La pace è la resistenza ucraina
«Se l’Ucraina avesse ceduto subito, come molti profetizzavano (e qualcuno auspicava) avrebbe reso vere le farneticazioni di Putin sul Russkiy Mir, il grande mondo russo da riunificare: un paese che non resiste è un paese che non esiste. E avrebbe chiuso definitivamente la bocca a quel poco di dissenso democratico che la terrorizzata società russa è in grado di generare. Ma gli ucraini da un mese resistono».
Se davvero la strategia militare russa cambiasse e si limitasse a rivendicare poco più dei territori che Putin controlla già (esito ancora difficile da prevedere, vista la sproporzione delle forze in campo) si realizzerebbe quello che ci si poteva solo augurare, e cioè che la resistenza ucraina vanificasse le ragioni della guerra, ne mostrasse la sostanziale inutilità. Se i risultati che Putin raggiungerà fossero infatti sproporzionati rispetto alle modalità dell’aggressione e al sangue (russo e ucraino) che ha sparso, sarebbe una lezione per tutti i guerrafondai. Ne uscirebbero rafforzate le ragioni della pace, anche se gran parte del mondo pacifista fatica ad accettare questa evidenza.
Molte cose congiurano contro questo che sarebbe non l’esito migliore ma il male minore di una guerra terribile. Anzitutto lo scacco dell’aggressore: accanto a trasparenti ragioni geopolitiche, Putin pare davvero animato da un intento palingenetico e panrusso e potrebbe non accettare di accontentarsi di così poco. Pagando per di più il prezzo di aver trasformato l’Ucraina (una nazione che la sua manipolazione della storia ritiene inesistente, una semplice invenzione di Lenin o degli occidentali) in un faro di democrazia ammirato in mezzo mondo. E una democrazia (più o meno completa, in verità) insediata ai confini della sua autocrazia finirebbe per costituire una sorta di permanente provocazione: c’è il rischio davvero che alle porte sfilino i gay pride (secondo gli incubi ricorrenti del patriarca Kirill, che non si capisce se usi l’argomento per pure ragioni propagandistiche o creda davvero che valga la pena di sacrificare migliaia di morti in guerra per fermare le parate con i carri, le borchie e le bandiere arcobaleno: nel qual caso dovremmo con qualche tremore riconoscere che c’è un serio disturbo mentale al vertice della chiesa ortodossa. Eh sì, lo so che anche noi abbiamo i nostri piccoli Kirill nei senatori che nell’aula del Parlamento hanno salutato con sghignazzi e balletti la bocciatura della legge Zan; ma almeno usciti di lì non hanno sparato a famiglie in fuga, per togliersi il pensiero).
Ci sono poi le esitazioni (per usare un eufemismo) di una parte del nostro pacifismo e le argomentazioni di chi, arrampicandosi sugli specchi della “complessità”, mette più o meno sullo stesso piano aggrediti e aggressori. La Storia è sempre complessa (specie dalle parti dell’ex Impero russo ed ex Unione Sovietica: nulla è mai semplice con troppi ex in giro) e merita conoscenza, attenzione e rispetto. Ma nel controverso dibattito in corso sulla secolare vicenda ucraino-russa prevale il ricorso strumentale a qualche precedente storico-politico che è funzionale solo a consolidare i propri pregiudizi.
E poi: a che punto queste estenuate ricostruzioni dovrebbero fermarsi? Fino a dove risalire in questa ricerca di colpe e responsabilità reciproche? A quando avvenne l’allargamento della Nato, o alla dissoluzione dell’Urss? Perché trascurare l’Holodomor e i suoi milioni (due? cinque? sette?) di morti per fame (solo per fame, poi?) o rimuovere il valore della Grande guerra Patriottica e della sconfitta del nazismo? Ancora prima, l’anarchico Machno combatteva contro la degenerazione della Rivoluzione d’ottobre o favoriva la restaurazione zarista? E ancora altre domande, fino alla Rus’ originaria o perfino oltre, nelle nebbie vichinghe.
Tutto giusto e utile, per carità (sempre le guerre hanno questo paradossale effetto di costringerci a riscoprire storia e geografie) ma, come ha detto con precisione Nicola Lagioia, c’è una complessità che aiuta a capire e una che confonde torti e ragioni. E c’è il sospetto che alla fine tutta questa ricerca di profondità e complessità (non sempre applicata in altri casi) assomigli al tentativo di attribuire alla stuprata qualche responsabilità che assolva lo stupratore. Se qualcosa fonda tutte le culture della pace è la scelta di porsi accanto alle vittime: quali siano in questa guerra è del tutto evidente, almeno a noi spettatori occidentali cui non sono sequestrate le immagini delle città distrutte (né disgustosamente manipolate al punto di presentare le macerie di Mariupol come frutto degli ucraini in ritirata).
Riconoscere il valore della resistenza ucraina è il primo passo necessario. Non c’è bisogno di usare le maiuscole o di approfondire paragoni impossibili. Ogni popolo ha resistito a dittatori e invasori come ha potuto, con i suoi limiti e le sue ambiguità (che, come dicono i nostri libri migliori, non sono mancate nemmeno alla nostra Resistenza, senza sminuirne di un millimetro il valore e la gloriosa necessità). Il fatto che l’attuale presidente dell’Anpi (non l’ex, né – per fortuna e per quel che conta – quello del mio circolo) fatichi a riconoscerlo è un po’ come se il Papa si affacciasse in Vaticano per proclamare l’inesistenza di Dio.
La realtà è che a questo punto solo la resistenza ucraina può salvare le ragioni della pace e per questo merita tutti gli aiuti possibili. È enormemente importante il ruolo di una opinione pubblica mondiale che mostra di non accettare gli effetti più sanguinosi della guerra (e forse contribuisce perfino – insieme a evidenti difficoltà militari e, oso dire, morali delle sue truppe – a impedire a Putin di adottare la sua consueta strategia di distruzione totale, come in Cecenia o ad Aleppo) e manifesta verso i profughi ucraini quella solidarietà totale e incondizionata che non dovrebbe mancare a nessun uomo, donna, bambino che sfugga guerre e fame.
Se l’Ucraina avesse ceduto subito, come molti profetizzavano (e qualcuno auspicava) avrebbe reso vere le farneticazioni di Putin sul Russkiy Mir, il grande mondo russo da riunificare: un paese che non resiste è un paese che non esiste. E avrebbe chiuso definitivamente la bocca a quel poco di dissenso democratico che la terrorizzata società russa è in grado di generare. Ma gli ucraini da un mese resistono.
Alla resistenza ucraina in queste ore è affidata la possibilità di dimostrare che la guerra è uno strumento inaccettabile, inadatto al nostro mondo e perfino inefficace. Proprio quello che una seria cultura della pace non può stancarsi di proclamare, specie dopo la caduta dei muri, in un mondo interconnesso ma ancora colmo di armi nucleari. La pace che chiediamo non può perciò che passare per una almeno parziale sconfitta dell’aggressione russa.
Non c’è bisogno di revisionare l’intero apparato politico-culturale del pacifismo contemporaneo (anche se può essere l’occasione per ribadire che le guerre in Iraq e in Afghanistan erano sbagliate ed è stato giusto opporvisi, ma che trent’anni fa sarebbe stato bene permettere agli aerei della Nato di alzarsi in volo prima piuttosto che lasciare Sarajevo assediata per più di tre lunghi anni; e che ai curdi contro l’Isis le armi occidentali sono servite eccome; e che comunque in questo caso tutte le antiche e nobili discussioni sulla guerra giusta non c’entrano molto, trattandosi di una invasione). Bisogna intanto riconoscere che, come diceva Aldo Capitini, il fondatore del pacifismo italiano, la nonviolenza comincia dalla nonmenzogna. E dal non lasciare solo e disarmato – vittima, oltre che della violenza, della nostra indifferenza o equidistanza – chi nel mondo combatte contro la sopraffazione dei potenti e rischi di esserne travolto. Perché, come nel caso dei resistenti ucraini, difendendo la propria vita sta lottando per il futuro della pace.