La Cassazione contro la sindrome da alienazione parentale
Ha definito “pseudoscientifica” la controversa teoria che descrive l'allontanamento di un figlio da un genitore ad opera dell'altro
La Corte di Cassazione ha emesso un’importante ordinanza sulla sindrome da alienazione parentale (PAS), una teoria molto controversa che descriverebbe la condizione psicologica di minori che hanno rifiutato uno dei due genitori a causa dell’incitamento intenzionale portato avanti dall’altro. La Corte ha stabilito che il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale «e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo».
La Cassazione, con ordinanza 286/2022, ha accolto in ogni sua parte il ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva fatto decadere dalla responsabilità genitoriale Laura Massaro, una donna vittima di violenza da parte dell’ex compagno, accusata di aver causato nel proprio figlio la cosiddetta sindrome da alienazione parentale. La Corte di Appello aveva anche disposto l’allontanamento del bambino e l’interruzione dei rapporti tra madre e figlio.
Il caso di Massaro – che è molto complicato e che proseguiva da nove anni, da quando cioè la donna aveva denunciato per stalking l’ex compagno e padre di suo figlio (che ora ha dodici anni) – è diventato una specie di simbolo delle battaglie giudiziarie di molte donne a cui sono stati sottratti i figli proprio a causa delle sentenze di tribunale che negli anni hanno affermato il principio della sindrome da alienazione parentale, spesso invocata dai padri nelle cause di separazione e di affidamento. Massaro aveva affiancato al suo percorso giudiziario denunce pubbliche, scioperi della fame e proteste sotto i tribunali. Era stata sostenuta da molte associazioni e movimenti femministi e del suo caso si erano occupate anche diverse parlamentari.
La Cassazione ha ora accolto il ricorso della donna e delle sue legali dell’Associazione Differenza Donna annullando la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale e il trasferimento del bambino in casa-famiglia stabiliti in precedenza dalla Corte di Appello. Lo ha fatto in base a tre principi: l’illegittimità dell’alienazione parentale, la superiorità dell’interesse dei bambini rispetto al diritto alla bigenitorialità e la condanna dell’uso della forza nei confronti dei minori.
La Corte ha ribadito che «il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre».
I giudici hanno stabilito che non può essere garantita la bigenitorialità a tutti i costi, ma va tenuto conto innanzitutto dell’interesse del bambino. Infine si sono espressi anche sull’uso della forza fisica usata per sottrarre il minore dal luogo dove risiedeva con la madre, per collocarlo in una casa-famiglia, ritenendo quella misura «non conforme ai principi dello Stato di diritto in quanto prescinde del tutto dall’età del minore, ormai dodicenne, non ascoltato, e dalle sue capacità di discernimento». Come ha spiegato una delle legali di Massaro, la Corte ha contestato il mancato ascolto del figlio della donna e «ha messo un punto alle prassi che rasentano il trattamento inumano e degradante di allontanamento dei bambini e delle bambine dalle madri con la forza pubblica, dichiarando che ogni forma di coercizione sui minori è fuori dallo Stato di diritto».
Non è comunque la prima volta che la PAS viene messa in discussione dalla Cassazione. In due importanti sentenze del 2019 e del 2021 ne aveva confutato la fondatezza stabilendo che l’affido esclusivo di un minore a un genitore non poteva fondarsi solo sulla diagnosi di sindrome da alienazione parentale.
La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori.
Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una “programmazione” dei figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che li porterebbe a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). In poche parole sarebbe un incitamento ad allontanarsi da uno dei due genitori, portato avanti intenzionalmente dall’altro genitore attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di «realtà virtuali familiari». Per Gardner, affinché si possa parlare di PAS è necessario che questi sentimenti di astio e di rifiuto non nascano da dati reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato.
Fin da subito la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico e accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association).
Nonostante la mancanza di prove scientifiche che la sostengano, l’alienazione genitoriale – intesa non come sindrome di cui soffrono i minori ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini non vogliono più vedere uno dei due genitori – viene presa in considerazione molto spesso nelle aule dei tribunali, anche in Italia: diventa cioè un principio in ambito giudiziario a cui si fa ricorso nei casi di separazione conflittuale. Nelle sentenze e nelle CTU viene anche nominata come “sindrome della madre malevola” o non viene citata espressamente, ma vengono descritti comportamenti che vi fanno chiaro riferimento.
– Leggi anche: Che cos’è l’”alienazione parentale”?
Il principio dell’alienazione parentale diventa un problema soprattutto in alcune circostanze: nelle situazioni di maltrattamento, infatti, rischia di non considerare il principio del superiore interesse del minore e di far riferimento al diritto alla genitorialità a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Confonde la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini e le bambine che assistono ai maltrattamenti. Come ha spiegato l’avvocata Titti Carrano dei centri antiviolenza Di.Re si arrivano «a formulare delle sentenze di allontanamento dei figli dalla madre in base solo alla presunzione che i suoi comportamenti siano la causa della paura dei figli per il padre, anziché basarsi sull’accertamento dei fatti di violenza che hanno vissuto o a cui hanno assistito, cosa che invece ora questa ordinanza chiede espressamente ai giudici di fare».
Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato anche dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite, che si occupa di diritti delle donne.