I russi stanno compiendo un genocidio in Ucraina?
Ne stanno discutendo esperti e giuristi, con qualche scetticismo, anche per la difficoltà di definire il reato di “genocidio”
Le notizie provenienti dall’Ucraina, le foto e le testimonianze dalle zone liberate dopo l’occupazione russa, il quotidiano aggiornamento degli orrori e delle violazioni delle leggi internazionali hanno imposto a osservatori ed esperti di diritto di interrogarsi sulla definizione di ciò che sta accadendo; e uno dei temi più discussi, anche se tra un po’ di scetticismo, è se in Ucraina sia in corso o meno un genocidio.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky già un mese fa aveva definito il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol «l’ultima prova che il genocidio degli ucraini sta avvenendo». L’accusa è stata poi ribadita dallo stesso Zelensky diverse volte, l’ultima dopo le numerose prove di violenze, uccisioni e torture contro i civili nella cittadina di Bucha, nella periferia di Kiev. Se è ormai evidente che l’esercito russo si è reso colpevole in Ucraina di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, non tutti gli esperti sono concordi nell’indicare che un genocidio sia già in atto, per la complessità nel definirlo e provarlo. La maggior parte dice che non si possa parlare di genocidio, anche se mette in guardia sul rischio che la Russia possa commetterlo.
L’esistenza del dibattito non implica giudizi differenti sulla gravità dei crimini che si stanno perpetrando in Ucraina: il genocidio è solo uno dei capi d’accusa, molti dei quali altrettanto gravi, che gli organi di giustizia internazionali hanno codificato dopo la Seconda guerra mondiale. Già a fine febbraio Karim Ahmad Khan, Procuratore capo della Corte Penale Internazionale, ha avviato un’indagine «perché sussistono ragionevoli basi per ritenere che siano stati commessi sia crimini di guerra sia crimini contro l’umanità».
L’esistenza o meno di un genocidio non avrà probabilmente conseguenze legali per la Russia nel breve periodo né può modificare in alcun modo le sofferenze che la popolazione ha subito e sta subendo. Può però avere un peso importante non solo nel giudizio storico dei fatti, ma anche nelle decisioni politiche internazionali, quali ad esempio un inasprimento delle sanzioni nei confronti del governo russo.
Il genocidio viene definito dal diritto internazionale come la sistematica distruzione, nella sua totalità o in parte, di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa. Presuppone appunto «l’intenzione di distruggere» attraverso uno o più di questi atti: uccisione; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale; imposizione di condizioni di vita volte a provocare la distruzione fisica, totale o parziale del gruppo; misure per impedire le nascite; trasferimento forzato di bambini.
Il termine “genocidio” fu inventato nel 1943 dall’avvocato polacco di origine ebraica Raphael Lemkin, che aveva vissuto in prima persona gli orrori dell’Olocausto, con l’uccisione di tutti i membri della sua famiglia eccetto un fratello. Nel libro Axis Rule in Occupied Europe combinò la parola greca ghenos (“razza”, “stirpe”), con quella latina caedo (“uccidere”). La sua campagna di sensibilizzazione per il riconoscimento del genocidio portò all’adozione da parte dell’ONU della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” nel dicembre 1948, diventata poi effettiva nel 1951.
La definizione, apparentemente chiara, nasconde però una serie di complicazioni legali sulle condizioni in base alle quali il termine può essere applicato. Sin dalla sua approvazione la Convenzione è stata criticata in due direzioni opposte: secondo molti la definizione è troppo difficilmente applicabile a casi specifici e risulta essere troppo stringente; secondo altri si presta invece per un uso eccessivo. Questo ha creato i presupposti per dibattiti e distinguo che interessano molti dei presunti casi di genocidio.
Quelli universalmente riconosciuti sono il genocidio armeno da parte dell’Impero Ottomano fra il 1915 e il 1920 (tuttora negato solo dalla Turchia), l’Olocausto, che portò alla morte di sei milioni di ebrei, e lo sterminio di 800mila tutsi perpetrato dagli hutu in Ruanda nel 1994. In una prospettiva storica più ampia possono essere considerati genocidi anche le guerre coloniali in Sud America e lo sterminio delle popolazioni indigene in Nord America.
In tempi più recenti processi per genocidio sono stati intentati da tribunali internazionali speciali (la Corte Penale Internazionale dell’Aia, tribunale permanente, è operativa soltanto dal 2002) contro il regime dei Khmer Rossi, che portò alla morte di 1,7 milioni di cambogiani, e per il massacro della popolazione musulmana di Srebrenica durante la guerra in Bosnia nel 1995. I recenti casi delle persecuzioni delle minoranze musulmane dei rohingya in Myanmar o degli uiguri in Cina – per i quali non ci sono ad oggi incriminazioni ufficiali – testimoniano la difficoltà di provare in sede legale il reato di genocidio.
Il dibattito sull’Ucraina è aperto, nonché condizionato dalla continua evoluzione delle notizie sui fatti, venuti alla luce solo parzialmente e in tempi molto recenti.
Secondo diversi osservatori ci sono numerosi elementi che rendono quanto accaduto compatibile con la definizione degli atti di un genocidio. Le uccisioni indiscriminate di civili, i rapimenti, la tortura, gli stupri, il bombardamento di zone residenziali e la deportazione in Russia di ampie fette di popolazione, bambini inclusi, sono i capi d’accusa più evidenti. Ma anche la distruzione di impianti elettrici e idrici, il blocco degli aiuti umanitari e la privazione dei rifornimenti di cibo per le città assediate costituiscono una volontaria imposizione di condizioni volte a causare la distruzione fisica e mentale di una popolazione.
Il professor Alexander Hinton, studioso di Diritti Umani alla Rutgers University, ha aggiunto altri due elementi in un intervento su The Conversation: la lunga storia di violenze della Russia e la propaganda.
Hinton sottolinea i numerosi episodi di violenza di massa russa contro ucraini e altri gruppi, ricordando le politiche agricole che portarono fra il 1932 e il 1933 alle carestie che causarono la morte di milioni di ucraini (noto come Holodomor, “sterminio per fame” in una espressione ucraina), le deportazioni di gruppi nazionali o etnici, le purghe politiche: «Anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica la Russia si è resa colpevole di violenze di massa contro i civili in Cecenia, Georgia e Siria». Non sarebbe la prima volta nella storia, insomma, che la Russia attacca intere popolazioni che vivono dentro a quella che la classe dirigente russa percepisce come la propria legittima area di influenza.
Indicatori di un possibile genocidio arrivano poi dalla propaganda, che svaluta e demonizza le popolazioni che sono considerate obiettivo: andrebbero interpretate in questo senso le dichiarazioni sulla denazificazione e la definizione da parte di Putin della classe dirigente ucraina come «un gruppo di drogati e neonazisti». La stessa negazione della legittimità dell’esistenza dell’Ucraina come nazione può essere un chiaro indicatore dell’“intento di distruggere”.
Secondo altri studiosi è opportuno invece maneggiare il concetto di genocidio con maggiore prudenza.
Alain Destexhe, ex segretario generale di Médecins Sans Frontières, nel suo libro Rwanda and Genocide in the Twentieth Century, descrive il genocidio come «un crimine che si pone su una scala differente rispetto a tutti gli altri, e implica l’intenzione di uno sterminio completo di un determinato gruppo». Partendo da questa considerazione Destexhe sottolinea il rischio che il termine subisca «una sorta di inflazione verbale, analoga a quella vissuta dalla parola ‘fascismo’, diventando un pericoloso luogo comune».
Riguardo al caso specifico attuale c’è chi sottolinea, come Dominique Fraser su The Interpreter (giornale dell’organismo di studi indipendente australiano Lowy Institute), che «l’atrocità dei crimini è sconvolgente, ma al momento non esistono prove che dimostrino l’intenzione deliberata di distruggere un gruppo preciso: le bombe cadono sui civili e le infrastrutture indipendentemente dalla loro identità, mentre i cittadini ucraini in Russia o altrove non sono diventati obiettivi di attacchi». Anche chi, come Fraser, considera premature le discussioni sull’esistenza di un genocidio non nega la possibilità che gli attuali accadimenti possano, quando il quadro delle informazioni sarà più completo, assumere quella dimensione.
Gli esperti sottolineano però come questo dibattito possa essere una distrazione rispetto a decisioni più necessarie per rispondere ai crimini in atto e rischi di essere poco rilevante dal punto di vista legale. Da una parte esistono capi d’accusa evidenti e sufficienti per far comparire come imputati per crimini di guerra i leader russi (Putin in testa), dall’altra le possibilità di arrivare a un processo e a una condanna sono pressoché nulle.
Le indagini sono lente e complesse, la Corte Penale Internazionale non è mai stata riconosciuta dalla Russia e nemmeno, peraltro, dagli Stati Uniti. Le più che comprensibili denunce da parte del governo ucraino hanno d’altra parte un non trascurabile intento politico, mentre la definizione della consistenza delle accuse di genocidio per la Russia diventerà un dovere per gli storici in un futuro prossimo.