La morte di Samantha D’Incà
Era in stato vegetativo da più di un anno, e la famiglia ha ottenuto l'interruzione delle cure che la tenevano in vita nonostante l'assenza del testamento biologico
Il 19 marzo in una clinica in provincia di Belluno è morta Samantha D’Incà, in seguito all’interruzione delle terapie sanitarie che la tenevano in vita. D’Incà, che aveva 30 anni, era ricoverata in stato vegetativo da più di un anno, dal 4 dicembre 2020. Pochi giorni prima era stata operata per la rottura di un femore, ma complicanze post-operatorie avevano provocato una grave infezione che l’aveva fatta entrare in coma irreversibile.
L’interruzione delle terapie è avvenuta per volere del padre Giorgio, che lo scorso novembre ne era stato nominato amministratore di sostegno dopo un complicato contenzioso legale intorno alla legge sul testamento biologico del 2017, che permette di decidere di interrompere alcune terapie mediche, in particolare la nutrizione e l’idratazione artificiale, in caso di condizioni irreversibili. Samantha D’Incà non aveva lasciato nessun testamento di questo tipo, ma la sua famiglia aveva a lungo sostenuto che questa fosse sempre stata la sua volontà.
La legge del 2017, chiamata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, prevede che una persona maggiorenne possa stabilire in anticipo attraverso il cosiddetto testamento biologico, ovvero un attestato della propria volontà, di interrompere eventuali trattamenti sanitari nel caso in cui dovesse trovarsi nell’incapacità di decidere o comunicare ciò che vuole. Prevede anche che la persona possa nominare un fiduciario, detto amministratore di sostegno, che prenda al suo posto queste decisioni tenendo conto delle sue volontà.
Oltre non aver lasciato nessun testamento biologico, Samantha D’Incà non aveva nemmeno nominato un amministratore di sostegno. Dopo che le sue condizioni erano progressivamente peggiorate, e dopo che una perizia del comitato etico della ULSS 1 Dolomiti aveva stabilito che lo stato vegetativo era irreversibile, il padre aveva quindi chiesto di essere nominato suo amministratore di sostegno per interrompere le terapie che la tenevano in vita.
Il padre aveva motivato questa richiesta dicendo che la figlia più volte in passato aveva espresso «la volontà di non essere lasciata in condizioni di coma, tenuta in vita da macchinari, se c’è la certezza che non vi sia possibilità di risveglio». La stessa cosa avevano detto anche la madre e il fratello. Per due volte però la richiesta del padre era stata respinta, perché considerato troppo coinvolto emotivamente.
A ottobre la procura di Belluno, su richiesta del giudice tutelare Umberto Giacomelli, aveva espresso parere favorevole a non forzare le terapie, e a novembre infine il giudice aveva acconsentito alla nomina di Giorgio D’Incà come amministratore di sostegno della figlia. A quel punto i familiari di Samantha D’Incà e i medici della clinica in cui era ricoverata avevano concordato che l’interruzione delle terapie sarebbe avvenuta non appena le sue condizioni fossero peggiorate ulteriormente. Questo peggioramento è avvenuto l’11 marzo e tre giorni dopo i medici hanno iniziato a sospendere la nutrizione artificiale e infine le hanno praticato la cosiddetta sedazione palliativa profonda, cioè la somministrazione di farmaci che ne hanno alleviato i dolori fino alla morte naturale.
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