La dibattuta posizione dell’ANPI sulla guerra in Ucraina
La principale associazione partigiana ha fatto discutere per qualche dichiarazione giudicata assai morbida con la Russia
Il massacro dei civili ucraini compiuto dalle forze russe nella cittadina di Bucha, nei pressi di Kiev, è stato condannato con parole molto dure da innumerevoli partiti politici e associazioni in tutta Italia. Si sta discutendo molto, però, di una condanna apparentemente più timida di un’associazione che ha un peso specifico molto importante nel dibattito italiano, soprattutto quando si parla di guerra: l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, o ANPI.
Il 4 aprile l’ANPI ha pubblicato uno stringato comunicato in cui condannava «fermamente» la strage di Bucha, ma al contempo chiedeva una commissione di inchiesta internazionale «per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili».
Questa posizione, arrivata dopo che la responsabilità delle forze russe era stata estesamente acclarata da giornalisti e osservatori indipendenti, è stata interpretata da alcuni come eccessivamente morbida nei confronti della Russia, anche da sinistra: la rivista culturale Micromega, per esempio, l’ha definita «oscena». Il giorno dopo il presidente dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo, ha ritenuto di precisare all’ANSA che «siamo stati probabilmente tra i primi a condannare l’invasione», e che le polemiche sono dovute a «un pregiudizio di alcune persone e alcune aree contro l’ANPI».
Non è la prima volta dall’inizio dell’invasione russa, però, che l’ANPI viene accusata di assumere posizioni del genere: che sono comunque più sfumate di come appaiono, e che si spiegano con la storia e l’evoluzione dell’associazione.
«La nostra è una posizione chiara, limpida, che nasce da lontano e ha basi solide», dice Mauro Magistrati, segretario della sezione dell’ANPI di Bergamo e membro del comitato di presidenza all’ultimo congresso, che si è tenuto a Riccione a fine marzo. «Ed è una posizione che non è riducibile né alla coppia bianco-nero o amici-nemici, né alla militarizzazione della politica e della comunicazione che sta avvelenando da qualche settimana il dibattito pubblico».
L’ANPI nacque verso la fine della Seconda guerra mondiale, il 6 giugno del 1944, a Roma, il giorno dopo l’arrivo in città dell’esercito statunitense. Nel resto d’Italia si combatteva ancora e la guerra sarebbe andata avanti per quasi un anno. Il 5 aprile del 1945, venti giorni prima dell’insurrezione che da allora viene celebrata come giorno della Liberazione, l’ANPI divenne l’associazione che rappresentava tutti i gruppi che avevano combattuto nel corso della guerra: le Brigate Garibaldi, formate dal Partito Comunista, le Brigate Matteotti, formate soprattutto da socialisti, gli indipendenti della Brigata Giustizia e Libertà e i cattolici.
La storia di quell’ANPI, però, durò poco. Subito dopo la fine della guerra il clima politico in Italia era molto teso. Ci furono omicidi, vendette personali e scontri tra gruppi opposti di partigiani. Quando nel maggio del 1947 cadde il governo di unità nazionale sostenuto da democristiani e comunisti, molti temevano che potesse iniziare una guerra civile tra comunisti e anti-comunisti come quella in corso in Grecia. In questo scenario, molti consideravano i partigiani comunisti il nucleo intorno al quale il PCI avrebbe costruito una milizia fedele all’Unione Sovietica: i loro sospetti sembrarono in parte confermati quando nel novembre del 1947 migliaia di sostenitori del partito comunista, tra cui molti partigiani armati, occuparono per alcune ore la prefettura di Milano.
Alla fine non ci fu nessuna guerra civile, ma rimasero fortissime divisioni politiche tra i comunisti filosovietici e gli altri partigiani. Lo scontro si concretizzò nel primo congresso nazionale dell’ANPI, tenuto nel 1948, al termine del quale le correnti non comuniste «decisero di imboccare una strada diversa rispetto alla corrente frontista, che iniziava a distinguersi sempre di più per una linea filosovietica», come ha sintetizzato di recente la ricercatrice Francesca Somenzari.
Nel 1948 i cattolici uscirono dall’ANPI per fondare la FIVL (Federazione Italiana Volontari per la Libertà). L’anno dopo uscirono dall’ANPI anche i socialisti e i membri di Giustizia e Libertà, che fondarono la Federazione italiana delle associazioni partigiane (FIAP). La divisione delle associazioni partigiane ricalcò una divisione simile avvenuta nei sindacati, che proprio in quegli anni si separarono tra CGIL, CISL e UIL.
Negli anni il legame fra l’ANPI e la CGIL si è rafforzato, tanto che in alcune realtà locali l’associazione e il sindacato sono state a lungo indistinguibili. Questo ha fatto sì che la storia di un’associazione nata per rappresentare un gruppo di reduci di una guerra civile – che in realtà sono una quota sempre più esigua degli iscritti, per ragioni anagrafiche – si sia di fatto saldata con quella della sinistra politica. Anche per questo in passato l’ANPI ha quasi sempre sposato cause che appartenevano a quel mondo, come per esempio l’opposizione netta ai governi di Silvio Berlusconi, e più di recente la contrarietà alle proposte dei referendum costituzionali del 2016 e del 2020.
Fin dalla sua fondazione l’ANPI si è sempre battuta contro ogni guerra e a favore della pace. Ma a partire dai primi anni Duemila il pacifismo di sinistra, soprattutto in Europa, ha assunto una forma molto precisa, saldando le proteste per gli interventi militari dell’Occidente in Afghanistan e Iraq con quelle di natura economico-sociale contro un modello di sviluppo fieramente capitalista, promosso proprio dai governi statunitensi.
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Oggi il mondo è cambiato, gli Stati Uniti sono sempre più restii a intervenire in giro per il mondo e il paese che con la sua politica estera aggressiva sta condizionando lo scenario globale è diventata la Russia. Eppure molti osservatori rimangono convinti che i semi delle crisi che il mondo sta vivendo in questi anni, che riguardano sia la sicurezza ma anche le disuguaglianze economiche, siano stati gettati proprio dall’Occidente e dagli Stati Uniti, e continuano a rivendicare questa lettura.
In un comunicato pubblicato dall’ANPI due giorni prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina si legge per esempio un invito alla NATO a non condurre «una politica di potenza», e nelle primissime righe viene condannata «la sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della NATO ad est vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia»: una lettura molto parziale degli eventi degli ultimi anni, e comunque assai accomodante nei confronti della Russia.
Diversi dirigenti dell’ANPI rivendicano comunque che la posizione dell’ANPI non rappresenti una posizione di equidistanza rispetto alla Russia e all’Ucraina; così come i movimenti pacifisti che difendono lo slogan “né con la NATO né con Putin” indicano molto chiaramente le responsabilità della Russia e la piena legittimità della resistenza ucraina.
«Così come noi avevamo un invasore tedesco, gli ucraini hanno un invasore russo», ha spiegato Michele Galante, ex deputato del Partito Comunista Italiano e oggi presidente dell’ANPI di Foggia. «Così come era legittima la resistenza contro l’invasore tedesco e gli aguzzini della Repubblica Sociale Italiana, così in Ucraina è legittima la difesa armata, come peraltro sancito da tutti gli organismi internazionali».
All’interno dell’ANPI, comunque, c’è grande cautela nel paragonare la Resistenza italiana a quella che stanno portando avanti gli ucraini in queste settimane. «Credo che in Ucraina si stia sviluppando una resistenza popolare», dice Roberto Cenati, storico segretario dell’ANPI di Milano. «Penso però che sia sbagliato accostare due momenti storici profondamente diversi: la resistenza italiana ed europea sono state fenomeni straordinari contro il tentativo nazi-fascista di imporre un ordine nuovo in Europa che prevedeva lo sterminio degli ebrei. Qui siamo di fronte a uno scenario gravissimo, ma completamente diverso, di uno stato antidemocratico che cerca di schiacciare un altro paese», dice Cenati, evocando la prudenza di quanti non ritengono che in Ucraina sia in corso un vero e proprio genocidio; o forse, non ancora.
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A detta dei dirigenti e simpatizzanti dell’ANPI con cui ha parlato il Post, comunque, all’interno dell’associazione c’è un’ampia condivisione dei toni e dei modi usati dal presidente Pagliarulo e più in generale delle posizioni prese dall’inizio della guerra. E anche chi esprime posizioni diverse, secondo i dirigenti, lo fa senza grandi polemiche. «Non siamo una caserma», dice Galante: «e dobbiamo ricordarci che nella storia d’Italia la guerra ha diviso partiti, sindacati, governi e alleanze, e lo farà sempre».