Per le università del Sud rischia di andare sempre peggio
Se non verranno studiati dei correttivi avranno sempre meno studenti, e meno preparati, rispetto alle università del Nord
Le università del Sud hanno servizi più arretrati rispetto a quelle del Nord, scarse capacità di sfruttare i fondi statali ed europei, cosa che quindi comporta meno finanziamenti, e molti meno studenti, mediamente con risultati accademici peggiori. Se non ci saranno cambiamenti, nei prossimi anni le cose peggioreranno: al Sud rischiano di rimanere sempre meno studenti, e mediamente meno bravi, un grosso problema che contribuirà ad aggravare le già evidenti differenze con le università del Nord.
Non è una novità e se ne discute da anni, ma la Banca d’Italia ha realizzato un nuovo studio intitolato “Il sistema universitario: un confronto tra Centro-Nord e Mezzogiorno” in cui illustra vari limiti di un sistema poco equo, che dà più risorse economiche a chi ne ha già e aiuta solo parzialmente gli atenei meno competitivi. Oltre a spiegare le ragioni di queste differenze, i ricercatori Vincenzo Mariani e Roberto Torrini suggeriscono alcune possibili soluzioni e correttivi. Come è facile immaginare, oltre a un notevole sforzo culturale e organizzativo serviranno molti soldi e criteri adeguati per non sprecarli.
Lo studio di Mariani e Torrini si concentra in particolare su tre aspetti: l’andamento delle iscrizioni, i risultati degli studenti e la scarsità delle risorse umane ed economiche.
Nell’anno accademico 2019/2020, nelle università italiane si sono immatricolati 313mila studenti di cui il 37 per cento residente nelle regioni del Sud. L’anno accademico successivo, nonostante la pandemia, il numero degli immatricolati è aumentato: sono stati 329mila. Negli ultimi anni il numero degli studenti è cresciuto, come era successo negli anni precedenti, ma con significative differenze territoriali. Tra il 2013 e il 2019, infatti, gli immatricolati nelle regioni del Centro-Nord sono cresciuti del 20 per cento, mentre quelli del Sud del 10 per cento.
Il divario si spiega in parte con la riduzione della popolazione, un problema demografico noto che peggiorerà nei prossimi anni: le proiezioni basate sui dati dell’ISTAT prevedono che nel 2030 ci sarà il 13 per cento in meno di giovani nelle regioni del Sud e un aumento del 3 per cento al Nord. Entro il 2040, invece, si prevede un generale peggioramento dell’andamento demografico, con un calo del 22 per cento dei giovani al Centro-Nord e del 33 per cento nelle regioni meridionali.
A questi presupposti demografici si aggiungono altre considerazioni, una delle quali riguarda la mobilità in uscita, che storicamente caratterizza le regioni meridionali. Nel 2019, a fronte del 37 per cento di studenti del Sud sul totale degli universitari italiani, solo il 29 per cento ha deciso di iscriversi nella regione di residenza. Non è un problema di per sé, anzi, in tutto il mondo la mobilità universitaria è considerata un’opportunità di sviluppo culturale e sociale. Se si parla delle università del Sud, però, bisogna tenere conto che il fenomeno della mobilità è prevalentemente a senso unico: gli studenti si spostano quasi soltanto dal Sud al Nord con conseguenze significative su quello che viene chiamato “capitale umano”.
In questo caso la mobilità per motivi di studio, infatti, tende a diventare una migrazione. I dati sono chiari: nel 2018, un quarto di studenti e studentesse del Sud si è iscritto nelle università del Centro-Nord. In termini assoluti si tratta di 25mila studenti ogni anno, un numero elevato se confrontato per esempio con il dato dei cambi di residenza: ogni anno sono circa 37mila le persone che si trasferiscono dalle regioni del Sud al Centro-Nord.
I dati dicono che si trasferiscono al Nord gli studenti più preparati e provenienti da famiglie con condizioni economiche migliori. Molto si spiega con le maggiori possibilità delle famiglie benestanti di sostenere i costi del trasferimento, degli affitti e del costo della vita, giudicate spese giustificate per le maggiori opportunità di trovare un lavoro dopo la laurea e una migliore offerta formativa, più accessibile al Nord grazie a infrastrutture più efficienti e a un maggior numero di sedi universitarie sul territorio.
Sulla scelta di trasferirsi o rimanere nella regione incide anche la qualità della didattica e la disponibilità dei servizi. Come dimostrano dati e studi fatti negli ultimi anni, i giudizi sull’insegnamento – competenza dei docenti, chiarezza, presenza alle lezioni e nelle ore di ricevimento, generale disponibilità – e sui servizi come l’adeguatezza delle aule, dei laboratori e delle biblioteche sono sistematicamente migliori tra gli studenti del Sud che si sono laureati al Nord piuttosto che tra gli studenti che hanno studiato in un ateneo meridionale.
I costi indiretti come l’affitto, più alti al Nord, dovrebbero teoricamente compensare il flusso in uscita dalle regioni del Sud, ma queste spese sono controbilanciate dalla migliore offerta formativa e da una maggiore disponibilità di servizi, tra cui anche possibilità di svago nel tempo libero a cui si dà sempre più valore.
Anche l’accessibilità dei trasporti ha contribuito ad aumentare il flusso in uscita dal Sud. Nell’ultimo decennio i costi di trasporto sono diminuiti grazie allo sviluppo delle compagnie aeree low cost a cui si sono aggiunti servizi a costi contenuti anche per gli spostamenti via autobus. Considerato il ritardo infrastrutturale, il risultato dello sviluppo dei trasporti è che per gli studenti del Sud può risultare più economico e veloce raggiungere le grandi città del Centro-Nord piuttosto che città del Sud, più vicine.
In merito ai risultati accademici degli studenti, l’analisi della Banca d’Italia mostra un netto divario formativo che penalizza gli studenti delle università del Sud: siccome gli studenti più preparati si spostano, la quota di universitari che completano gli studi al Sud è molto inferiore. Questo dato si spiega anche con un diverso livello di preparazione degli studenti nelle scuole superiori, mediamente inferiore al Sud, e a contesti sociali e famigliari mediamente meno favorevoli.
Una delle parti più importanti dello studio riguarda i finanziamenti delle università che dipendono dai fondi garantiti dallo Stato e in parte dalle tasse universitarie. Fino al 2010, anno della cosiddetta riforma Gelmini, l’attribuzione dei fondi era basata sulla spesa storica, con finanziamenti statali fissi che favorivano le università più antiche.
Con la riforma furono introdotti due nuovi criteri: il costo standard per studente e una componente premiale. Il costo standard si basa sulla stima del costo medio di uno studente in base al tipo di corso di studio: è un indicatore che compensa parzialmente le minori disponibilità degli studenti in aree a basso reddito. La componente premiale, invece, viene definita sulla base dei risultati delle valutazioni delle università condotte dall’ANVUR, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca.
Ai finanziamenti statali già piuttosto bassi prima della riforma si sono aggiunti tagli che hanno penalizzato tutte le università: tra il 2009 e il 2015 i fondi complessivi sono stati ridotti del 20 per cento con una distribuzione non omogenea sul territorio, penalizzante soprattutto per le università del Sud. Tra l’anno accademico 2008/2009 e il 2015/2016 il calo dei trasferimenti statali è stato del 14 per cento al Nord, del 20 per cento al Centro e del 23 per cento al Sud.
Solo negli ultimi tre anni i finanziamenti statali sono aumentati. Anche la ripresa dei finanziamenti, però, non è stata omogenea: è stata più rilevante al Nord e al Sud e più debole al Centro. Complessivamente, nel decennio tra il 2009 e il 2020 il calo è stato dell’1,4 per cento al Nord, del 15 per cento al Centro e del 13 per cento al Sud.
Con una pesante riduzione dei finanziamenti statali, le università non hanno potuto far altro che ridurre i costi, in particolare quelli del personale. Per raggiungere l’equilibrio finanziario sono state bloccate le assunzioni: la riduzione del numero di docenti è stata più accentuata al Centro e al Sud, dove c’era un maggiore squilibrio tra entrate e uscite. Il risultato di questo meccanismo, a cui si è aggiunta la migrazione di molti studenti dal Sud al Nord, è che le università del Nord hanno ricevuto una quota più sostanziosa di finanziamenti e in generale hanno avuto più soldi.
È evidente l’urgenza di un aumento significativo delle risorse per l’intero sistema universitario, che contribuisca a ridurre il ritardo rispetto agli altri paesi avanzati, spiegano Torrini e Mariani. Per portare la spesa italiana in rapporto al PIL in linea con quella media europea occorrerebbero oltre 5 miliardi di finanziamenti aggiuntivi. L’aumento sarebbe consistente, perché oggi lo Stato destina ogni anno 8,5 miliardi di euro alle università.
Negli ultimi anni qualcosa è cambiato. L’ultima legge di bilancio ha confermato un aumento dei finanziamenti già avviato nel 2021 con 500 milioni all’anno a cui se ne aggiungeranno 865 fino al 2026 con l’obiettivo di assumere nuovi docenti e personale amministrativo. Si tratta di stanziamenti rilevanti, anche se non ancora sufficienti per colmare l’ampio divario rispetto alla media europea, dicono i ricercatori.
Oltre a un aumento del finanziamento complessivo, uno dei problemi che andrebbero affrontati con più decisione è la cosiddetta “capacità contributiva” dei territori: come già detto, le tasse pagate dagli studenti costituiscono una parte rilevante dei finanziamenti con cui le università possono assumere i docenti.
Lo studio della Banca d’Italia suggerisce lo stanziamento di una “riserva economica” per gli atenei del Sud, soldi distribuiti con criteri che incentivino il miglioramento della didattica. Una riserva di questo tipo potrebbe essere utilizzata per salvaguardare la presenza delle università in territori penalizzati dall’andamento demografico. Se assegnato con criteri di merito, questo fondo ulteriore destinato solo ai territori svantaggiati dovrebbe ridurre la mobilità in uscita e trattenere gli studenti più preparati, in sostanza avrebbe l’obiettivo di interrompere l’attuale meccanismo che alimenta costantemente il divario tra il Nord e il Sud.