La parte di Berlino dove il calcio non funziona
Mentre la vecchia squadra autogestita di Berlino Est continua a migliorare, a Ovest l'Hertha rischia ancora una volta di retrocedere, tra dissidi interni e milioni sprecati
di Pietro Cabrio
Nel novembre del 2019 Jürgen Klinsmann, campione del mondo nel 1990 ed ex allenatore della Germania, fu assunto come allenatore dalla dirigenza dell’Hertha Berlino, storica squadra di calcio della capitale tedesca, con l’obiettivo di risollevarla. Il suo incarico — più da manager con ampi poteri che da allenatore “di campo” — non durò nemmeno tre mesi e finì con la pubblicazione di una sorta di diario di 22 pagine in cui lo stesso Klinsmann accusava la società di incompetenza e di aver creato negli anni una «cultura della menzogna» in cui era impossibile lavorare.
Il diario fece molto discutere in Germania. Klinsmann scrisse: «La dirigenza deve essere cacciata immediatamente. Se questo non dovesse succedere, tutti i buoni acquisti fatti nel mercato invernale diventeranno giocatori nella media, perché nel calcio c’è un regola: funzioni solo se funziona anche l’ambiente in cui giochi». E continuava: «La preparazione invernale per la seconda metà di stagione, organizzata dal direttore sportivo Michael Preetz, è stata una catastrofe. La squadra ora lotta per non retrocedere, ma viene gestita come se fosse un grande club internazionale».
Descrisse il presidente come una persona irascibile che non manteneva le promesse e disse che il rapporto di Preetz — in carica dal 2009 — con la squadra si basava su una «cultura della menzogna» che aveva distrutto la fiducia reciproca con i giocatori. La dirigenza, dal canto suo, rispose dicendo che Klinsmann «aveva ingannato tutti» e con le sue accuse cercava soltanto di giustificare le dimissioni anticipate.
Eppure, a novembre, Klinsmann era stato assunto con grandi ambizioni e il pieno sostegno del club e dei suoi nuovi investitori. Nel mercato invernale erano stato spesi oltre 80 milioni di euro. Furono acquistati Krzysztof Piatek dal Milan, Lucas Tousart dal Lione semifinalista di Champions League, e Matheus Cunha da un’altra semifinalista di Champions, il Lipsia. Il rilancio della società e l’arrivo di Klinsmann avevano attirato inoltre nuovi sponsor di una certa importanza, da Amazon a Tesla, con quest’ultima allora in procinto di aprire un suo stabilimento fuori città (la Gigafactory Berlin-Brandenburg).
Nel periodo trascorso all’Hertha, Klinsmann vinse tre partite su dieci e ne perse quattro, e la squadra finì in zona retrocessione. Alla fine si salvò terminando la stagione al decimo posto (ad appena cinque punti dalla retrocessione). Da allora la squadra ha cambiato tre allenatori, quasi uno a stagione: prima l’italo-tedesco Bruno Labbadia, poi l’ungherese Pal Dardai, esonerato lo scorso novembre e rimpiazzato da un allenatore ad interim, Tayfun Korkut, e infine dal sessantottenne Felix Magath.
Anche con l’esperienza di Magath, a quattro giornate dal termine l’Hertha rischia seriamente di retrocedere: è a un punto dal playout e a tre dalla retrocessione diretta. La squadra, per cui giocano anche Stevan Jovetic e Kevin-Prince Boateng (ex di Inter e Milan), ha la seconda peggior difesa del campionato e fin qui ha subito in media più di due gol a partita. Oltre a subire molto, ha grosse difficolta a segnare: ha il quarto peggior attacco e fatica ad arrivare alla media di un gol a partita. Se dovesse finire in seconda divisione, sarebbe la sua terza retrocessione in dieci anni: di gran lunga il peggior andamento tra tutte le principali squadre di calcio delle grandi capitali europee.
In Germania l’Hertha è soprannominata “die alte Dame”, che come per la Juventus in Italia vuol dire “la vecchia signora”. Il soprannome suggerisce un passato austero e importante, come effettivamente è stato. Fondata nel 1892, otto anni dopo fu tra le fondatrici della federazione calcistica tedesca e prima della Seconda guerra mondiale vinse tre campionati nazionali. Al termine della guerra fu sciolta, rifondata e mandata a giocare all’Olympiastadion, lo stadio di Berlino costruito dal regime nazista per le Olimpiadi estive del 1936.
Lì, tra i quartieri occidentali di Charlottenburg e Westend, iniziò a pagare il fatto di essere una squadra isolata dal resto del paese, avendo sede nella parte occidentale di Berlino e quindi iscritta al campionato della Germania Ovest, distante oltre duecento chilometri. Questo, alla lunga, influì sulla popolarità della squadra, rimasta confinata in certi luoghi della città, e sul suo livello di competitività, che non raggiunse mai più quello dei primi del Novecento.
Nell’ultima stagione prima della pandemia, la percentuale di riempimento del suo stadio era la più bassa del campionato (66 per cento), accentuata dalle dimensioni dispersive dei 74mila posti del tetro Olympiastadion.
I migliori piazzamenti negli ultimi due decenni rimangono due quarti posti, l’ultimo dei quali risale al 2009. Dall’ultima e ancora unica partecipazione della squadra ai gironi di Champions League sono passati già vent’anni. In tutto questo tempo, città tedesche molto più piccole di Berlino, come Brema, Stoccarda e Wolfsburg — centomila abitanti attorno al vecchio stabilimento della Volkswagen — hanno tutte vinto almeno una volta la Bundesliga.
Nonostante questa assenza dai vertici del calcio tedesco, Berlino conta tuttavia centinaia di piccole squadre con un loro seguito e identità radicate, che rappresentano le tante comunità che formano una città multiculturale da oltre 3 milioni di abitanti.
Le cose, per l’Hertha e per Berlino, sembravano poter cambiare con l’arrivo dell’investitore tedesco Lars Windhorst, che nel 2019 comprò il 37,5 per cento del club per 125 milioni di euro con la possibilità di arrivare negli anni al 49,9 per cento (in Germania la maggioranza delle quote societarie delle squadre di calcio deve appartenere a soci o associazioni di soci, salvo alcune eccezioni). Da quanto è presente nel consiglio di amministrazione, Windhorst ha investito molto nella squadra, riconoscendole un grande potenziale inespresso, in quanto club principale di una città come Berlino, in grado quindi di ritagliarsi uno spazio simile a quello delle squadre di altre capitali europee.
Ritrovatosi però ancora una volta a rischio retrocessione, lo scorso marzo Windhorst non ha nascosto il suo disappunto, criticando duramente la dirigenza come raramente capita di vedere, in particolare il presidente Werner Gegenbauer, figura influente nel mondo della finanza tedesca. Windhorst ha detto alla Bild: «Gegenbauer è presidente da oltre dieci anni ed è chiaro che non stia facendo tutto il possibile per portare il club al successo. Sembra stia lavorando soprattutto per consolidare il proprio potere — che viste le regole del campionato tedesco è dato dai voti dei soci alle elezioni. È sconvolgente il modo in cui così tanti soldi siano stati bruciati in così poco tempo».
Le difficoltà del club vengono inoltre accentuate dai successi paralleli dell’Union, la squadra fondata a Berlino Est che applica l’azionariato popolare al 100 per cento delle sue quote. Tutti i suoi soci contano allo stesso modo e nessuno può avere più “peso” degli altri, come accade invece in altri club, Hertha compreso: in pratica è una squadra autogestita.
Lo stadio dell’Union nella periferia orientale di Berlino, agli antipodi dell’Olympiastadion, è stato ricostruito nel 2009 da tifosi volontari, gli stessi che nel 2004 salvarono il club da una probabile bancarotta con i rimborsi ricevuti per aver donato il sangue, come si usa in Germania. Nonostante le difficoltà, la dimensione più locale e la scarsità di risorse, l’Union è tornata in Bundesliga nel 2019 e da due stagioni conclude il campionato sopra l’Hertha. Quest’anno è sesta e ha quasi venti punti in più dei concittadini, battuti tre volte su tre in questa stagione.
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