Cos’è rimasto degli Accordi di Abramo
Le foto dell'incontro a Sde Boker mostrano che la normalizzazione dei rapporti tra Israele e quattro stati arabi non è deragliata, anche se non ci dicono tutto
Lunedì a Sde Boker, cittadina israeliana nel deserto del Negev nota per essere stata la casa del primo primo ministro di Israele, David Ben-Gurion, c’è stata una riunione a suo modo eccezionale: si sono incontrati di persona i ministri degli Esteri di Stati Uniti, Israele e quattro stati arabi (Emirati Arabi Uniti, Egitto, Marocco e Bahrein), una cosa inimmaginabile fino a due anni fa, cioè fino ai cosiddetti “Accordi di Abramo”.
Con quegli accordi, che furono considerati storici e che sembrarono fin dall’inizio avere il potenziale di cambiare la politica del Medio Oriente, il governo israeliano aveva normalizzato i propri rapporti con due paesi del Golfo Persico, gli Emirati e il Bahrein, che a loro volta erano stati i primi paesi arabi del Golfo a riconoscere ufficialmente Israele (lo avevano già fatto l’Egitto con gli “Accordi di Camp David”, nel 1978, e la Giordania, nel 1994: cioè due paesi arabi ma non del Golfo); poi era seguito il Marocco. L’obiettivo finale, nascosto da nessuno, era di rafforzare il fronte anti-Iran, nemico in particolare degli Emirati e di Israele.
A Sde Boker i sei ministri degli Esteri non hanno firmato accordi al termine della riunione, ma hanno comunque voluto enfatizzare l’importanza dell’evento e mostrare la loro unità pronunciando discorsi altisonanti e facendosi fotografare sorridenti e tenendosi per mano.
Alcune foto in particolare sembrano segnalare una spiccata sintonia tra il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed al Nahyan.
Da una parte la riunione di lunedì è stata dunque la conferma che il processo iniziato due anni fa non si è arenato, come invece avevano ipotizzato alcuni osservatori concentrandosi su diversi problemi: per esempio la generale ostilità nel mondo arabo verso un accordo che di fatto “sacrificava” la causa palestinese, fino a quel momento il principale ostacolo a qualsiasi avvicinamento politico pubblico tra Israele e i paesi arabi del Golfo. Dall’altra la mancanza di documenti pubblici conclusivi è stata la prova dell’esistenza di forti disaccordi su almeno due temi importanti, l’invasione russa in Ucraina e l’accordo sul nucleare iraniano, e il risultato di tensioni che si andavano accumulando da tempo.
Nonostante le scene di complicità tra Blinken e bin Zayed, infatti, i maggiori problemi si sono verificati tra Stati Uniti ed Emirati.
A fine febbraio il governo emiratino si era astenuto su una risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che voleva condannare l’invasione russa in Ucraina, provocando la reazione arrabbiata degli americani. Non era stata però una mossa del tutto inaspettata.
Negli ultimi due anni gli Emirati avevano rafforzato i propri legami con la Russia. Nel 2019 Mohammed bin Zayed al Nahyan, leader di fatto degli Emirati, aveva accolto ad Abu Dhabi il presidente russo Vladimir Putin con una grande cerimonia, aveva descritto la Russia come una «seconda casa» e aveva firmato accordi per oltre 1 miliardo di dollari riguardanti tra le altre cose l’energia e la tecnologia.
Nell’ultimo anno in particolare, gli Emirati hanno inoltre iniziato ad avere dubbi sull’effettiva volontà statunitense di garantire loro sicurezza, cioè uno dei motivi più importanti che spiega l’alleanza tra i due paesi.
Hanno criticato la decisione del presidente americano Joe Biden di togliere dalla lista delle organizzazioni terroristiche i ribelli yemeniti houthi, che stanno combattendo una guerra in Yemen contro una coalizione che include anche alcuni paesi arabi del Golfo. Meno di un anno dopo, gli houthi hanno iniziato a colpire Abu Dhabi, la capitale emiratina. Sono stati sempre gli houthi ad attaccare venerdì scorso un deposito di carburante a Gedda, a pochi giorni dal Gran Premio di Formula 1 previsto nella stessa città. Gli Stati Uniti hanno offerto al governo emiratino di rafforzare le sue difese, ma gli Emirati hanno risposto di volere la reintroduzione degli houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Più di recente, gli Emirati si sono anche rifiutati di soddisfare la richiesta americana di aumentare la produzione di petrolio per rendere il mondo meno dipendente dalle forniture energetiche russe.
– Leggi anche: Il punto debole della NATO
A Sde Boker si è poi discusso dei negoziati avviati a Vienna per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano, firmato nel 2015 durante l’amministrazione di Barack Obama e poi fatto saltare di fatto tre anni dopo con una criticata decisione unilaterale di Donald Trump. Fino a un mese fa sembrava esserci una nuova intesa, prima che la Russia avanzasse nuove pretese giudicate in parte irricevibili dagli americani e dai paesi europei presenti.
Da tempo si sa che l’accordo, che si sta ancora discutendo, non è visto di buon occhio dagli alleati degli americani in Medio Oriente. Uno dei suoi più feroci critici era stato l’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ma anche i leader dei paesi arabi del Golfo si erano opposti, e continuano a farlo ancora oggi: la loro preoccupazione è che tra le sanzioni che potrebbero essere rimosse in cambio di garanzie sul rallentamento del programma nucleare iraniano ci siano anche quelle che provano a limitare l’aggressività iraniana in altri paesi del Medio Oriente. Si parla per esempio delle sanzioni alle Guardie Rivoluzionarie, corpo militare iraniano di élite molto attivo al di fuori dei confini nazionali e responsabile di numerosi attentati: la riunione di lunedì è stata anche un’occasione per i quattro paesi arabi e Israele di fare pressioni sugli Stati Uniti affinché non vengano rimosse proprio queste sanzioni.
Al di là delle difficoltà incontrate e dei disaccordi, ha scritto il New York Times, «forse la cosa più significativa dell’incontro è stato il fatto che ci sia stato».
Due anni fa non era chiaro quanto gli Accordi di Abramo avrebbero resistito nel tempo, soprattutto per le profonde differenze tra Israele e paesi arabi e la ferma opposizione non solo dei palestinesi, ma anche di buona parte della popolazione araba. I sei ministri degli Esteri hanno inoltre detto di voler provare a incontrarsi in un paese diverso ogni anno, e hanno aggiunto di essere disponibili a coinvolgere anche altri stati.