Le polemiche sulla data scelta per celebrare gli alpini
È il 26 gennaio, anniversario della battaglia di Nikolaevka, combattuta al fianco dei nazisti nel corso dell'invasione dell'Unione Sovietica
di Stefano Nazzi
Il 5 aprile è stato approvato in via definitiva dal Senato il disegno di legge numero 1371 sull’istituzione, il 26 gennaio di ogni anno, della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli alpini”. La data scelta, il 26 gennaio, non ha trovato nessuna contrarietà in Parlamento ma ha suscitato le perplessità di più di uno storico. Il 26 gennaio 1943 – nel contesto della Seconda guerra mondiale – gli alpini, assieme alle truppe tedesche e ungheresi, combatterono a Nikolaevka, nell’attuale Russia, per forzare, riuscendoci, il blocco dell’Armata rossa e allontanarsi così dalla grande sacca nella quale rischiavano di rimanere imprigionati durante la ritirata.
Quasi nessuno in realtà ha messo in dubbio il fatto che sia giusto celebrare gli alpini, un corpo militare molto amato in Italia, più volte al fianco della popolazione civile in moltissime occasioni (ultimo esempio è stato l’aiuto dato alla campagna per le vaccinazioni durante la pandemia da coronavirus). Ma, obiettano alcuni storici, non si può dimenticare di collocare storicamente quella battaglia.
Gli alpini erano impegnati in una guerra di aggressione e invasione nei confronti dell’Unione Sovietica. I militari italiani furono al fianco delle truppe della Germania nazista in quella che, da parte delle forze di Hitler, fu una guerra di sterminio, decisa in questi termini fin dalla sua pianificazione. Dall’inizio dell’Operazione Barbarossa (il nome dato dai tedeschi all’invasione dell’Unione Sovietica), il 22 giugno 1941, le truppe della Wehrmacht, l’esercito tedesco, erano seguite dalle Einsatzgruppen, le unità operative o gruppi di azione speciali dell’SD, il servizio di intelligence delle SS, che avevano il compito di eliminare fisicamente ebrei, comunisti e civili considerati nemici.
Alla fine della guerra l’Unione Sovietica ebbe 20 milioni di morti, tre milioni dei quali prigionieri di guerra, uccisi o morti di fame e fatica durante i trasferimenti.
Dice al Post Marco Mondini, professore dell’università di Padova e autore, tra gli altri libri, di Tutti giovani sui vent’anni. Una storia degli alpini dal 1872 a oggi: «Ci sono state polemiche anche sulla decisione di istituire una giornata dedicata gli alpini. Eppure agli alpini sono molto di più di un corpo militare, rappresentano una comunità di persone che si è posta, in armi o no, al servizio della collettività. È l’unico corpo al mondo in grado di raccogliere ogni anno, al proprio raduno, migliaia di persone che seguono appunto questo principio: quello del servire la nazione, in ogni modo».
Ha scritto però in una nota la Società italiana per lo studio della storia contemporanea presieduta da Daniela Caglioti: «La data non si collega all’intera storia e all’impegno anche umanitario del Corpo, bensì ne isola, celebrandola, un’impresa militare – la battaglia di Nikolaevka – condotta all’interno di una guerra di aggressione dell’Italia fascista, per di più in regioni oggi sconvolte da un’altra invasione».
In un libro uscito dieci anni fa, Invasori, non vittime, Thomas Schlemmer scrive che «l’epos del sacrificio andò a coprire come un velo il non trascurabile dato di fatto che le nostre divisioni facevano parte, in realtà, di un esercito d’invasione».
Dice al Post lo storico Carlo Greppi, autore del libro Il buon tedesco: «La storia degli alpini è disseminata di esempi commoventi, di eroismo. Tra l’altro, gruppi di alpini, proprio dopo il drammatico epilogo della campagna di Russia, si unirono alle forze della Resistenza. Allora perché scegliere proprio quella data?».
Secondo Marco Mondini sarebbe stato meglio scegliere la data di fondazione del corpo, il 15 ottobre 1872, e non quello della battaglia di Nikolaevka: «Fin dal dopoguerra però la narrazione epica di ciò che avvenne a Nikolaevka ha tolto quell’episodio dal suo contesto, e cioè la guerra di aggressione, e l’ha posto in una bolla a sé stante. Si celebra la sconfitta e il sacrificio di poveri giovani disperati che cercavano solo di tornare a casa. Nikolaevka è il simbolo sia della disfatta sia del valore. Raccontando soprattutto a se stessa quell’episodio è come se l’Italia tentasse di espiare la colpa di essere stato un paese aggressore, che ha condotto una guerra ideologica contro un nemico che non gli aveva fatto niente, quasi che gli alpini pagassero attraverso la loro terribile sofferenza per le colpe di tutta la nazione».
Nikolaevka, oggi Livenka, si trova nell’Oblast di Belgorod a poche decine di chilometri da dove si stanno combattendo le forze russe e ucraine, e vicinissima alla città ucraina di Kharkiv, da oltre 50 giorni bersaglio delle forze armate di Mosca. Questo i relatori non potevano saperlo quando presentarono, nel 2019, il disegno di legge. Sapevano però che il 27 gennaio è la Giornata internazionale della memoria delle vittime dell’Olocausto: scegliere il giorno precedente a quella data per richiamare alla memoria una battaglia combattuta al fianco di chi quell’Olocausto lo pianificò e lo mise in atto è stata ritenuta una scelta infelice.
Era possibile, secondo molti storici, individuare altre date. «Come il 15 ottobre 1872», ha scritto la Società italiana per lo studio della storia contemporanea, «giorno di fondazione. Si sarebbe così sottratto un corpo militare a cui tanto deve l’Italia a dannose logiche di strumentalizzazione, che non giovano alla sua memoria e alla sua immagine», e si sarebbe così valorizzato il «profondo e duraturo legame degli alpini con la società nazionale e internazionale».
Il disegno di legge ha avuto come primo firmatario Guglielmo Golinelli, deputato della Lega, ed è passato al Senato con nessun voto contrario e un solo astenuto; nel 2019, alla Camera era stato approvato con nessun contrario e sette astenuti. «Questa quasi unanimità in Parlamento, senza che nessuno abbia avanzato la minima perplessità anche solo per il fatto che la data precede il giorno della Memoria la dice lunga sullo stato di salute della nostra memoria pubblica», spiega Greppi.
L’articolo 1 del disegno di legge dice:
«La Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolaevka durante la II guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano».
Il presidente dell’Associazione nazionale alpini, Sebastiano Favero, ha detto che il voto del parlamento riempie di orgoglio gli alpini: «Non solo per il consenso praticamente unanime, ma anche per la data individuata, che coincide con la battaglia di Nikolaevka, il drammatico ed eroico episodio del 1943 assurto a simbolo del valore e dello spirito di sacrificio delle penne nere».
La battaglia di Nikolaevka avvenne quando la ritirata dell’armata italiana era in corso da giorni. Scrisse Nuto Revelli, ufficiale del battaglione Tirano della Brigata alpina Tridentina, autore del libro Mai tardi: «Nella notte del 18 gennaio arrivò l’ordine di abbandonare le armi di postazione, di distruggere gli archivi, di buttare il superfluo, di salvare l’uomo».
La campagna italiana in Unione Sovietica era iniziata nel giugno del 1941 quando Mussolini convinse Hitler, che non voleva, a far partecipare anche l’esercito italiano alla «crociata antibolscevica». Il corpo di spedizione italiano fu inizialmente composto da 60mila uomini delle divisioni di fanteria Pasubio, Torino e Principe Amedeo d’Aosta, comandate dal generale Giovanni Messe. Allora il nome del contingente italiano era CSIR, Corpo di spedizione italiano in Russia.
Le armate tedesche con quelle rumene, ungheresi e slovacche avanzarono per 500 chilometri, Kiev fu conquistata senza grandi sforzi. Già allora le forze italiane mostrarono però seri problemi di equipaggiamento: i 60 carri armati erano piccoli, lenti mal armati e mal corazzati, decisamente inferiori rispetto a quelli sovietici, l’artiglieria era vecchia, inadeguata.
Nel giugno del 1942 Mussolini decise di inviare altri contingenti, nonostante la contrarietà del generale Messe. Partirono per l’Unione Sovietica la divisione di fanteria Cosseria, Ravenna e Sforzesca e Vicenza e tre divisioni del corpo d’armata alpino, la Tridentina, la Julia e la Cuneense. La spedizione assunse il nome di ARMIR, Armata italiana in Russia. Al comando fu posto il generale Italo Gariboldi.
Gli italiani posti all’inizio sotto il comando della diciassettesima armata tedesca, da cui ricevevano gli ordini, furono schierati lungo il fiume Don per 300 chilometri. Alla sinistra erano schierati gli ungheresi e a destra un’armata rumena. Poi le armate tedesche fino a Stalingrado.
I sovietici, che a Stalingrado stavano bloccando i tedeschi e poi li avrebbero costretti alla resa, concentrarono i loro attacchi contro il settore rumeno e contro le divisioni Ravenna e Cosseria. L’Armata Rossa aveva come obiettivo la riconquista della città di Kharkiv e il bacino industriale del Donetsk. Nomi che in queste settimane sono in tutte le cronache della guerra d’aggressione russa all’Ucraina. Lo stesso Nuto Revelli, ferito, fu ricoverato in un ospedale da campo a Luhansk, oggi capitale di una delle due autoproclamate repubbliche filorusse dell’Ucraina dell’est.
Le forze italiane resistettero quanto poterono, poi iniziò la ritirata. Una massa enorme di soldati, sempre più disordinata, iniziò una marcia disperata lunga 170 chilometri a temperature tra i 20 e i 40 sottozero. Gli alpini erano male equipaggiati, con pochissimo cibo e pochissimi mezzi, con abbigliamento inadatto a quelle temperature. L’esercito regolare sovietico aveva sopravanzato gli italiani di 100 chilometri e contemporaneamente colpiva ai lati l’enorme fiume di soldati in fuga. Con gli italiani c’erano 10mila tedeschi, dotati però di mezzi per spostarsi, e qualche migliaio di ungheresi. Nuto Revelli scrisse:
«Non è venuto un solo aereo italiano a cercarci: soltanto gli aerei russi ci cercano per mitragliarci… Eravamo ancora sul Don quando si disse che i tedeschi rubavano a mano armata i mezzi e carburanti italiani per compiere le fughe organizzate. E Gariboldi apriva le inchieste!».
Il racconto di Revelli dà l’idea di come si svolse la ritirata:
«Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivere è immenso. Camminare vuole dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A migliaia sono distesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati: non li degniamo di uno sguardo, sono cose morte…».
Il 26 gennaio gli alpini giunsero a Nikolaevka. Scrisse ancora Revelli:
«La piana è nera di gente ammassata, di colonne ferme. Dal grosso villaggio sparano. Arrivano due aerei, ronzano a lungo, così bassi che vediamo le stelle rosse sotto le ali. Dai motori pare che esca un po’ di fumo. Molti credono che gli aerei siano stati colpiti, invece sono le vampe delle mitragliere di bordo che rafficano… Urla da ogni parte, urla di chi cerca scampo, di chi non si alza più. Le colonne si sbandano, si disperdono, cercano sfogo lontano dai muli, dalle slitte… Retrocediamo, in un inverosimile frammischiarsi di muli, slitte sbandate. Anche una parte delle colonne che scendono verso Nikolaevka adesso ripiegano. È una folla immensa, che ondeggia, che preme: migliaia di uomini disarmati, senza speranza… Come sempre quando tutto sembra perduto tocca ai maledetti reparti organici andare avanti: tocca ai battaglioni di punta, alla Tridentina. I generali Reverberi e Martinat, il colonnello Adami danno l’esempio, scendono per primi verso Nikolaevka… È ormai notte, sulla massa nera, ferma che attende l’ultimo colpo di fucile per andare avanti piovono gli ultimi colpi di anticarro… A forza di urlare, infiltrarci, d’intersecare colonne, di respingere gli sbandati, raggiungiamo la ferrovia…».
A Nikolaevka fu rotto l’assedio sovietico. Faticosamente e lentamente ciò che restava dell’ARMIR tornò verso l’Italia. Di 229.000 soldati italiani inviati in Unione Sovietica, 29.690 furono rimpatriati perché feriti o infortunati, soprattutto a causa del freddo. Dei rimanenti, i superstiti furono solo 114.485. Mancarono 84.830 uomini di cui 10.030 prigionieri furono riconsegnati poi dall’URSS. Il totale delle perdite ammontò a 74.800 uomini. Molti di loro, in base ai documenti scoperti negli archivi del Partito comunista dell’Unione Sovietica, morirono di stenti nei campi di prigionia russi.
«Durante quella disastrosa ritirata in molti soldati dell’armata italiana», dice ancora lo storico Carlo Greppi, «nacque una forte avversione nei confronti dei nazisti e dei fascisti italiani che li avevano mandati alla morte. Una parte di quei soldati scelse di andare a combattere, dopo l’8 settembre del 1943, nelle file della Resistenza.
Tra loro anche Nuto Revelli che disse incontrando un gruppo di studenti nel 1961: «Maledivamo il fascismo, eccome se lo maledivamo». Il sentimento che nacque dopo la ritirata è testimoniato dai tentativi di resistenza ai tedeschi all’indomani dell’armistizio di tante divisioni dell’esercito italiano.
«Se qualcuno pensa che la scelta del 26 gennaio potesse scontrarsi con la memoria antifascista commette un errore», dice Mondini, «è proprio durante quella ritirata che in migliaia di giovani soldati diviene forte il sentimento di ribellione contro il fascismo».
Su Patria Indipendente, la rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI) gli storici Carlo Greppi, Francesco Filippi ed Eric Gobetti hanno scritto: «La legge appena votata al Senato promuove “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”, e si fa francamente fatica a comprendere come una battaglia persa, a tremila chilometri dal “suolo patrio”, combattuta nel corso di una sanguinosissima invasione, possa essere l’esempio migliore per esaltare di fronte al Paese questi valori».
Altre date, scrivono ancora, sarebbero state più adatte: «Il 6 maggio, giorno del terribile terremoto in Friuli del 1976, sarebbe stata una data più nobile da legare alla memoria delle migliaia di alpini che “invasero” quella terra martoriata aiutandola a risollevarsi dalle proprie macerie, sacrificando tempo, energie e in alcuni casi anche la vita per una causa nobile».
Quanto poi alla scelta della data, appena un giorno prima della Giornata della Memoria, rischia di creare «un cortocircuito clamoroso, che probabilmente porterà allo svilimento della memoria pubblica nel suo complesso», scrivono ancora gli storici.
«Assistiamo da tempo», dice Mondini, «a un’inflazione delle date, delle celebrazioni. Si è persa l’idea che solo alcuni momenti debbano costituire le pietre miliari della memoria collettiva. Sulle date della memoria si solleva in Italia un conflitto ideologico: c’è stato, da parte di alcuni settori della destra, la volontà di annacquare le date pilastro della nostra storia».
Nel 2018 a Livenka, la ex Nikolaevka, gli alpini hanno costruito il ponte dell’amicizia, in segno di riconciliazione con le popolazioni di quel territorio. Fu apposta una semplice targa: «Da un tragico passato un presente di amicizia per un futuro di fraterna collaborazione».
Nelle scorse settimane l’Associazione nazionale alpini ha denunciato che su alcuni siti russi era stato chiesto alle autorità di prendere provvedimenti per rimuovere dal ponte i simboli degli alpini, definiti «fascisti», come ritorsione per il sostegno dato dall’Italia all’Ucraina invasa. A inizio aprile, qualcuno ha disegnato sul ponte una grande “Z” bianca, simbolo dell’invasione dell’Ucraina, mentre delle strisce metalliche sono state utilizzate per coprire le penne nere degli alpini.