Perché si parla della missione russa a Bergamo del marzo del 2020
L'invasione in Ucraina ha rinnovato alcuni dubbi sulla controversa spedizione di aiuto nelle prime settimane di epidemia
L’invasione russa in Ucraina, con tutte le conseguenze in termini di relazioni diplomatiche internazionali, e una frase pronunciata sabato scorso dal direttore del Primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexei Paramonov, hanno riportato all’attenzione dei giornali e della politica la missione con la quale la Russia aiutò le autorità italiane nella gestione delle prime settimane dell’epidemia di coronavirus a Bergamo, nel marzo del 2020.
Paramonov ha attaccato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, ricordando che «all’Italia è stata fornita un’assistenza significativa attraverso il ministero della Difesa, il ministero dell’Industria e Commercio e il ministero della Salute della Russia. A proposito, una richiesta di assistenza alla parte russa fu inviata allora dal ministro della Difesa italiano Lorenzo Guerini, che oggi è uno dei principali falchi e ispiratori della campagna antirussa nel governo italiano». Paramonov ha anche minacciato «conseguenze irreversibili», cosa che ha fatto ipotizzare a qualcuno che le parole del diplomatico russo contenessero la minaccia di rivelare qualche tipo di accordo segreto tra Italia e Russia.
Paramonov, che conosce bene l’Italia essendo stato console a Milano e che è stato insignito delle onorificenze di Cavaliere dell’Ordine al Merito e di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, ha anche aggiunto: «È deprimente che sullo sfondo dell’isteria anti-russa, le autorità italiane abbiano dimenticato tutto: i trattati e gli accordi bilaterali esistenti, la natura speciale dei nostri legami, la ricca storia secolare di relazioni e tradizioni forti, l’esperienza di successo della cooperazione, il significativo capitale accumulato di fiducia reciproca e si siano uniti alla frenetica campagna russofobica».
Da più parti è arrivata la richiesta di ritirare le onorificenze a Paramonov, le cui parole hanno rinnovato dubbi emersi già tempo fa sulla missione di aiuti, chiamata Dalla Russia con amore. In particolare, non è ancora chiaro in base a quali accordi venne data l’autorizzazione a scienziati russi di accedere a strutture sanitarie italiane e perché, poi, la collaborazione fu bruscamente interrotta.
Nella prima metà del marzo del 2020, l’Italia aveva estremamente bisogno di presidi sanitari, soprattutto mascherine. Negli ospedali, dato l’enorme e improvviso afflusso di malati in terapia intensiva, mancavano anche i respiratori. Il ministero della Difesa russo, come fecero quelli di altri paesi, scrisse al Coi, il Comando operativo interforze, per offrire assistenza. Il ministro Guerini rispose chiedendo mascherine per gli operatori sanitari, FFP2 e FFP3. Dopo questo contatto, il 21 marzo, si sentirono al telefono il presidente russo Vladimir Putin e l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Non si sa ovviamente quali furono gli accordi presi tra i due leader durante quella telefonata ma Conte, intervistato dal Corriere della Sera, ha spiegato che in quei giorni ebbe «colloqui con i leader di tutto il mondo che mi cercarono per manifestare solidarietà per quello che stava accadendo in Italia e per aiutarci. Tra questi anche Putin, che si offrì di mandare personale specializzato. Mi disse che loro avevano maturato grande esperienza su come affrontare le pandemie perché avevano avuto la Sars. Noi eravamo in grandissima difficoltà. Non avevamo mascherine, non avevamo ventilatori. I nostri esperti non avevano neppure un protocollo di azione e non avevamo neppure sequenziato il virus. Ogni aiuto era ben accetto».
Il 22 marzo 2020, giorno di inizio della operazione Dalla Russia con amore, l’area più critica in Italia era ancora quella di Bergamo con 7.458 contagiati. Secondo i calcoli fatti in quei giorni l’Italia avrebbe avuto bisogno di 90 milioni di mascherine al mese e 300mila tamponi al giorno. Quel giorno, alle 21, atterrò all’aeroporto di Pratica di Mare di Roma il primo dei nove quadrimotori russi Ilyushin carico di aiuti e personale. Il controllo fu di tipo security clearance, e cioè un controllo doganale sulle merci, non sulle persone. Ad attendere la spedizione dalla Russia c’erano il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il capo di Stato maggiore Enzo Vecciarelli e Marcello Minenna, direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli.
Dagli aerei sbarcarono 22 veicoli militari e 104 persone. Della spedizione facevano parte 28 medici e quattro infermieri. All’elenco erano stati aggiunti a penna due nomi, quelli di Natalia Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Alexander Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi erano dipendenti del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui Putin il 27 gennaio 2020 aveva affidato l’azione di contrasto dell’epidemia. Il resto dei membri della spedizione era composto da personale militare. Non si sa se ci fossero, tra questi, agenti del Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie (GRU), il servizio di informazione militare russo, ed eventualmente quanti fossero. Si sa per certo però che a guidare la spedizione fu il generale Sergey Kikot, vicecomandante del Reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo, già impegnato, negli anni precedenti, sul fronte siriano.
Il Riformista ha ricostruito che sulla pista sbarcò anche un furgone senza finestrini. I doganieri chiesero di aprirlo ma i russi si rifiutarono spiegando che serviva per i collegamenti televisivi e che comunque c’erano accordi a riguardo a livelli più alti. Il 23 marzo, dice il Corriere della Sera, ci fu un incontro nella foresteria militare di via Castro Pretorio a Roma tra Kikot, Luciano Portolano, comandante del Comando operativo interforze, e i dirigenti del Comitato tecnico-scientifico Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano. Secondo quanto ricostruito dal Corriere, Kikot esordì dicendo: «Siamo qui sulla base di un accordo politico di altissimo livello. Dunque, possiamo fare qualsiasi cosa per aiutarvi. Vogliamo sanificare l’intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio». La replica degli italiani fu che gli interventi potevano riguardare solo ospedali e Rsa.
Ricorda Miozzo:
«L’esordio di Kikot fu particolarmente intrusivo, ruvido. Parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare. Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici. Il colloquio fu interrotto varie volte ma con Portolano decidemmo di non accettare alcuna offerta di quel tipo. La riunione terminò con l’autorizzazione a entrare soltanto in alcune strutture sanitarie. In seguito, ci fu confermato che avevano sanificato molte strade».
Il 23 marzo la colonna di aiuti russi partì verso il Nord Italia, diretta a Bergamo, lungo l’autostrada del Sole, in una rara occasione in cui un convoglio militare russo, con bandiere e simboli, ha percorso le strade di un paese della NATO. Nelle settimane successive all’arrivo del convoglio russo alcuni articoli della Stampa sottolinearono che l’entità degli aiuti arrivata in Italia era decisamente limitata: erano state inviate poche centinaia di migliaia di mascherine, quando solo l’Egitto ne aveva mandati 2 milioni. Furono mandate anche poche decine di ventilatori polmonari, che facevano peraltro parte di un lotto messo poi sotto inchiesta negli Stati Uniti perché difettoso. Gli articoli della Stampa attirarono l’attenzione di un altro generale russo, Igor Konashenkov, oggi impegnato sul fronte ucraino. Scrisse, in una nota: «Qui fodit foveam, incidit in eam». «Chi scava la fossa, ci finisce dentro».
Se gli aiuti erano così limitati, resta da capire il perché di quella missione. Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha recentemente rivelato i dubbi che ebbe già all’epoca:
«Se guardiamo alla composizione di quel contingente russo, fatto solo in parte da medici, è giusto chiedersi quali fossero i loro reali obiettivi. Quando parlo di intelligence la intendo in senso scientifico: il vaccino Sputnik sarebbe stato sviluppato partendo da un campione di virus prelevato in Italia. Già questo basta per dubitare che la missione fosse dovuta a pura generosità. Aggiungiamo che la Russia ha usato quella missione per propaganda, sottolineando la supposta inefficienza dei Paesi Nato».
Ricorda ancora Gori:
«Eravamo in grande difficoltà. L’apertura dell’ospedale alla Fiera di Bergamo venne inizialmente rinviata per il bidone dei medici promessi e mai inviati dai cinesi. Dell’arrivo dei russi qui abbiamo saputo all’ultimo, credo che su questo ci fosse stato un contatto tra Putin e Conte. Ricordo l’atmosfera sinistra di quella conferenza stampa, in cui i giornalisti non potevano rivolgersi ai militari».
Nell’aprile del 2020 ci fu un’interrogazione parlamentare firmata dal radicale Riccardo Magi che chiedeva risposte sulla spedizione russa a Bergamo. A fornirle fu la viceministra degli Esteri Emanuela Del Re, del Movimento 5 Stelle. Innanzitutto spiegò come era stata decisa la spedizione: «A seguito di colloqui tra il presidente Conte e il presidente Putin e tra il ministro della difesa Guerini e l’omologo russo Shoygu, è stato convenuto l’invio in Italia di materiali e personale sanitario». Del Re poi descrisse la composizione della missione: «104 unità, nello specifico 32 operatori sanitari (tra medici e infermieri), 51 bonificatori e altro personale di assistenza e interpretariato a supporto». Quanto agli aiuti, furono «521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, mille tute protettive, due macchine per analisi di tamponi, 10mila tamponi veloci e 100mila tamponi normali».
Un altro elemento emerso dalle dichiarazioni di Del Re fu che «al personale russo impegnato nell’attività di supporto è stato fornito vitto e alloggio presso strutture alberghiere nel bergamasco, con oneri a carico della Protezione civile regionale». In pratica, quello che doveva essere un aiuto da parte del governo russo in Italia costò 400mila euro pagati dalla Regione Lombardia, che da allora aspetta il rimborso da parte del governo. Inoltre, le spese sostenute dagli italiani che affiancarono la missione furono quantificate in un milione di euro. La Stampa riferì anche che, dopo l’arrivo degli aerei a Pratica di Mare, i comandanti della spedizione chiesero che fossero gli italiani a pagare le cospicue spese di volo e carburante degli aerei.
I membri della spedizione russa lavorarono nell’Ospedale San Giovanni XXIII e in quello da campo allestito dagli alpini sempre a Bergamo. I militari furono impiegati principalmente nelle operazioni di sanificazione di 70 residenze sanitarie in provincia di Bergamo e 50 in provincia di Brescia, oltre alla disinfezione di 450mila metri quadrati di strade e viali di ingresso alle residenze sanitarie. Erano comunque sempre accompagnati da personale italiano.
Secondo molti osservatori, la missione era sicuramente a scopo di propaganda: i media russi insistettero sul fatto che, per combattere la pandemia, erano arrivati in Italia non specialisti americani o britannici, ma di Mosca. Un altro obiettivo era quello di provare a incrinare il fronte delle sanzioni decise dopo l’annessione russa della Crimea, o se non altro di fare pressioni sull’Italia perché venissero allentate.
Ma soprattutto la missione servì per apprendere più informazioni possibili sul Covid e sui metodi per combatterlo. Nessun altro paese, nemmeno la Cina, aveva permesso agli scienziati russi di accedere a dati ed evidenze scientifiche. L’Italia lo fece. Repubblica del 21 giugno 2021 riportò una dichiarazione di Natalia Pshenichnaya: «Il mio compito è stato quello di perfezionare la conoscenza dei medici russi sui metodi per trattare i pazienti con infezioni respiratorie acute e farli familiarizzare con le procedure di gestione del Covid adottate nei diversi Paesi». Il New Yorker, qualche mese dopo la spedizione russa in Italia, scrisse che «il DNA di un cittadino russo che si è ammalato in Italia il 15 marzo è stato usato per elaborare il vaccino Sputnik V».
Tra le domande ancora senza risposta c’è anche quella se la spedizione dei membri di Dalla Russia con amore abbia avuto accesso alle cartelle cliniche dei pazienti di Bergamo, e che uso ne abbia fatto. Uno degli strumenti fondamentali utilizzati in Italia dai russi fu un laboratorio mobile di analisi batteriologica, ritenuto uno dei più avanzati al mondo. In quel laboratorio non poté mai entrare nessun italiano.
Molti degli operatori presenti a Bergamo facevano parte dello staff dell’Istituto Gamaleya di Mosca, lo stesso dove è stato elaborato e prodotto il vaccino Sputnik V. Il 7 maggio 2020 tutti i 104 membri della spedizione lasciarono l’Italia. La fine della missione fu giustificata con il fatto che la situazione epidemiologica in Italia era migliorata. Molti osservatori pensano però che furono gli Stati Uniti a fare pressioni perché l’Italia allontanasse, anche se in ritardo, gli scienziati russi.
Quella missione produsse probabilmente anche i primi contatti tra l’Istituto Gamaleya di Mosca e l’ospedale Spallanzani di Roma. Il 20 marzo 2021 fu annunciata una prima sperimentazione in Italia per testare il vaccino russo Sputnik V. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti disse che si trattava di «una sperimentazione in forma scientifica in attesa di autorizzazione formale dell’Ema per quanto riguarda lo studio sulle varianti».
Lo Sputnik V non è stato mai autorizzato dall’Ema ma a gennaio del 2022 lo Spallanzani ha comunicato che era stato fatto uno studio sull’efficacia di Sputnik V contro la variante omicron. Secondo quanto comunicato dal fondo sovrano Rdif, principale investitore di Sputnik V e responsabile della sua commercializzazione, «il vaccino contro il coronavirus Sputnik V dimostra titoli di anticorpi neutralizzanti del virus alla variante Omicron (B.1.1.529) più di due volte superiori rispetto a due dosi di vaccino Pfizer (2.1 volte superiori in totale e 2.6 volte superiori 3 mesi dopo la vaccinazione)». Molti scienziati hanno però avanzato dubbi su quelle conclusioni. A Radio Uno la professoressa Antonella Viola, immunologa all’università di Padova, ha raccontato che dopo aver espresso i suoi dubbi sullo Sputnik V sulla rivista scientifica Lancet ricevette una telefonata di una persona, che disse di essere del ministero dell’Interno e che chiedeva informazioni sulla sua valutazione del vaccino. Le disse che sarebbe andata a trovarla, ma poi non si fece più vivo, ha detto Viola.
Il giorno seguente all’invasione russa dell’Ucraina la Regione Lazio ha fermato qualsiasi collaborazione con l’istituto Gamaleya. Parlando con Repubblica, il direttore dello Spallanzani ha detto che i costi delle ricerche erano tutti a carico dell’ospedale, e quindi dell’Italia.
Un altro strascico della missione russa a Bergamo emerse nel giugno 2021 quando Natalia Pshenichnaya e Alexander Semenov pubblicarono su iimmun.ru la relazione del loro viaggio scientifico in Italia. Le conclusioni furono molto severe: «Nonostante informazioni ampiamente tempestive di una imminente pandemia il sistema sanitario non era preparato al drammatico aumento di pazienti con malattie respiratorie nella prima ondata», diceva insieme a diverse altre valutazioni negative. Nel report si accusavano inoltre i politici di aver «promosso incontri pubblici e strette di mano per enfatizzare che l’economia non doveva fermarsi per colpa del virus. Un comportamento altamente rischioso dai tristi esiti».
Interpellato nuovamente sulla missione russa in Italia del marzo 2020, Giuseppe Conte ha detto: «C’è una relazione del Copasir che ha ascoltato sia i direttori dell’intelligence sia il ministro della Difesa. Non ci sono stati mai elementi per pensare che questa missione russa sia stata confinata al di fuori dell’ambito sanitario». In realtà, secondo Repubblica il Copasir avrebbe ora deciso di ascoltare Conte per ricostruire tutti gli aspetti poco chiari della vicenda.