umanitari per il popolo ucraino» e che «l’Occidente sta rifornendo l’Ucraina di armi». Nessuna menzione dei bombardamenti del giorno prima a Kharkiv e a Kiev, né della morte di 498 soldati russi secondo dati riportati il giorno prima dallo stesso ministero della Difesa russo.
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Anche chi riesce a informarsi attraverso Internet, una pratica in aumento secondo il sondaggio del Levada Center, difficilmente si imbatte in una narrazione diversa da quella sostenuta dalla televisione. Yandex, la più grande azienda tecnologica russa, è responsabile del motore di ricerca più utilizzato nel paese e, di solito, pubblica sulla homepage del portale cinque titoli di notizie date da agenzie di stampa di stato, come ha spiegato alla Harvard Gazette la giornalista Natasha Yefimova-Trilling, ex redattrice del Moscow Times.
Lo stato esercita inoltre una crescente pressione sui pochi media indipendenti rimasti in circolazione, costringendoli a chiudere, o bloccando l’accesso ai loro siti web, o richiedendo loro di inserire un disclaimer che indichi che il contenuto «è creato e/o distribuito da un supporto che esegue le funzioni di un’entità straniera e/o una persona giuridica russa che svolge le funzioni di un’entità straniera».
Prima di decidere di sospendere le pubblicazioni, in seguito all’approvazione di una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per chi diffonde notizie ritenute false dal governo (cioè notizie differenti dalla propaganda di stato), il canale televisivo Dozhd (anche conosciuto come Rain TV) riferì anche di alcune iniziative governative portate avanti tramite agenzie pubblicitarie: prevedevano una retribuzione per blogger e tiktoker che avessero pubblicato contenuti sull’operazione militare. «Tutti i post dovrebbero essere accompagnati da #LetsGoPeace e #DontAbandonOurOwn [“Andiamo per la pace” e “Non abbandoniamo i nostri”]», si leggeva nel brief rivolto agli autori dei contenuti.
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In generale, ha raccontato Gudkov al New Yorker, i media tendono a rafforzare una narrazione in cui la Russia è «una vittima fin dalla Seconda guerra mondiale» e in cui l’obiettivo dell’Occidente è dominare il mondo e appropriarsi delle risorse naturali della Russia. Che per questo motivo è quindi costretta a difendersi. Il 60 per cento delle persone intervistate dal Levada Center pochi giorni prima dell’invasione, a proposito della responsabilità delle crescenti tensioni in Ucraina, l’aveva attribuita agli Stati Uniti. Il 14 per cento aveva risposto l’Ucraina e soltanto il tre per cento la Russia.
Questa percezione di un accerchiamento è stata confermata anche da Yefimova-Trilling nell’intervista alla Harvard Gazette. «L’atteggiamento generale tra i russi è che, qualunque cosa faccia la Russia, l’Occidente troverebbe un motivo per imporre nuove sanzioni», ha detto Yefimova-Trilling, segnalando che a rafforzare questa percezione contribuisce anche il fatto che «Cina, India e gran parte del Medio Oriente non hanno criticato la Russia come hanno fatto Stati Uniti ed Europa».
Quando nel 2014 la Russia occupò la penisola della Crimea e inviò truppe e mezzi nelle province ucraine del Donbass, la propaganda si concentrò a lungo sui termini da utilizzare per definire pubblicamente quelle operazioni militari. E alla fine, ha scritto Gessen sul New Yorker, scelse di utilizzare «la lingua della guerra che i russi conoscono meglio: quella della Seconda guerra mondiale», accusando i «neonazisti» in Ucraina di voler sterminare la popolazione di lingua russa presente nel paese, a cominciare dal Donbass.
A un «genocidio» in atto nel Donbass fanno riferimento persino alcune dispense didattiche recentemente inviate dal ministero dell’Istruzione russo agli insegnanti delle scuole medie. Le dispense, citate dal New Yorker e ottenute dalla testata giornalistica russa indipendente Mediazona, si concludevano con una serie di domande rivolte agli studenti, tra cui: “Come interpreti la parola “genocidio”? Perché è applicabile alla situazione nel Donbass?».
«Dovremmo ricordare cosa hanno in mente le persone quando dicono di sostenere ciò che sta succedendo in Ucraina», ha detto al New Yorker il sociologo russo Alexey Bessudnov, docente all’università di Exeter, in Regno Unito. Putin ha più volte affermato pubblicamente che le unità ucraine impegnate contro i militari russi non sono truppe regolari ma battaglioni neonazisti. E la minaccia indefinita del nazismo è costantemente presente nelle narrazioni dei media russi sui fatti in Ucraina.
Anche volendo attribuire scarso valore ai sondaggi, aggiunge il New Yorker, c’è da tenere conto dell’estesa diffusione di uno «schiacciante senso di sfiducia o incredulità nella possibilità stessa della coscienza civica» nella Russia di oggi. E la guerra sarebbe la manifestazione più estrema del disimpegno e dell’alienazione collettiva rispetto alla politica e alle questioni di interesse pubblico.
Secondo il sociologo e politologo russo Greg Yudin, che ha partecipato alle manifestazioni di protesta del 24 febbraio scorso contro l’invasione dell’Ucraina ed è stato attaccato dalla polizia, le persone in Russia cercano soltanto di difendere un proprio mondo: «Questo spazio personale che hanno costruito con molta fatica e difficoltà» e rispetto al quale vedono come una minaccia «qualsiasi forma di azione collettiva».