Il test di Rorschach è ancora famosissimo
Fu inventato da un giovane psichiatra svizzero morto un secolo fa: divide gli psicologi ma persiste nell’immaginario collettivo
Il giorno della sua morte – avvenuta cento anni fa, il 2 aprile 1922, per una peritonite – lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach aveva soltanto 37 anni. Da sette anni lavorava al Krombach, l’ospedale psichiatrico di Herisau, il paesino collinare nel nord della Svizzera in cui trascorse una lunga parte della sua vita; e pochi mesi prima, nel 1921, aveva pubblicato Psychodiagnostik, un libro di psichiatria che conteneva i risultati dei suoi studi sui pazienti dell’ospedale e il test delle macchie per cui Rorschach sarebbe diventato molto famoso – lo è tuttora – alcuni anni dopo la sua morte.
Rorschach – che era nato l’8 novembre 1884 a Zurigo, e lì si era laureato in medicina – sviluppò il test nel 1917, mentre cercava di individuare uno strumento utile per la diagnosi della schizofrenia. Riteneva possibile classificare in modo sistematico i pazienti sulla base della loro interpretazione di una serie di suoi disegni astratti, composti da macchie simmetriche. Il suo metodo fu per anni ampiamente utilizzato come strumento per le diagnosi in psichiatria e anche per le valutazioni degli individui in molti altri contesti, ma fu in seguito criticato per l’eccessiva variabilità soggettiva nell’interpretazione dei risultati.
Le controversie sull’affidabilità del test non impedirono alle macchie di Rorschach di diventare in assoluto tra le immagini più presenti nell’immaginario collettivo e le più riprodotte e riconoscibili nella cultura popolare tra quelle tratte dal mondo della psichiatria.
Nel 2011, ampie riproduzioni delle tavole di Rorschach furono utilizzate come sfondo per le vetrine dei famosi grandi magazzini Bergdorf Goodman a New York. Il video di una delle più popolari canzoni degli anni Duemila, “Crazy” di Gnarls Barkley, è un’animazione fatta di macchie bianche e nere che cambiano forma di continuo. Uno dei personaggi di Watchmen, famosa e apprezzata graphic novel di Alan Moore, si chiama Rorschach ed è un uomo che porta sul volto una maschera bianca su cui sono disegnate macchie di inchiostro nero simmetriche. Le macchie di Rorschach sono citate in numerosi altri libri, film e videogiochi, e riprodotte su capi di abbigliamento e oggetti di uso quotidiano.
Durante il periodo di massima diffusione in ambito clinico, tra gli anni Quaranta e Sessanta, il test di Rorschach era utilizzato regolarmente – più di quanto lo sia ancora oggi – anche negli ambienti di lavoro, per le selezioni del personale, o in ambito forense, per esempio nei processi per ottenere la custodia dei figli. Al test furono sottoposti, tra i tantissimi altri, gli ufficiali nazisti durante il processo di Norimberga. L’idea che un’interpretazione delle macchie d’inchiostro potesse rivelare aspetti della personalità di un individuo fu tuttavia oggetto di crescenti contestazioni nel corso degli anni Settanta e Ottanta, sollevate da una parte della psichiatria e anche dell’opinione pubblica. Circostanza che contribuì a ridurre la diffusione del test ma non la sua popolarità tra le masse.
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Rorschach era figlio di un pittore e insegnante di disegno, e prima di studiare medicina aveva pensato di intraprendere la carriera artistica. Nel 1917 si interessò ad alcuni esperimenti di uno studente di medicina polacco, Szymon Hens, che aveva scritto una tesi sulle macchie di inchiostro nella diagnostica psichiatrica. Fu all’epoca che Rorschach sviluppò un esperimento sulla percezione che prevedeva l’utilizzo di dieci suoi disegni originali – macchie di inchiostro a colori perfettamente simmetriche – riprodotti su fogli di cartoncino. E notò soltanto in un secondo momento che i pazienti malati di schizofrenia tendevano a fare associazioni del tutto diverse da quelle fatte dal resto delle persone.
Il test fu in seguito utilizzato non soltanto nella diagnosi della schizofrenia ma, in generale, come una delle più affidabili tecniche “proiettive” della psichiatria, tecniche che prevedono di sottoporre il paziente a stimoli visivi intenzionalmente ambigui. Il compito del soggetto è in genere fornire una descrizione di ciò che vede oppure esprimere un pensiero o raccontare una storia ispirati dall’immagine rappresentata. L’idea alla base del test di Rorschach è che la mente del paziente a cui sia mostrata un’immagine ambigua e senza alcun senso tenti di interpretare comunque quell’immagine come qualcosa di sensato, rivelando aspetti della personalità del soggetto del test.
Il test si basa infatti su un fenomeno chiamato pareidolia, la normale e non patologica tendenza a vedere immagini familiari dove in realtà non ne esistono. Percepire volti o sorrisi in oggetti inanimati, per esempio, oppure figure religiose in formazioni carsiche, nel cibo o tra le nuvole. È un fatto generalmente ritenuto poco significativo, se non nella misura in cui vedere connessioni tra cose non correlate indica un normale funzionamento del cervello. La tesi di Rorschach era che le interpretazioni delle macchie fornite dai suoi pazienti potessero aiutarlo a valutare il loro stato psicologico.
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Quelle immagini – che, come scrisse poi Rorschach in Psychodiagnostik, possedevano il «ritmo spaziale» necessario a donare alle immagini una «qualità pittorica» – furono mostrate nel corso dei decenni a moltissime persone. In genere, quelle osservate dalla maggior parte di noi in circostanze ordinarie, e cioè nei libri, nelle pubblicità, nella moda e nell’arte, sono invece versioni alternative delle macchie, riprodotte imitando quelle del test originale.
Il codice etico dell’American Psychological Association – la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti – prevede infatti che i materiali del test, pur essendo ormai di pubblico dominio, non siano divulgati. Molti psicologi sostengono che essere esposti alle immagini prima di sottoporsi al test condizioni i risultati e limiti l’efficacia diagnostica di questo strumento. Per questa ragione nel 2009 la pubblicazione su Wikipedia di una serie di risposte più comuni al test, risposte generalmente a disposizione soltanto degli specialisti che somministrano il test, provocò un esteso dibattito.
Per rispetto verso la comunità degli psicologi la maggior parte delle macchie di Rorschach osservabili nella vita quotidiana, anche quelle riportate in molti manuali o esposte nelle mostre nei musei, è il risultato di una riproduzione abbozzata o modificata delle tavole originali. Tavole che furono comunque riprodotte per la prima volta in alcune pubblicazioni, tra gli anni Settanta e Ottanta, e sono ancora oggi reperibili su Internet.
Come raccontato dallo scrittore e traduttore americano Damion Searls nel libro Macchie di inchiostro. Storia di Hermann Rorschach e del suo test, un’apprezzata biografia dello psichiatra svizzero, il sistema ideato da Rorschach prevedeva di assegnare una lettera a ogni risposta data dal paziente: “F” se la risposta si concentrava sulla forma, “M” se veniva fatto riferimento al movimento e “C” se veniva prima indicato il colore.
Una grande quantità di risposte di tipo M indicava una maggiore «vita psichica interiore», scrisse Rorschach, ed «energia introversa, tendenza a rimuginare e – da prendere con le pinze – intelligenza». Le persone che si concentravano maggiormente sul colore erano invece ritenute da Rorschach meno razionali e più emotive, sulla base di una credenza molto diffusa. Il paziente con segni di schizofrenia, secondo Rorschach, tendeva a dare un maggior numero di risposte di questo tipo, o si rifiutava del tutto di dare risposte. La maggior parte delle persone forniva risposte di tipo F, relative alla forma: era il caso ritenuto da Rorschach più comune e quindi meno diagnostico e significativo.
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Sebbene siano tra le immagini più analizzate e studiate del Ventesimo secolo, scrive Searls, in ambito accademico non esiste una posizione univoca e condivisa riguardo alla validità del test di Rorschach. Ritenuto per decenni uno dei metodi più efficaci per diagnosticare i disturbi della personalità, fu utilizzato sempre meno a partire dagli anni Ottanta. I sostenitori della validità del test, all’interno della comunità degli psicologi, lo considerano ancora oggi uno strumento in grado di mostrare il funzionamento di alcuni processi mentali e che può contribuire a individuare una serie di malattie psichiche che né altri test né l’osservazione diretta sarebbero in grado di rilevare.
I più convinti detrattori del test ritengono invece che sia uno strumento pseudoscientifico, paragonabile per credibilità al siero della verità o la terapia dell’urlo primario, e trovano il suo utilizzo non giustificato dall’evidenza clinica. Dal loro punto di vista, la presunta efficacia del test consisterebbe piuttosto nella sua capacità di condizionare persone particolarmente suggestionabili inducendole a credere al suo valore diagnostico e predittivo rispetto a determinati comportamenti e condizioni patologiche.
Una revisione di ricerche e studi scientifici condotti in oltre 50 anni sulle tecniche proiettive, pubblicata nel 2000 sulla rivista Psychological Science in the Public Interest, concluse che esiste un limitato supporto empirico – «debole nel migliore dei casi e inesistente nel peggiore dei casi» – della validità del test di Rorschach rispetto ad altre misurazioni psicometriche. Secondo gli autori della revisione, gli studi mostrarono inoltre che a circa la metà dei normali partecipanti al test di Rorschach, casi considerati non patologici, era stata attribuita una qualche distorsione cognitiva: un tasso di falsi positivi straordinariamente alto.
«Se gli psicologi usassero le foglie di tè al posto del test di Rorschach probabilmente sarebbe meglio, perché così se non altro nessuno prenderebbe sul serio i risultati», disse al Washington Post uno degli autori dello studio, James Wood, docente di psicologia alla University of Texas a El Paso.
Un’altra revisione pubblicata nel 2013 dall’American Psychological Association definì invece il test di Rorschach, se correttamente somministrato e interpretato, uno strumento di aiuto nel fornire informazioni affidabili su come le persone percepiscono l’ambiente circostante, come formano idee e concetti, come gestiscono le situazioni di stress e come vedono sé stesse e le altre persone.
Come ha scritto Searls nella biografia su Rorschach, tra le persone comuni si tende a non credere all’efficacia del test in parte a causa della mancanza di unanimità nella comunità scientifica ma soprattutto per una diffidenza generalizzata nei confronti degli esami psicologici. Un’opinione molto diffusa riguardo al test è che un esame di questo tipo non possa fornire un risultato incontestabile, qualcosa di simile al quoziente intellettivo o, ancora meglio, agli esami del sangue. E d’altronde, come afferma Searls, «nulla che aspiri a rendere conto della mente umana potrebbe risolversi in una semplice cifra».
L’ambiguità del test di Rorschach – sebbene fosse stato da lui sviluppato come un metodo di indagine rigoroso – è per altri versi considerata proprio una delle principali ragioni storiche della sua popolarità e presenza nell’immaginario collettivo. A renderlo un test perfetto per le masse, secondo Searls, furono le persone «alla disperata ricerca di uno strumento che avrebbe fatto loro conoscere meglio se stesse». Era un test che non si poteva non passare, perché non esistono risposte giuste o sbagliate. Ed è questo l’aspetto che lo rese «la perfetta esemplificazione di una cultura, quella dagli anni Sessanta in poi, diffidente nei confronti delle autorità e decisa nel rispettare ogni singolo punto di vista».