Il dubbio di vivere in una simulazione
È un’ipotesi controversa resa popolare e attuale dai progressi nelle esperienze virtuali, e rimanda a fondamentali riflessioni del pensiero filosofico
Nel film di fantascienza del 1990 Atto di forza, tratto da un racconto dello scrittore americano Philip K. Dick, il personaggio principale è un operaio terrestre ossessionato dal desiderio di visitare Marte. Non potendo permettersi un vero viaggio, si rivolge a una società in grado di innestare false memorie e fargli credere di essere stato su quel pianeta. Cosa che però il protagonista aveva fatto per davvero in passato senza saperlo, stando alle tracce di una memoria rimossa che quella società scopre nella sua mente.
Alla fine del film, dopo numerosi imprevisti e disavventure, il protagonista si chiede se tutto quello che è successo sia reale o se sia a sua volta un sogno, una simulazione della realtà. Che era esattamente il lavoro richiesto alla società a cui si rivolge all’inizio della storia. Qualcosa di simile capita anche al protagonista del film del 2001 Vanilla Sky, che fatica spesso a comprendere se le sue esperienze siano reali o frutto di un sogno. E capita, come ancora più noto, al protagonista del film Matrix, ignaro di vivere in una simulazione finché qualcosa non lo tira fuori da lì.
Il dubbio di vivere in una realtà simulata, parte della trama di innumerevoli film e racconti di genere, è una riformulazione relativamente recente di una questione fondamentale del pensiero filosofico occidentale e orientale. Questione diventata più attuale e dibattuta negli ultimi anni anche al di fuori dei consueti contesti accademici, in particolare tra i grandi imprenditori della Silicon Valley, a fronte dei significativi progressi compiuti nello sviluppo di strumenti tecnologici e dispositivi pensati per vivere esperienze virtuali che siano il più possibile realistiche.
Ammesso che sia possibile un giorno arrivare a simulare un’esperienza indistinguibile dalla realtà, si chiedono alcuni filosofi e pensatori contemporanei, cosa permetterebbe a quel punto di escludere che la realtà stessa non sia una simulazione? Se tutto fosse perfettamente riproducibile, anche la nostra stessa esperienza cosciente, cosa distinguerebbe ciò che è reale da ciò che non lo è? In un libro pubblicato a gennaio scorso, intitolato Reality+: Virtual Worlds and the Problems of Philosophy, il filosofo australiano David Chalmers ha affrontato questo dubbio e sostenuto che sia impossibile già oggi escludere che la nostra esistenza sia una simulazione (eventualità che non la renderebbe comunque meno reale, secondo lui).
In un dibattito molto vivace, a cui hanno spesso preso parte in tempi recenti studiosi e specialisti di varie discipline, dalla fisica alle neuroscienze, la controversa ipotesi sostenuta da Chalmers è nota da circa due decenni come «ipotesi della simulazione», originariamente attribuita al filosofo svedese Nick Bostrom, fondatore e direttore del centro di ricerca interdisciplinare Future of Humanity Institute alla Oxford University.
Da tempo considerato uno dei più influenti pensatori contemporanei, conosciuto e apprezzato anche da imprenditori come Elon Musk e Bill Gates, Bostrom sostenne in un citato articolo pubblicato nel 2003 sulla rivista The Philosophical Quarterly che ci siano rilevanti probabilità che la specie umana si trovi all’interno di una simulazione realizzata da una super-intelligenza esterna al nostro mondo.
Chi è Chalmers
Chalmers, che ha una laurea in matematica e insegna filosofia e scienze neurali alla New York University (NYU), dove dirige il Center for Mind, Brain and Consciousness, è uno degli autori più conosciuti e studiati nel campo della filosofia della mente e delle scienze cognitive, discipline che si occupano dello studio dei processi cognitivi umani e artificiali e affrontano questioni come, per esempio, il rapporto tra mente e cervello, il concetto di intenzionalità e il problema della coscienza.
La sua idea è che sia difficile affrontare l’ipotesi della simulazione senza una riflessione preliminare sul problema della coscienza, argomento a cui è principalmente legato il lavoro di Chalmers più noto e studiato in ambito accademico, risalente agli anni Novanta. Come lui stesso osserva nel libro Che cos’è la coscienza?, «non c’è niente che conosciamo più intimamente dell’esperienza cosciente, ma non c’è niente che sia più difficile spiegare», al punto che alcuni ritengono sia un argomento intrattabile.
Secondo Chalmers, esiste un modo di parlare della coscienza come di un fenomeno spiegabile in termini di meccanismi computazionali o neurali, cioè i metodi standard della scienza cognitiva classica. Ma una dimensione più complessa di quel fenomeno sfuggente che chiamiamo «coscienza» mostra una sostanziale irriducibilità e resistenza a quei termini e metodi di indagine scientifica. La domanda essenziale che occorre farsi, secondo Chalmers, è: «Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?».
La proposta di Chalmers, nota come «teoria della mente estesa» e sviluppata insieme al filosofo inglese Andy Clark, è che non sia possibile spiegare la coscienza se non ammettendo che i processi cognitivi dipendano non soltanto da fenomeni «interni» al cervello ma da un’interazione dinamica tra il cervello, il corpo e il resto delle cose del mondo. È il motivo per cui il lavoro di Chalmers e Clark è spesso considerato pionieristico e lungimirante, considerando che gran parte delle «risorse esterne» che oggi consideriamo di fatto un’estensione della nostra attività cognitiva e mentale – dagli smartphone agli altri dispositivi digitali e artefatti che modellano le nostre esperienze – non era ancora stata sviluppata negli anni Novanta.
L’approccio di Chalmers al problema della coscienza è utile a comprendere le sue riflessioni riguardo all’ipotesi della simulazione. Soltanto cogliendo prima lo stretto rapporto che esiste tra la mente e il mondo, scrive in Reality+, è possibile porsi una delle domande fondamentali della riflessione filosofica: cosa sia la realtà e quali mezzi abbiamo per conoscerla.
Le radici filosofiche del problema
Per introdurre il problema della conoscibilità delle cose è citato spesso – anche Chalmers lo utilizza – un racconto molto noto nella storia del pensiero filosofico orientale e attribuito al filosofo taoista Zhuangzi, vissuto nel IV secolo a.C. Una volta, dice il racconto, Zhuangzi sognò di essere una farfalla, libera e svolazzante, ignara di essere Zhuangzi. All’improvviso si svegliò e seppe di essere Zhuangzi, indubbiamente, ma non sapeva se fosse lui ad aver sognato di essere una farfalla o una farfalla che stava sognando di essere Zhuangzi.
Zhuangzi, per dirla nei termini usati da Chalmers, non poteva essere sicuro della realtà del suo mondo. Un dubbio molto simile a quello che sarebbe potuto sorgere anche in Neo, il protagonista di Matrix, al quale a un certo punto viene spiegato che la sua vita ordinaria non era altro che una simulazione. Magari è vero il contrario: la sua vita ordinaria è reale, e quella fatta di battaglie e avventure è una simulazione indotta dalla pillola rossa che ha inghiottito.
Anche una delle allegorie più conosciute e citate nella storia della filosofia occidentale, il mito della caverna, esposto dal filosofo greco Platone nel suo scritto più famoso, la Repubblica, è spesso utilizzato per presentare il problema della percezione e della conoscibilità delle cose. Platone descrive la condizione di un gruppo di persone incatenate all’interno di una caverna, con lo sguardo rivolto verso una parete, e in grado di vedere soltanto delle ombre proiettate da oggetti che si muovono alle loro spalle e che sono rappresentazioni delle cose del mondo reale, cioè quelle all’esterno della caverna (per Platone è possibile conoscere queste ultime soltanto attraverso la ragione e non attraverso i sensi).
Se anche un uomo riuscisse a liberarsi dalle catene e a scappare dalla caverna, e poi decidesse di rientrare per informare le altre persone della realtà che ha osservato all’esterno, avrebbe non poche difficoltà a convincerle. Perché per quelle persone, osserva Chalmers in Reality+, le ombre sono tutto ciò che conoscono e che considerano realtà.
Come sia possibile conoscere la realtà è anche uno dei quesiti centrali nella ricerca del filosofo francese Cartesio e in particolare nel suo testo del 1641 Meditazioni metafisiche, a cui Chalmers fa esplicitamente riferimento e da cui deriva gran parte della concezione dualistica moderna che oppone mente e corpo, pensiero e materia. Cartesio si chiese come sia possibile non dubitare del mondo esterno, cosa escluda l’ipotesi che la realtà non sia frutto di un inganno congegnato da un «genio maligno». E trovò un limite a questa ipotesi nel fatto che il dubitare stesso, e quindi il pensare, sia prova dell’esistenza umana (cogito ergo sum), almeno in termini di sostanza pensante (res cogitans) opposta alla realtà fisica (res extensa).
L’ipotesi del «genio maligno» potrebbe essere oggi riformulata, secondo Chalmers, come l’ipotesi della simulazione: la domanda non è tanto se viviamo in una simulazione ma come facciamo a sapere che non stiamo vivendo in una simulazione. E la risposta di Chalmers è che non lo sappiamo, ma ciò non toglie che i mondi virtuali siano «realtà autentiche» e che gli oggetti del mondo virtuale siano reali. «Se davvero siamo in una simulazione, tavoli e sedie non sono illusioni ma oggetti perfettamente reali: sono oggetti digitali fatti di bit», entità la cui natura può essere compresa soltanto a condizione di smettere di considerarle astrazioni.
L’ipotesi della simulazione
Nell’articolo del 2003 – intitolato Are You Living in a Computer Simulation? e in cui è contenuta la prima formulazione dell’ipotesi della simulazione nei termini in cui è conosciuta e discussa oggi – il filosofo Bostrom non sostenne direttamente che gli esseri umani si trovino in una simulazione. Formulò però tre ipotesi apparentemente improbabili, sostenendo che almeno una delle tre sia molto probabilmente vera.
La prima ipotesi è che quasi nessuna civiltà possa raggiungere un livello di evoluzione tecnologica tale da permettere la creazione di realtà simulate. La seconda ipotesi è che quasi nessuna civiltà, pur raggiungendo quel livello di evoluzione tecnologica, abbia interesse a creare simulazioni della propria storia evolutiva o di versioni differenti di quella storia (simulazione in cui potremmo trovarci in questo momento, per esempio). E la terza ipotesi è che «tutte le persone con il nostro tipo di esperienze» stiano effettivamente vivendo in una simulazione.
Rispetto alla possibilità che quest’ultima ipotesi sia vera, Chalmers aggiunge in Reality+ una serie di condizioni non esplicate da Bostrom ma generalmente associate all’idea comune di simulazione della realtà. Secondo Chalmers, l’ipotesi della simulazione richiede che la simulazione duri per tutta la vita, «o almeno per tutto il tempo che siamo in grado di ricordare»: non potrebbe essere valida se, per esempio, la simulazione fosse cominciata soltanto ieri. E la seconda condizione è che sia opera di un «simulatore», non di un programma per computer comparso casualmente dal nulla.
Essere in una simulazione, secondo Chalmers, significa interagire con essa e quindi anche condizionarla: «I tuoi input sensoriali provengono dalla simulazione e i tuoi output motori influiscono sulla simulazione». Le nostre menti sono parte della realtà, afferma Chalmers, ma una gran parte della realtà – che contiene il nostro mondo e probabilmente molti altri – è al di fuori delle nostre menti: ne sappiamo poco, e ci sono parti che potremmo non conoscere mai. Cosa che non implica l’inesistenza di quelle parti, e cioè di un piano oggettivo della realtà: «la realtà esiste indipendentemente da noi».
Come molti altri sostenitori dell’ipotesi della simulazione, Chalmers non crede che l’eventuale correttezza di questa ipotesi cambierebbe radicalmente lo stato delle cose del nostro mondo. Riprendendo l’esempio di Matrix, osserva che gli individui nati e cresciuti nella simulazione non hanno mai visto oggetti non simulati o vissuto esperienze indotte da interazioni non simulate. L’idea alla base del film è che gli alberi in Matrix siano in verità simulazioni digitali, ma non esistono «alberi non simulati» di cui le persone abbiano fatto esperienza, che aggiungano o sottraggano informazioni a tutto quello che le persone sanno sugli alberi. Non sarebbe molto diverso scoprire, secondo Chalmers, che alberi, automobili e corpi umani anziché essere fatti di atomi e particelle fondamentali come elettroni, protoni e neutroni sono fatti di bit, o qualunque cosa costituisca questi bit.
Come Chalmers scriveva già nel 2003, in un articolo originariamente pubblicato sul sito del film Matrix, scoprire di vivere in una simulazione non dovrebbe portare alla conclusione che il mondo esterno non esista. «Piuttosto dovrei desumere che il mondo fisico sia costituito da computazioni al di sotto del livello microfisico».
Il sostegno e le obiezioni dei fisici
Negli ultimi anni, in seguito alla sua crescente diffusione e popolarità in vari ambienti, l’ipotesi della simulazione è stata analizzata e commentata da diversi fisici. L’astrofisico e divulgatore americano Neil deGrasse Tyson, considerato uno dei più conosciuti sostenitori di questa ipotesi, moderò nel 2016 un citato dibattito su questo tema, a cui parteciparono alcuni fisici e filosofi tra cui lo stesso Chalmers e Zohreh Davoudi, fisica teorica americana del Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Anche Tyson, come Bostrom, non sostiene che il nostro mondo sia una simulazione ma, in sostanza, che non ci sia un modo per dimostrare che non lo sia. Ci sono anzi probabilità piuttosto alte che sia una creazione di qualche entità dotata di un’intelligenza superiore alla nostra, una simulazione creata «per puro divertimento» così come per puro divertimento ma a un livello inferiore anche noi creiamo simulazioni al computer. E quando si verifica qualcosa di dirompente o di bizzarro nel nostro mondo, in un certo senso, è come se il programmatore si stesse annoiando della sua creazione, disse Tyson nel 2017 in un’intervista con il conduttore televisivo Larry King.
Davoudi è una tra le ricercatrici convinte che sia invece possibile cercare prove sperimentali a sostegno dell’ipotesi della simulazione, generalmente ritenuta indimostrabile anche da molti dei suoi sostenitori. «Se esiste una simulazione sottostante dell’universo che ha il problema della finitezza delle risorse computazionali, proprio come lo abbiamo noi, allora le leggi della fisica devono essere messe su un insieme finito di punti in un volume finito», disse Davoudi durante il dibattito con Chalmers, Tyson e gli altri.
L’idea di Davoudi è che, se tutto il nostro universo è governato da leggi matematiche con costanti apparentemente arbitrarie, e se è vero che questo universo sia frutto di una simulazione, deve allora essere teoricamente possibile scoprire i limiti di questa simulazione attraverso segni riscontrabili nella realtà. È possibile, per esempio, che una serie di anomalie possano accumularsi man mano che la simulazione prosegue, e che per correggere questi errori i simulatori apportino cambiamenti minimi alle costanti delle leggi naturali. Cambiamenti non rilevabili attraverso i nostri attuali strumenti di misurazione ma che lo sviluppo tecnologico potrebbe rendere possibile riscontrare in futuro.
Molti altri fisici hanno commentato in termini critici l’ipotesi della simulazione, definita un’ipotesi non scientifica – «pseudoscienza» – dalla fisica teorica e divulgatrice tedesca Sabine Hossenfelder, ricercatrice al Frankfurt Institute for Advanced Studies (FIAS). Secondo Hossenfelder, l’idea che un’entità in grado di interferire con le leggi della natura rimanga nascosta a noi è un elemento comune nelle religioni monoteistiche, e non sarebbe dimostrabile attraverso la ragione come vorrebbero i suoi sostenitori.
La differenza tra la religione e la scienza, fa notare Hossenfelder, non sta nella presunta assurdità dei fenomeni che la religione descrive rispetto alla scienza. Il fatto che, per esempio, Gesù guarisca i non vedenti non è una storia religiosa perché è impossibile guarire i non vedenti: un giorno potremmo essere in grado di farlo. È una storia religiosa, osserva Hossenfelder, «perché non spiega come si suppone avvenga la guarigione». E mentre i credenti lo accettano per fede, gli scienziati hanno bisogno di una spiegazione di come funzioni.
La parte problematica dell’ipotesi della simulazione, secondo Hossenfelder, è che sottintende che sia possibile riprodurre tutto l’osservabile utilizzando non le leggi della fisica bensì un algoritmo sottostante sviluppato da un programmatore. «Ma nessuno sa come riprodurre la Relatività generale o il Modello standard della fisica delle particelle attraverso un algoritmo da far girare su una qualche macchina». È certamente possibile approssimare quelle leggi naturali attraverso una simulazione al computer, cosa che gli scienziati fanno continuamente, ma non riprodurle, nemmeno nei computer quantistici.
Le persone che credono all’ipotesi della simulazione, secondo Hossenfelder, fanno forse inconsapevolmente grandi supposizioni su quali leggi naturali possano essere riprodotte tramite simulazione al computer, ma non spiegano come dovrebbe funzionare: perché trovare spiegazioni con un elevato livello di precisione che siano alternative a quelle esistenti per tutte le osservazioni dei fisici è qualcosa di molto difficile. Che non significa che l’argomento della simulazione sia di per sé sbagliato: ma che al momento richiede un atto di fede, per essere ritenuto valido.