I rischi del boicottaggio della scienza e della cultura russe
Cosa dice il dibattito accademico in corso sull'opportunità di isolare le università e interrompere le tante collaborazioni scientifiche
Nelle ultime settimane diversi centri di ricerca scientifica, enti e istituti culturali attivi in Europa e nel mondo hanno limitato o hanno preso in considerazione l’idea di limitare le forme di collaborazione con la Russia, in linea con varie iniziative sanzionatorie già intraprese nei paesi occidentali da organi governativi, istituti di credito e federazioni sportive a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Parallelamente si è sviluppato un dibattito sull’opportunità, sugli obiettivi concreti e sui rischi di queste iniziative, considerate da alcuni come un modo simbolico di manifestare sostegno all’Ucraina, da altri come un mezzo per tentare di condizionare indirettamente l’evoluzione del conflitto e da altri ancora – secondo un pensiero noto e condiviso anche a proposito delle sanzioni economiche – come una scelta con ricadute ed effetti negativi non soltanto sulla Russia ma anche sui paesi occidentali.
L’interruzione delle collaborazioni
Numerose conferenze, convegni e incontri accademici che avrebbero dovuto coinvolgere partecipanti russi e ucraini, tra gli altri, sono stati annullati, rinviati o riprogrammati in sedi diverse, in alcuni casi anche per semplici ragioni di opportunità e cautela, e senza espliciti obiettivi sanzionatori. Il Congresso internazionale dei matematici, la più importante conferenza internazionale sulla matematica, che si tiene ogni quattro anni e stavolta era in programma a luglio a San Pietroburgo, si terrà virtualmente, e la cerimonia di premiazione si svolgerà a Helsinki.
Diversi ricercatori e studiosi, tra cui oltre 200 vincitori del premio Nobel, hanno espresso il loro sostegno all’Ucraina, condannando l’invasione militare russa. Nel frattempo, la Commissione Europea ha sospeso la cooperazione con enti russi nell’ambito di Horizon, il principale programma di finanziamento della ricerca. E l’invasione dell’Ucraina sta avendo ripercussioni significative anche sulle collaborazioni spaziali internazionali.
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In Italia, in una nota inviata a rettori e presidenti di istituti ed enti di ricerca, la ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa ha invitato le università «a sospendere ogni attività volta all’attivazione di nuovi programmi di doppio titolo o titolo congiunto» (quelli che prevedono corsi di studio in comune tra due o più università partner) e ricordato che «dovranno essere sospesi quei progetti di ricerca in corso con istituzioni della Federazione Russa e della Bielorussia che comportino trasferimenti di beni o tecnologie dual use» (quelli che possono essere usati per fini sia civili che militari). Il governo tedesco ha sospeso del tutto, per ogni progetto di ricerca tra studiosi tedeschi e russi, il finanziamento attraverso il principale fondo nazionale per la ricerca.
Anche il CERN, l’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare, uno dei più importanti centri di ricerca di fisica al mondo, di cui l’Ucraina è uno dei membri associati, ha deciso di sospendere lo status di membro osservatore della Russia – status peraltro attribuito anche a Stati Uniti e Giappone – e di non avviare nuove collaborazioni con le istituzioni russe. «Il CERN fu costituito all’indomani della Seconda guerra mondiale per riunire nazioni e popoli insieme per la ricerca pacifica della scienza: questo attacco va contro tutto ciò che l’Organizzazione rappresenta», è scritto nella nota diffusa dal consiglio riunito l’8 marzo scorso.
L’idea di boicottare la Russia isolandola ed escludendola dalle istituzioni culturali e scientifiche internazionali sta provocando nei paesi occidentali reazioni piuttosto eterogenee, e anche divisioni e perplessità sia nell’opinione pubblica che all’interno delle stesse istituzioni. Da un lato, l’interruzione di determinati e routinari processi di scambio culturale con la Russia è considerata da alcuni come un segno concreto del generale sostegno all’Ucraina e della condanna unanime della guerra. Dall’altro, l’interruzione di relazioni in parte fondate sulla capacità di trascendere circostanze contingenti, ordini politici e tradizioni culturali dei singoli paesi è vista come una negazione stessa dei principi storicamente alla base delle collaborazioni scientifiche internazionali.
Alcune questioni problematiche relative al boicottaggio della cultura russa sono in parte simili a quelle emerse in merito alle sanzioni economiche e di altro tipo finora inflitte dai paesi occidentali. Esiste, per esempio, il dubbio che l’isolamento culturale della Russia possa non avere effetti concreti sull’evoluzione del conflitto, al di là delle intenzioni di chi approva e sostiene le singole iniziative. Come è abbastanza condivisa l’impressione che la comunità scientifica russa che disapprova l’invasione militare dell’Ucraina, a prescindere dall’eventuale isolamento, non sia nella posizione di poter esercitare significative pressioni dirette né indirette sui responsabili dell’invasione.
La lettera dei ricercatori russi contro l’invasione
Circa 7.650 scienziati e giornalisti scientifici russi, come riferito dal New York Times, hanno firmato nelle settimane scorse una lettera di protesta contro l’invasione dell’Ucraina, definita «ingiusta e insensata». Lettera pubblicata su un sito indipendente di informazione scientifica, Troitsky Variant, prima che il governo russo approvasse una legge che prevede fino a 15 anni di carcere per chi diffonde notizie ritenute false o utilizza espressioni diverse da «operazione militare speciale» per descrivere l’invasione.
«Avendo scatenato la guerra, la Russia si è condannata all’isolamento internazionale, ad assumere la posizione di un paese paria», era scritto nella lettera, che gli amministratori del sito hanno poi rimosso dalla pagina, per paura di violare la legge, ma lasciando le firme (in modo da far sapere «che i firmatari non hanno taciuto», come scritto in una successiva introduzione). Gli scienziati avevano inoltre previsto che non sarebbero stati più in grado di svolgere normalmente il loro lavoro, dal momento che «condurre ricerca scientifica è impensabile senza la piena collaborazione con i colleghi di altri paesi».
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Tra i critici della sospensione dei rapporti culturali con la Russia nei paesi occidentali si discute inoltre del rischio che il boicottaggio in contesti accademici e di ricerca finisca inevitabilmente per tradursi in un danno più o meno esteso a carico dell’intera comunità scientifica mondiale, interrompendo di fatto sia la condivisione dei costi della ricerca sia la condivisione delle capacità intellettuali. Senza considerare il danno derivante dall’interruzione, per quanto provvisoria, di relazioni professionali stabili e progetti a lungo termine su cui si basa una parte essenziale della ricerca internazionale.
Il dibattito al CERN
Al CERN – a cui è peraltro legata, tra le molte altre cose, l’invenzione del World Wide Web – lavorano circa 12 mila scienziati provenienti da istituti di oltre 70 paesi del mondo. Mille tra questi sono russi, e in base alla recente decisione del consiglio potranno proseguire il proprio lavoro soltanto se già impegnati in ricerche in laboratorio, ha detto al Wall Street Journal John Ellis, un fisico teorico del King’s College di Londra impegnato da decenni in ricerche al CERN.
«È una cosa molto importante» e non era scontato, ha detto un altro scienziato che lavora al CERN, il fisico della University of Chicago David Miller, riferendosi al fatto che i suoi colleghi russi non debbano interrompere il proprio lavoro e lasciare i laboratori. Diversamente, ha aggiunto Miller, l’impatto sarebbe stato devastante sugli esperimenti già in programma al Large Hadron Collider (LHC), l’enorme acceleratore di particelle del CERN, che dovrebbe essere riattivato a giugno dopo oltre tre anni di inattività, tra tempo impiegato per riparazioni e miglioramenti ai suoi sistemi e rinvii dei lavori dovuti alla pandemia.
Per sospendere un paese membro o un paese osservatore del CERN è necessaria una maggioranza qualificata pari a due terzi dei voti del consiglio, che è formato soltanto dai 23 paesi membri, ciascuno dei quali invia due delegati, uno scienziato e un diplomatico (ogni paese esprime un voto). Durante la seduta straordinaria in cui è stata decisa la sospensione delle collaborazioni con la Russia c’è stata «una certa tensione», ha raccontato al New York Times il presidente del consiglio del CERN Eliezer Rabinovici, fisico teorico dell’Università Ebraica di Gerusalemme.
Da una parte, i delegati volevano esprimere la loro solidarietà all’Ucraina e la rabbia per il conflitto, ha detto Rabinovici. Dall’altra, erano preoccupati dei possibili effetti negativi della sospensione sulla consolidata etica di cooperazione tra gli scienziati nell’organizzazione. «La decisione del CERN era necessaria. Non prenderne alcuna sarebbe stata una macchia: il CERN è più di una meraviglia della scienza, è stato e rimane il primo simbolo della nuova Europa del Secondo dopoguerra», ha detto Pierre Ramond, fisico dell’Università della Florida e tra i più influenti studiosi della teoria delle stringhe.
A favore della decisione del CERN si è espresso anche il rispettato astrofisico del California Institute of Technology Kip Thorne, vincitore del premio Nobel nel 2017 per la rilevazione delle onde gravitazionali e tra i maggiori esperti al mondo di buchi neri e relatività generale, che mantiene fin dagli anni Sessanta solidi rapporti di lavoro con astrofisici russi. «Credevo allora e credo tuttora che quei contatti siano di grande importanza, ma ciò che Putin ha fatto in nome della Russia è così eclatante che sostengo fermamente la decisione del consiglio del CERN», ha detto Thorne.
La fisica americana Lisa Randall, docente a Harvard specializzata in fisica delle particelle e cosmologia, non ha invece approvato la decisione del consiglio, definendola «ingiusta e contraria allo spirito di collaborazione internazionale del CERN», a meno di «ritenere gli scienziati responsabili delle azioni del loro paese».
I limiti del boicottaggio
Una posizione simile a quella di Randall e avversa alle restrizioni alle collaborazioni accademiche con gli scienziati russi, tra le altre, è stata espressa sul Foglio dal ricercatore e biologo Enrico Bucci.
Secondo Bucci, è sbagliato far ricadere su un’intera comunità scientifica la responsabilità di eventi «chiaramente al di fuori del controllo di quella comunità», tanto più se moltissimi suoi componenti si sono esposti al rischio di ritorsioni da parte del proprio governo manifestando la propria contrarietà all’invasione dell’Ucraina. Esiste inoltre il rischio che la fine della collaborazione scientifica e il conseguente isolamento possano far venire meno una forma di reciproca vigilanza internazionale nella valutazione dei rischi e dei benefici di certe ricerche, che potrebbero a questo punto essere portate avanti separatamente anziché insieme.
A quest’ultima ipotesi è sembrato alludere anche Igor Abrikosov, un fisico russo che lavora all’Università di Linköping in Svezia e tra i firmatari della lettera pubblicata su Troitsky Variant. «Temo che le autorità in Russia sarebbero interessate a tagliare le collaborazioni scientifiche anche più dell’Occidente», ha detto Abrikosov alla rivista Nature, sostenendo che interrompere le collaborazioni potrebbe in generale fare più male che bene.
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All’Università La Sapienza di Roma un gruppo di studenti, dottorandi e ricercatori del Dipartimento di Fisica, in una petizione in cui viene richiesta, tra le altre cose, «la sospensione in tutta la Sapienza delle collaborazioni con produttori di armi o enti militari», ha definito il boicottaggio di cultura, scienza e sport russi «inaccettabile», frutto di un dibattito pubblico che aumenta le tensioni descrivendo «un inesistente scontro tra civiltà e barbarie» ed esprimendo «una strumentalizzazione della contrapposizione tra democrazia e autocrazia».
All’inizio di marzo la questione delle mutate relazioni tra le università e la cultura russa era emersa in Italia, lateralmente ma in modo piuttosto clamoroso, anche in occasione di una criticatissima decisione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca di rinviare, per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione», un ciclo di lezioni sul romanziere Fëdor Dostoevskij tenute dallo scrittore ed esperto di letteratura russa Paolo Nori. L’Università aveva successivamente motivato la scelta iniziale, poi ritrattata, sostenendo l’intenzione di voler ristrutturare il corso su Dostoevskij «aggiungendo alcuni autori ucraini».
La cultura russa in senso lato è stata oggetto in Europa di altre decisioni controverse, nelle settimane scorse. Gli organizzatori del festival musicale Eurovision Song Contest hanno escluso la Russia sostenendo che una sua partecipazione avrebbe screditato la competizione. La Royal Opera House di Londra ha annullato una serie di spettacoli del corpo di ballo del teatro Bolshoi di Mosca, uno tra i più antichi e prestigiosi al mondo, in programma la prossima estate. L’Orchestra Filarmonica di Monaco di Baviera ha licenziato il direttore d’orchestra russo Valery Gergiev, considerato vicino agli oligarchi russi, per non aver pubblicamente condannato l’invasione dell’Ucraina.
Artisti e curatori del padiglione russo alla prossima Biennale di Venezia, in programma tra aprile e novembre, hanno ritirato la loro partecipazione. «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili, quando i cittadini ucraini si nascondono nei rifugi, quando i manifestanti russi sono messi a tacere», hanno scritto attraverso i loro account social i due artisti russi Kirill Savchenkov e Alexandra Sukhareva, che avrebbero dovuto partecipare all’esposizione. La loro scelta è stata generalmente apprezzata ma ha anche generato a sua volta un dibattito.
Un sostegno simbolico all’Ucraina è stato espresso in termini di boicottaggio della Russia anche in numerosi altri contesti, come per esempio nei festival del cinema, attraverso l’esclusione dei film russi, e anche in concorsi meno noti ai non addetti. E addirittura gli organizzatori dell’European Tree of the Year, un concorso annuale organizzato dalla Environmental Partnership Association, un’organizzazione peraltro sostenuta dalla Commissione Europea, ha squalificato l’albero russo in concorso, una quercia di cui si racconta che sia stata piantata 198 anni fa dallo scrittore e drammaturgo russo Ivan Turgenev.
I rapporti tra Russia e Occidente nella ricerca scientifica
A prescindere da eventuali decisioni ufficiali prese da enti e istituti, a condizionare inevitabilmente la ricerca scientifica potrebbero contribuire le difficoltà stesse a viaggiare verso la Russia, condizione al momento limitata per ragioni di sicurezza ma necessaria per gli scambi culturali in ambito accademico.
Oltre a questo, come ha detto alla rivista Nature Daniel Treisman, politologo americano della University of California specializzato in politica ed economia russe, esiste una questione etica. «Gli studiosi dovranno chiedersi se debbano lavorare con un’università statale russa, che potrebbe non essere direttamente collegata alla guerra ma è comunque sovvenzionata dallo stato russo», ha detto Treisman, augurandosi comunque che le collaborazioni proseguano rispettando i principi di onestà e libertà della ricerca accademica.
Una certa opposizione alla possibilità di proseguire le collaborazioni scientifiche internazionali con la Russia è stata espressa in particolare dagli studiosi ucraini. In una lettera del 27 febbraio rivolta alle istituzioni europee, il Consiglio dei giovani scienziati ucraini – un organo consultivo istituito nel 2012 dal ministero dell’Istruzione e della Scienza – aveva chiesto di «sospendere con urgenza ogni tipo di collaborazione internazionale con le istituzioni russe», facendo esplicito riferimento, tra le altre, alle collaborazioni europee con la Russia nell’ambito del programma Horizon, del CERN e di ITER, un ambizioso progetto sperimentale di produzione di energia dalla fusione nucleare in fase di sviluppo nel sud della Francia.
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«Sono grato ai colleghi russi che hanno firmato la lettera di protesta, ma collaborare con scienziati russi è una posizione profondamente immorale», ha detto a Nature Maksym Strikha, un fisico dell’Università nazionale Taras Shevchenko di Kiev rimasto in città anche dopo l’inizio degli attacchi delle forze militari russe, definendosi troppo anziano per cominciare una carriera in Occidente. Parlando della rabbia e dell’incredulità di molti suoi colleghi scienziati e ricercatori rispetto alla possibilità di una prosecuzione delle attività di ricerca scientifica in collaborazione tra l’Occidente e la Russia, Strikha ha paragonato la situazione del suo paese al contesto della Seconda guerra mondiale. Ottanta anni fa, si è chiesto, «sarebbe stato concepibile che qualcuno in Gran Bretagna o negli Stati Uniti parlasse di collaborazione con i tedeschi?».
Oltre a quello sull’interruzione delle collaborazioni, è in corso un altro dibattito sull’opportunità o meno di vietare del tutto a ricercatori russi di pubblicare sulle riviste scientifiche internazionali, limitando quindi la loro possibilità di accedere ai finanziamenti concessi sulla base di questo requisito. Criterio discriminatorio che sarebbe apertamente in contrasto con molte norme editoriali e principi radicati nella storia della ricerca scientifica. Poche riviste hanno finora accolto questo tipo di richieste, ha scritto Nature: la rivista di chimica Journal of Molecular Structure, tra le poche di cui sia nota un’iniziativa in questo senso, ha annunciato che non prenderà più in considerazione testi proposti da scienziati che lavorano presso istituti russi.
Il Consiglio dei giovani scienziati ucraini ha ufficialmente chiesto alla società di servizi di indicizzazione di citazioni scientifiche Clarivate e all’editore Elsevier – il grande gruppo olandese che, tra le altre cose, controlla un quarto delle pubblicazioni scientifiche mondiali – che le riviste scientifiche russe siano rimosse dai database e gli scienziati russi rimossi dai comitati editoriali delle riviste.
Il governo russo avrebbe nel frattempo reagito a questa ipotesi di boicottaggio, secondo fonti russe riportate da Nature, prevedendo l’eliminazione del requisito delle pubblicazioni internazionali per aumentare il punteggio di valutazione degli istituti e ottenere finanziamenti per le loro ricerche tramite il fondo nazionale. Il vice primo ministro russo Dmitry Chernyshenko avrebbe anche chiesto al Ministero russo della scienza e dell’istruzione di introdurre un sistema interno di valutazione della ricerca.
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La maggior parte degli studiosi russi che si impegnano per far parte della comunità scientifica internazionale è contraria all’invasione dell’Ucraina, ha detto a Nature un ricercatore di un’università russa che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di subire ritorsioni e ha affermato di aver rischiato di essere arrestato durante una recente manifestazione contro la guerra. «Un rifiuto generalizzato di revisionare e pubblicare proposte di pubblicazione non avrebbe alcun impatto sulla politica del Cremlino», ha detto il ricercatore.
L’esclusione della ricerca russa dalle pubblicazioni scientifiche internazionali, affermano i sostenitori di questa proposta, potrebbe invece contribuire direttamente sul conflitto: secondo Myroslava Hladchenko, ricercatrice ucraina dell’Università nazionale di scienze della vita e dell’ambiente di Kiev, costringerebbe gli scienziati a «riconsiderare la propria attività e a dare un contributo allo sviluppo della società civile nel proprio paese».
Questo tipo di boicottaggio danneggerebbe inoltre la Russia sul lungo periodo, ammesso sia questo l’obiettivo condiviso da parte della comunità internazionale. La pubblicazione su riviste internazionali è infatti considerato un fattore responsabile del netto miglioramento della qualità media della ricerca russa negli ultimi anni, ha detto a Nature Andrey Kulbachinskiy, ricercatore dell’Istituto di genetica molecolare a Mosca.
L’ex direttore del British Medical Journal Richard Smith ha scritto che, pur credendo nell’universalità della scienza, non crede nella neutralità politica: «Tutto, compresa la salute, l’assistenza sanitaria, lo sport e la scienza, è politico, per quanto vorremmo che non lo fosse». Se è vero che le nuove guerre «ibride» si combattono con il potere economico e il soft power allo scopo di esercitare pressione, «non ne consegue che gli istituti scientifici, incluse le riviste, dovrebbero tagliare i legami con gli istituti russi e forse anche con gli scienziati russi?», si è chiesto Smith citando il Financial Times e dichiarandosi sollevato di non essere più lui a dover prendere questa decisione per il British Medical Journal.
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Realisticamente, l’interruzione delle collaborazioni avrebbe con ogni probabilità ricadute sulla produzione scientifica sia della Russia che di altri paesi europei, sebbene in misura diversa. Secondo il British Council, l’ente britannico per la promozione delle relazioni culturali tra il Regno Unito e 110 paesi nel mondo, sono stati pubblicati nell’ultimo decennio oltre 19 mila articoli scientifici frutto di ricerche congiunte tra Regno Unito e Russia, ricerche il cui valore è ritenuto tre volte e mezzo superiore rispetto a quello della media mondiale.
Ma se anche un numero significativo di riviste scientifiche accogliesse la richiesta di boicottaggio della ricerca russa, ipotesi al momento ritenuta alquanto improbabile, l’effetto sulla quantità complessiva di articoli scientifici sarebbe limitato, ha scritto la rivista Science. Nel 2018, gli autori russi hanno pubblicato circa 82 mila articoli, poco più del 3 per cento del totale degli articoli scientifici pubblicati nel corso dell’anno.
Considerando i principali paesi del mondo, la produzione scientifica russa è inoltre ritenuta una delle meno citate in assoluto nelle pubblicazioni internazionali. E una delle ragioni, secondo lo storico della Princeton University Michael Gordin, esperto di storia dello sviluppo delle scienze naturali in Russia sentito da Science, è che molti scienziati russi pubblicano su riviste in lingua russa e non sono coinvolti in molte collaborazioni internazionali.
Secondo i dati del Nature Index, un database che dal 2016 tiene traccia della pubblicazione di articoli su 82 riviste scientifiche di alto livello da parte di istituti di diversi paesi, la maggior parte dei progetti di ricerca internazionale portati avanti dalla Russia coinvolge paesi occidentali. Tra i primi dieci paesi più impegnati in collaborazioni scientifiche con la Russia, la Cina è l’unica a non aver preso provvedimenti contro la Russia in risposta all’invasione dell’Ucraina, e potrebbe in futuro intensificare le collaborazioni in ambito scientifico.
Nature ha citato infine un esempio significativo di collaborazione scientifica internazionale con la Russia in cui, stando a quanto riferito dagli stessi studiosi coinvolti nelle ricerche, è difficile decidere tra la volontà di esprimere solidarietà all’Ucraina e quella di non perdere importanti progressi scientifici. Christian Dunn, un biologo e ricercatore della Bangor University, nel Regno Unito, impegnato negli studi sui cicli biogeochimici delle zone umide, stava collaborando con la Russia a un progetto di sovralimentazione delle torbiere per l’assorbimento di gas serra dall’ambiente, al momento dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
«La ricerca che stiamo facendo con la Russia è assolutamente essenziale per la questione del cambiamento climatico», ha detto Dunn, che nel gennaio 2020 fu invitato a partecipare a un seminario sul clima in Siberia, seminario da lui definito come un momento di svolta per l’inizio delle ricerche congiunte tra i due paesi. «Fu sorprendente scoprire scienziati delle torbiere che svolgevano un lavoro simile al nostro, senza che gli uni nemmeno sapessero degli studi degli altri», ha detto. Dunn ha spiegato che al momento la partnership è stata ufficialmente sospesa, per solidarietà con l’Ucraina. Ha aggiunto che «l’argomento secondo cui la scienza sarebbe al di sopra della politica potrebbe essere applicato a qualsiasi settore, anche lo sport, per esempio», e che è giusto che ciascuno faccia la propria parte.
In un editoriale pubblicato il 4 marzo scorso, Nature ha respinto le richieste di boicottaggio della ricerca russa e ha scritto che, in comune con altre riviste, continuerà a prendere in considerazione le proposte di pubblicazione provenienti da qualsiasi paese del mondo.
Nature ha difeso questa scelta sostenendo che un boicottaggio «farebbe più male che bene», perché provocherebbe divisioni nella comunità scientifica mondiale e limitazioni nella condivisione di conoscenze «necessarie per affrontare questa crisi e altre». La capacità della ricerca e dei finanziamenti alla ricerca di circolare oltre i confini nazionali, ha aggiunto, «è stata fondamentale per la scienza e per le relazioni internazionali, e ha resistito durante alcuni dei peggiori conflitti della storia del mondo».