Quando le auto vinsero contro i pedoni
Negli Stati Uniti successe più o meno un secolo fa, grazie a una nuova parola che ribaltò la situazione; in Italia, invece, nemmeno ci fu bisogno di tradurla
Un secolo fa, all’inizio degli anni Venti, le automobili erano una novità. In Italia, dove ne circolavano giusto alcune decine di migliaia, quasi una rarità. Ma anche negli Stati Uniti, dove avevano iniziato a diffondersi molto prima e l’avevano fatto molto più in fretta, arrivarono abbastanza all’improvviso e si diffusero e imposero su strade che fino a pochi anni prima erano percorse da pedoni, cavalli, carri o carrozze. Tanto che nei primi anni Venti nel Novecento, negli Stati Uniti, causarono gravi problemi e migliaia di morti all’anno. Soprattutto tra i pedoni, in particolar modo tra i bambini, abituati a muoversi liberamente per strada, in contesti in cui le auto non esistevano.
Ci fu un periodo, circa un secolo fa, in cui negli Stati Uniti le proteste contro le auto e la loro intrusione nelle strade che fino a prima erano di altri furono tante e intense. Ma l’industria automobilistica reagì e riuscì – in pochissimo tempo e con grandissima efficacia – a ribaltare la situazione. A far diventare di senso comune l’idea che le strade dovessero essere delle auto, e che i pedoni dovessero essere considerati colpevoli, se investiti. Ebbe tutto parecchio a che fare con una aggressiva ed efficacissima campagna legata a una semplice parola: jaywalking, ancora oggi usata negli Stati Uniti per definire l’atto di attraversare incautamente la strada dove non è consentito.
Le principali ricerche su come e quando fu introdotto il concetto di jaywalking, e su quanto fu rilevante nell’invertire una sempre più negativa percezione delle automobili, sono state fatte dallo statunitense Peter D. Norton, storico e autore del libro Fighting Traffic. Intervistato qualche anno fa da Vox, Norton disse: «Nei primi giorni delle automobili, spettava agli autisti evitare i pedoni, non il contrario», e parlando con Bloomberg aggiunse: «Se oggi chiediamo di chi sono le strade, ci sentiamo rispondere che sono delle auto, è proprio l’opposto di quanto ci avrebbero risposto cento anni fa».
Gli “attraversamenti pedonali”, seppur senza strisce bianche parallele, sono più o meno vecchi quanto i pedoni, ed esistevano da ben prima delle automobili. Sono una di quelle cose di cui si può dire che, seppur a modo loro, “già c’erano a Pompei”. Di certo però, negli Stati Uniti, nei primi anni del Novecento, le strade erano dei pedoni più che di chiunque altro. I cavalli erano tutto tranne che una novità, i mezzi su rotaie erano prevedibili nel loro procedere e le auto rare, care, rumorose e piuttosto lente.
Le cose cambiarono quando iniziò a diffondersi la Model T voluta da Henry Ford, un’auto pensata per poter diventare di massa, che poteva raggiungere una velocità massima di circa 70 chilometri orari. Negli anni del primo dopoguerra e ancor di più nella prima metà dei “ruggenti” anni Venti, sempre più statunitensi si trovarono al volante di auto pesanti e veloci, senza che le strade, le regole e quelli che oggi chiameremmo gli “altri utenti della strada” avessero avuto tempo e modo di adattarsi a quella prorompente novità.
Nel 1924 i concessionari della Ford Motor Company erano circa diecimila, e proprio in quel periodo – in cui negli Stati Uniti vivevano più o meno 115 milioni di persone – il paese superò la significativa soglia di un’automobile ogni 10 abitanti. Nacquero i motel (abbreviazione di “motor-hotel”), i drive-in e una serie di altre attività e passatempi legati alle auto. Ma ci furono anche intense proteste da parte di chi le auto più che altro si trovò a subirle. Soprattutto nelle aree urbane, infatti, le auto divennero anche una delle principali cause di morte: in tutti gli anni Venti, soltanto negli Stati Uniti, causarono la morte di circa 200mila persone.
Le auto furono quindi viste come una grave minaccia. Vignette e fumetti rappresentarono gli autisti nei panni della “Morte”, con tanto di falce. Ci fu chi parlò di «terribile massacro da fermare», e ci fu chi fece pressioni affinché sulle auto fossero messi limitatori di velocità, un po’ come succede oggi per i monopattini elettrici.
Nel novembre 1924, un titolo a tutta pagina del New York Times parlò degli Stati Uniti come di un paese «in rivolta contro gli omicidi a motore».
L’articolo iniziava così:
«Gli orrori della guerra risultano essere meno terrificanti di quelli della pace. Le auto si stagliano come meccanismi ben più letali delle mitragliatrici. L’autista sconsiderato fa più morti dell’artigliere. Chi sta per le strade è meno al sicuro di chi sta nelle trincee. Quindicimila dei nostri uomini furono uccisi nei diciannove mesi della nostra partecipazione alla Guerra mondiale. Duemila morti al mese, un numero modesto se paragonato con l’impressionante tributo di settemila vite terminate ogni mese per gli incidenti negli Stati Uniti. L’automobile è la maggior singola causa di morte».
E conteneva questo semplice grafico:
Come ha ricordato un recente articolo scritto da Clive Thompson su Medium, nel 1922 a New York era stata organizzata una manifestazione per la sicurezza stradale: avevano marciato, tra gli altri, circa 10mila bambini e 1.054 di loro erano stati fatti camminare a parte, per rappresentare i morti causati l’anno precedente dalle auto a New York.
Sempre Thompson cita anche un dato secondo cui nel 1924, negli Stati Uniti, le auto vendute furono il 12 per cento in meno rispetto all’anno precedente. L’industria automobilistica capì che la situazione era grave e rischiava di diventare gravissima. Anzitutto, cercò di promuovere corsi e campagne di sensibilizzazione per i più giovani, per esempio andando nelle scuole a ricordare di dover far attenzione al traffico.
Soprattutto, però, l’industria automobilistica iniziò a parlare di jay walking. La parola, oggi di uso corrente nell’inglese statunitense, univa la parola “walking” (camminare) a “jay”, un termine che a inizio Novecento veniva usata per indicare, con fare dispregiativo, qualcuno poco sveglio proveniente dalla campagna, un “bifolco”.
Non è ben chiaro come e quando nacque la parola – sulla cui origine ci sono anche un paio di altre teorie con molti meno sostenitori – ma sembra che all’inizio la si usasse, a prescindere da contesti legati alle auto, per parlare di qualcuno che da fuori arrivava in città, vagando spaesato e goffo senza sapere bene cosa fare o dove andare. Grazie a un’intensa campagna, in cui i giornali nel frattempo pieni di pubblicità di automobili ebbero un ruolo rilevante, la parola prese a essere usata per riferirsi ai pedoni che attraversavano la strada con noncuranza.
In sintesi, chi guidava – e poteva permettersi un’auto – era il futuro e stava nel giusto. Chi restava pedone, e nemmeno riusciva a capire quando e come far passare le auto, era il passato, era tagliato fuori. Più che una campagna di responsabilizzazione, fu per certi versi un’efficacissima opera di colpevolizzazione delle vittime.
Ci fu chi provò a reagire, tra le altre cose provando a parlare di jay driving, ma jay walking ebbe fortune ben maggiori, peraltro diventando un’unica parola: jaywalking.
A questo proposito, Norton descrive un evento organizzato negli anni Venti a New York in cui un clown che non sa bene come attraversare una strada viene ripetutamente colpito, a bassissima velocità, da una Model T, per la quale – assistendo alla scena – si finisce evidentemente per parteggiare.
Nella seconda metà degli anni Venti, le vendite di auto tornarono a salire: di morti e stragi stradali negli Stati Uniti si parlò sempre meno, con altri toni e minor frequenza.
Intanto, le auto in Italia erano soltanto una ogni 500 abitanti circa: pochissime, anche rispetto a paesi come Francia, Germania e Regno Unito. All’auto ogni dieci abitanti si arrivò solo nel 1965, con quarant’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti. Quello che là avevano fatto le Model T, qui lo fecero le 600 e ancor più le 500 della FIAT.
Matteo Dondè – architetto e urbanista esperto in temi riguardanti la mobilità ciclistica e la moderazione del traffico – spiega che, in effetti, quello che negli Stati Uniti successe nel primo dopoguerra, in Italia successe nel secondo. Però in modo diverso, perché era diverso il periodo e il contesto. Secondo lui, per l’Italia fu «rappresentativo il tema delle piazze, luoghi pubblici per eccellenza che, da un momento all’altro, divennero spazi da dedicare alle automobili». Successe a piazza Duomo a Milano, a piazza del Campo a Siena e perfino a Roma attorno al Colosseo, «senza che nemmeno le case automobilistiche dovessero impegnarsi come avevano fatto in America».
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In altre parole, prosegue Dondè, successe tutto in modo pressoché naturale, perché – anche senza l’influenza attiva della «forza comunicatrice» delle comunque potenti e influenti case automobilistiche – in Italia «il paese dei piccoli comuni, l’auto fu ancor più che altrove elemento di libertà». Una certa vittimizzazione dei pedoni fu quindi una conseguenza della diffusione delle auto, più che qualcosa di pianificato dall’alto.
Non esiste, in italiano, una singola parola per tradurre il concetto di jaywalking, ma secondo Dondè il pensiero alla base del concetto è comunque ben presente. Sta per esempio nel significato stesso della parola “incidente”, o nella percezione di molte morti stradali come di “fatalità”, o anche in espressioni come “auto che si ribalta”, “pirata della strada”. O ancora, nei riferimenti, anche recenti e istituzionali, ai pedoni come a soggetti che «vanno educati» e che comunque devono restare subordinati alle auto.
Sempre a questo proposito, Dondè cita – e critica – una recente campagna del comune di Milano – «considerato tra i più avanzati sull’argomento» – che però ruota attorno all’avverbio “gentilmente”, e che invita gli automobilisti a rispettare i diritti dei pedoni per l’appunto gentilmente, come se fosse una concessione.
Secondo Dondè, la campagna di sensibilizzazione civica “gentilmente” (di cui non è l’unico critico) è nel suo piccolo un recente ed ennesimo esempio di una generale percezione italiana, secondo cui «i pedoni spesso si sentono in dovere di ringraziare l’auto che li fa attraversare sulle strisce». Secondo il codice della strada, in assenza di attraversamenti pedonali, e sovra o sottopassaggi – o se questi sono lontani più di cento metri dal punto di attraversamento – il pedone può invece attraversare la carreggiata, a patto che lo faccia perpendicolarmente e su strade in cui è ammessa la sua presenza.
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Addirittura, prosegue, «nei quartieri residenziali [spesso appartenenti alle cosiddette “zone 30”, di cui Dondè si occupa] dei paesi più avanzati sui temi della mobilità sostenibile e della sicurezza stradale non esistono strisce pedonali e il pedone ha sempre priorità e può attraversare dove vuole». Insomma, qualcosa – soprattutto altrove – si sta muovendo, con l’obiettivo di cambiare una percezione che sembra esserci da sempre, e che invece esiste soltanto da un secolo negli Stati Uniti e da qualche decennio in meno anche in Italia.
È però un modo di pensare e vedere le cose che resiste e persiste: anche altrove, per esempio in Canada, si continua infatti a colpevolizzare l’atto del jaywalking, e a far sentire il pedone responsabile primario di ogni eventuale “incidente”.
Quebec came up with an interesting way to raise awareness about jaywalking 🚷 pic.twitter.com/U2iIU8ZSqV
— Nigel D'Souza (@Nigel__DSouza) January 16, 2022