Un uomo paralizzato dalla SLA ha potuto comunicare grazie a un impianto cerebrale
Ha potuto esprimere i propri pensieri e dire cose su suo figlio, nonostante la completa paralisi causata dalla malattia
Per la prima volta, un uomo di 36 anni completamente paralizzato a causa della sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è riuscito a comunicare grazie a un impianto nel suo cervello collegato a un computer. Il paziente ha potuto fare richieste sulla musica da ascoltare, «voglio sentire i Tool ad alto volume», e ha potuto indirizzare un affettuoso messaggio al proprio figlio: «Voglio bene a quel figo di mio figlio». Il risultato è stato valutato molto promettente, ma siamo ancora lontani dalla possibilità di avere un dispositivo universale, che possa funzionare da subito con tutte le persone con malattie che impediscono loro di esprimersi.
La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia neurodegenerativa per la quale non c’è cura. In pochi anni dai primi sintomi, danneggia in modo irreversibile i neuroni che controllano i muscoli volontari, rendendo i malati progressivamente prigionieri del loro corpo. La paralisi interessa gli arti e nelle fasi più avanzate anche gli occhi, mentre in molti casi non comporta danni all’apparato uditivo. I pazienti possono quindi sentire ciò che avviene loro intorno, ma non hanno modo di reagire e di esprimere ciò che pensano.
Negli anni sono state sperimentate diverse soluzioni per attenuare i problemi comunicativi. Fino a quando i malati di SLA mantengono una minima capacità di muovere un dito della mano o del piede, oppure di muovere gli occhi, è possibile interagire con loro mostrando pannelli di lettere e numeri, con le quali comporre le parole.
Se i movimenti sono minimi e le capacità visive compromesse, gli operatori sanitari pronunciano elenchi di parole, annotando eventuali segnali da parte del paziente. Il processo, per quanto lungo e difficoltoso, consente di ricostruire intere frasi e comprendere le necessità e i pensieri del paziente.
Nei casi di SLA più avanzata, la paralisi muscolare è tale da rendere impossibile quelle forme di comunicazione. Per questo da tempo vari gruppi di ricerca sono al lavoro per soluzioni alternative, che prevedano l’analisi dei segnali elettrici emessi dal cervello. Complice la disponibilità di computer sempre più potenti, delle intelligenze artificiali e di impianti sempre più piccoli e meno invasivi, il settore sta conoscendo una rapida espansione ed è diventato un campo di investimenti per società e miliardari, compreso Elon Musk.
Il risultato della nuova sperimentazione è il frutto di anni di lavoro da parte di alcuni ricercatori tedeschi, che hanno pubblicato da poco uno studio sulla rivista scientifica Nature Communications. Tra gli autori ci sono l’ingegnere biomedico Ujwal Chaudhary e il neuroscienziato Niels Birbaumer, che lavorano da tempo in questo settore e che in passato avevano avuto qualche problema, con un paio di studi contestati da altri gruppi di ricerca e istituzioni scientifiche.
Davanti alla prospettiva di non poter più comunicare con lui, nel 2017 la famiglia del paziente malato di SLA si era rivolta con il consenso dell’interessato ai due ricercatori chiedendo se ci fossero alternative sperimentali per mantenere un canale di comunicazione, visto che il loro familiare aveva deciso di rimanere in vita aiutato da alcune macchine.
Il paziente fu sottoposto a una delicata operazione chirurgica, con la quale gli furono inseriti due piccoli elettrodi in un’area del cervello coinvolta nel controllo dei movimenti. Nelle settimane successive, al paziente fu chiesto di immaginare di muovere varie parti del corpo, per vedere se questi pensieri si traducessero in qualche segnale rilevabile dal computer cui erano collegati gli elettrodi. In questo modo, pensando di muovere o meno un arto, il paziente avrebbe potuto rispondere “sì” o “no” a specifiche domande, oppure comporre frasi da un elenco di parole o parole da una lista di lettere.
I tentativi furono però vani e i ricercatori decisero di seguire una strada diversa, applicando i principi del “neurofeedback”, una tecnica che ha lo scopo di aiutare il paziente a controllare alcune funzioni cerebrali e di intervenire sulle stesse, grazie ad alcuni riscontri (feedback) che riceve mentre esegue particolari esercizi.
Al paziente con la SLA è stato proposto un tono, poi gli è stato chiesto di provare a riprodurlo partendo da un tono diverso e modulandolo con il pensiero. Il tono cambiava a seconda degli impulsi provenienti dai due elettrodi mentre il paziente immaginava di muovere gli occhi. In questo modo, dopo un po’ di esercizio, il paziente è riuscito a riprodurre il tono che gli era stato proposto. Ha quindi avuto a disposizione un sistema per dire “no” con un tono e “sì” con un altro.
In un anno circa di sperimentazione, il paziente è riuscito a utilizzare la sua nuova abilità per comporre parole e intere frasi. Dovendo scegliere da una lista di lettere, il processo era piuttosto lungo, ma i ricercatori sono riusciti ad accorciarlo recuperando una tecnica che avevano adottato i familiari del paziente, quando questo poteva ancora comunicare con il movimento degli occhi.
Le lettere dell’alfabeto sono state raggruppate in cinque gruppi corrispondenti a cinque colori. Una voce sintetica al computer elenca i colori e il paziente risponde “sì” o “no” a seconda che desideri utilizzare una lettera in un gruppo o in un altro. La voce elenca poi la selezione lettere, senza dovere elencare tutte quelle dell’alfabeto, e tra queste il paziente può scegliere più velocemente la lettera desiderata per comporre la parola.
In questo modo il paziente ha potuto esprimere pensieri e desideri di vario tipo. Oltre agli apprezzamenti per il figlio e ai gusti musicali, ha segnalato con chi vorrebbe comunicare e che cosa gli sarebbe piaciuto mangiare, «Un gulasch e una zuppa di piselli dolci».
Nel loro studio, i ricercatori segnalano che su 107 giorni trascorsi a comporre frasi, il paziente è riuscito a produrre frasi chiaramente interpretabili in 44 giornate alla velocità media di una lettera per minuto. Il processo è molto lento, ma è anche l’unico modo per comunicare rimasto al paziente e al momento non ci sono alternative.
Il sistema non è comunque perfetto, è calibrato su una singola persona e non può ancora essere considerato uno standard affidabile per far comunicare i pazienti con paralisi dovute a traumi o malattie. I ricercatori hanno inoltre rilevato una riduzione nell’accuratezza del sistema rispetto ai primi tempi, con un declino considerevole nella chiarezza delle frasi formulate. Non è chiaro quali siano le cause, anche se si sospetta che il problema derivi dal degradarsi degli elettrodi, costantemente a contatto con i fluidi cerebrali. Sostituirli non sarebbe però semplice ed esporrebbe il paziente a rischi eccessivi.
Lo studio di Chaudhary e Birbaumer è stato accolto con grande interesse, ma anche con qualche diffidenza da parte di vari esperti, perché in passato i due ricercatori avevano eseguito esperimenti simili con altri pazienti dicendo di essere riusciti a farli comunicare. Avevano pubblicato un paio di ricerche in merito, poi ritirate in seguito a un’indagine della Deutsche Forschungsgemeinschaft, organizzazione governativa tedesca che si occupa dei finanziamenti per la ricerca.
Era emerso che esistevano pochi video dei pazienti interessati per mostrarne i progressi, e che negli studi le analisi erano carenti. I due ricercatori erano stati anche accusati di essersi inventati alcuni risultati e per questo erano stati sanzionati. La vicenda è ancora aperta, perché in seguito alle accuse i ricercatori decisero di fare causa alla Deutsche Forschungsgemeinschaft.
Secondo le stime dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica, in Italia le persone affetta da SLA sono più di 6mila e il dato è in crescita, con una previsione di circa 2mila nuovi casi ogni anno. Nella quasi totalità dei casi, le cause della malattia non sono completamente note, anche se sono conosciuti alcuni fattori genetici associati alla sua comparsa. La SLA si manifesta solitamente intorno ai 60 anni con una prospettiva di vita in media tra i 3 e i 4 anni; un malato su dieci supera i dieci anni dalla diagnosi, mentre il cinque per cento vive per più di 20 anni.
Il sistema sperimentato in Germania potrebbe favorire forme essenziali di comunicazione da parte dei pazienti nella fase più grave della malattia, ma l’adozione di queste soluzioni pone comunque non pochi problemi etici. L’interpretazione delle frasi composte non è sempre semplice e nel caso di comunicazioni su aspetti letteralmente vitali, come la scelta di un paziente di comunicare di non volere più essere tenuto in vita (per esempio con l’ausilio di macchinari per la nutrizione), il margine di incertezza potrebbe essere troppo alto per comprendere l’effettiva richiesta della persona interessata.