Il giorno di Jackie Robinson
Il 15 aprile del 1947 divenne il primo afroamericano a giocare una partita di baseball tra i professionisti bianchi, con i Brooklyn Dodgers
di Pietro Cabrio
Nello sport nordamericano il 15 aprile di ogni anno è il giorno di Jackie Robinson. In questa data, nel 1947, iniziò la fine della segregazione degli afroamericani nel baseball, all’epoca lo sport nazionale statunitense. Da lì il campionato di riferimento, la Major League Baseball, fin lì riservato ai giocatori bianchi, eliminò progressivamente ogni forma di segregazione.
Il 15 aprile del 1947 Robinson, seconda base di ventotto anni, nipote di schiavi e figlio di coltivatori della Georgia, scese in campo con il numero 42 al vecchio Ebbets Field di Brooklyn nella partita inaugurale della stagione tra i Brooklyn Dodgers e i Boston Braves. Fu il primo afroamericano a farlo nell’epoca moderna del baseball e della Major League.
Da lì in avanti i giocatori prima relegati nei campionati degli afroamericani – le cosiddette Negro Leagues – iniziarono a trovare sempre più spazio in Major League, che divenne un vero campionato nazionale e mise conseguentemente fine alle leghe segregazioniste. Per Robinson, tuttavia, le cose continuarono a essere complicate anche dopo quella partita.
In quegli anni gli Stati Uniti erano un paese ancora profondamente segregazionista e gli afroamericani, anche dopo il ritorno dalla Seconda guerra mondiale, continuavano a essere sistematicamente esclusi dagli ambiti pubblici, se non perseguitati impunemente negli stati più violenti.
Nel 1947 il baseball spopolava. Era l’epoca di grandi campioni presenti ancora oggi nella cultura americana, come Joe DiMaggio, Stan Musial e Ted Williams. Le squadre di Major League erano sedici e avevano sotto contratto circa 400 giocatori. C’era spazio per tutti quindi, a patto che fossero bianchi. Questo privilegio, tra le altre cose, limitava la competitività del campionato, visto che tanti giocatori erano piuttosto sicuri del loro posto in squadra e non si preoccupavano troppo della concorrenza.
Nei campionati riservati ai neri, invece, il livello si alzava costantemente, spinto dalle ambizioni personali e dalla necessità dei giocatori di guadagnarsi da vivere in un paese che non glielo permetteva così facilmente. Squadre come i Kansas City Monarchs erano sempre più note per lo spettacolo che offrivano, anche se con mezzi limitati, poche conoscenze e uno stile piuttosto amatoriale. Negli anni Quaranta Robinson iniziò a giocare proprio con i Monarchs, dopo una brillante carriera scolastica tra Pasadena e Los Angeles, poi interrotta dal servizio militare.
Durante la Seconda guerra mondiale non fu mandato a combattere perché nel 1944 finì alla corte marziale: si era rifiutato di sedersi in fondo a un autobus militare, come gli era stato ordinato dall’autista, perché nell’esercito non vigevano regole segregazioniste, almeno ufficialmente. Fu assolto al processo e mandato ad allenare gli atleti di una scuola militare in Kansas, dove poi rimase a giocare con i Monarchs.
In quegli anni, a Brooklyn, lo stravagante general manager dei Dodgers, Branch Rickey, stava pensando a come rinforzare la squadra per vincere il campionato, cosa fin lì mai riuscita da quelle parti. Era al corrente dei tanti giocatori afroamericani di qualità, e allo stesso tempo sapeva che il loro ingaggio non era vietato dal regolamento della Major League, ma soltanto da una sorta di codice non scritto che tutti davano per scontato.
Tra le schede dei giocatori esaminate da Rickey finì quella di Robinson, che aveva altissime percentuali come battitore, aveva già giocato con i bianchi – ai tempi dell’Università della California – ed era di religione metodista come lui. Nel 1946 Robinson fu quindi contattato dai Dodgers mentre girava il paese con i Monarchs e ingaggiato inizialmente per una squadra satellite, i Montreal Royals. Al loro primo incontro, Rickey gli disse, dopo averlo provocato: «Sto cercando un giocatore con abbastanza fegato da non rispondere alle provocazioni».
Robinson era sempre stato un tipo deciso, non violento e disposto a contravvenire alle regole segregazioniste. Ma da giocatore di baseball era concentrato soprattutto sul baseball. Quando parlava di sé, ripeteva spesso: «Più di ogni cosa, odio perdere». Ai Royals iniziarono inevitabilmente gli abusi nei suoi confronti, sia dai compagni di squadra che dagli avversari e dal pubblico, ma anche una serie di grandi prestazioni che col tempo iniziarono ad attirare folle mai viste per quei campionati e composte soprattutto da spettatori afroamericani incuriositi dalla sua presenza.
Rickey lo chiamò quindi ai Dodgers, dove l’11 aprile del 1947 debuttò in una partita di preparazione contro i New York Yankees e poi, quattro giorni dopo, in campionato. I primi mesi in Major League furono ancora più difficili dei precedenti, dato che i soprusi furono tanti e arrivarono da ogni parte. Nel tempo, però, Robinson trovò alcuni alleati. Uno fu l’allenatore dei Dodgers, Leo Durocher, che seguiva la linea dettata da Rickey e per far smettere gli abusi all’interno della squadra pronunciò il famoso discorso: «A me non importa se il ragazzo è giallo o nero, o se ha le strisce come una zebra. Qui comando io e lui gioca. E vi dico anche che lui ci può rendere tutti quanti ricchi. Se qualcuno di voi non ha bisogno di soldi, farò in modo di scambiarlo con qualcun altro. Basta che mi avvisate».
Un altro fu un compagno di squadra, Pee Wee Reese, a cui è attribuita un’altra famosa frase, non banale per l’epoca: «Puoi odiare un uomo per molte ragioni. Ma il colore non è una di queste». Quando però i Dodgers iniziarono a vincere in modo consistente, le cose migliorarono e il resto dei giocatori se ne fece una ragione.
Quell’anno la squadra arrivò fino alle World Series, le finali del campionato, che perse contro i New York Yankees. Robinson giocò 151 partite, segnò 125 punti e fu il giocatore che rubò più basi di tutto il campionato. Il suo rendimento gli fece vincere il premio come miglior esordiente dell’anno, premio che oggi porta il suo nome.
In dieci anni di carriera fu nominato miglior giocatore della stagione nel 1949 e per sei anni consecutivi fu inserito nella miglior squadra del campionato. Giocò sei World Series e le vinse nel 1955. Furono le prime nella storia per i Dodgers, ora una delle squadre più vincenti del campionato. L’anno dopo si ritirò ma rimase nel mondo del baseball e negli anni Sessanta divenne il primo commentatore televisivo nero della Major League, per la rete ABC.
Morì nel 1972, a soli 53 anni, per complicazioni legate al diabete e conseguenti problemi cardiaci. Pochi altri sportivi americani hanno lasciato un’eredità così vasta e ricordata. Fu celebrato postumo con francobolli e con un dollaro d’argento commemorativo. Il suo busto è nella Hall of Fame del baseball, e a lui è dedicata la “Jackie Robinson Rotunda”, il grande atrio d’ingresso allo stadio dei Mets a New York. È stato premiato sia con la medaglia presidenziale della libertà che con la medaglia d’oro del Congresso, le due più alte onorificenze degli Stati Uniti. Fra le sue frasi più citate, una la disse ai tempi dei Dodgers: «Non mi interessa piacerti o meno. Tutto ciò che chiedo è che tu mi rispetti come essere umano».
Nel settantacinquesimo anniversario della sua prima partita ufficiale con i Dodgers, tutte le squadre di Major League hanno giocato con il numero 42 stampato sulle divise. A Los Angeles il figlio di Robinson, David, e la moglie Rachel hanno assistito alla partita dei Dodgers, squadra che dieci anni dopo il debutto di Robinson lasciò Brooklyn per trasferirsi definitivamente a Los Angeles.
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