Gli Oscar sono americani o mondiali?
È una domanda sempre più importante dentro all'Academy, e la risposta determinerà la strategia per provare a risolvere la crisi che attraversano
Tra tanti problemi di varia natura – su tutti: la pandemia, la crisi dei cinema e un sempre più preoccupante calo di spettatori televisivi – gli Oscar, la cui cerimonia di premiazione sarà nella notte tra il 27 e il 28 marzo, stanno anche facendo i conti con una sorta di crisi di identità, o quantomeno di direzione da prendere. In breve, come ha scritto Vox, chi organizza gli Oscar «non riesce a decidere se hanno a che fare con il mondo o solo con gli Stati Uniti». In altre parole, non sembra aver chiaro se sia più giusto e utile puntare a essere un grande evento locale, guardato in tutto il mondo ma che riguarda perlopiù il cinema di un solo paese, gli Stati Uniti, o se invece convenga aprirsi al cinema mondiale, a chi lo fa e a chi lo guarda.
È una questione che comporta scelte tra strade diverse, con relativi benefici e svantaggi, dovuta a cause e processi recenti ma anche conseguenza di ragionamenti che esistevano già quando, alla fine degli anni Venti del Novecento, furono assegnati i primi Oscar, che allora si chiamavano soltanto Academy Awards.
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Il fatto principale è che, come ha scritto Alissa Wilkinson su Vox, gli Oscar stessi furono creati proprio per salvare Hollywood. A fine anni Venti, quella che già allora era la più grande industria cinematografica al mondo si trovava infatti in un periodo difficile. Nonostante il successo che aveva avuto e la ricchezza che aveva generato, Hollywood aveva dovuto gestire problemi d’immagine ed era percepita come un’industria troppo licenziosa e frivola, qualcosa su cui non era il caso di puntare troppo. Inoltre, molti lavoratori di Hollywood (attori, registi e sceneggiatori, ma anche membri delle troupe) insistevano per condizioni di lavoro migliori e per la possibilità di avere dei loro sindacati.
Su proposta e iniziativa di Louis B. Mayer, uno dei tre fondatori della Metro-Goldwyn-Mayer (o MGM), nel 1927 fu quindi fondata l’AMPAS, Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che dal 1927 iniziò ad assegnare i suoi premi: fin da subito a forma di statuetta, ma non ancora chiamati Oscar. L’AMPAS serviva ai produttori per trattare con ancora più forza contrattuale con i lavoratori dipendenti e gli Oscar furono, in una sintesi offerta a Vox dallo storico David Thomson, «un’operazione di pubbliche relazioni volta a promuovere il concetto che Hollywood fosse un posto meraviglioso in cui venivano create storie affascinanti ed emozionanti».
Nei primi anni degli Oscar, gran parte degli affari era negli Stati Uniti, e gran parte degli interessi riguardava quindi ovviamente il pubblico di quel paese. Col tempo anche il cinema del resto del mondo si accorse degli Oscar e provò a prendervi parte. Il primo film straniero a essere candidato al premio più importante fu, nel 1939, La grande illusione, film francese (ma recitato anche in tedesco, russo e inglese) di Jean Renoir. Nel 1946 il film svizzero Marie-Louise fu il primo a vincere un Oscar, per la migliore sceneggiatura. Ma quanto poco gli Oscar si curassero del resto del mondo lo dimostra il fatto che solo nel 1956 venne istituito il premio per il miglior film straniero, e il fatto che per molti decenni quel premio sia rimasto secondario.
Il problema è che tra le tante categorie degli Oscar destinate perlopiù e quasi sempre a premiare film statunitensi o quantomeno anglofoni, la categoria per il miglior film straniero, che solo dal 2020 si chiama “miglior film internazionale”, restò una sorta di recinto protetto per i film degli altri. Nella storia degli Oscar è successo solo 12 volte che un film non in lingua inglese fosse candidato all’Oscar per il miglior film.
Nel 2020 la vittoria dell’Oscar più importante da parte del sudcoreano Parasite fu qualcosa di storico, a suo modo, ed è anche notevole che quest’anno il film giapponese Drive My Car risulti candidato in quattro categorie – miglior film, miglior film internazionale, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale – e il danese Flee sia candidato, oltre che come miglior film internazionale, anche come miglior documentario e miglior film d’animazione. A parte questi recenti esempi, resta però il fatto che, come ha scritto Vox, «in termini assoluti, a vincere sono stati per la maggior parte film in inglese, molti dei quali prodotti negli Stati Uniti».
Basandosi su una serie di decisioni volte a rendere più varia e internazionale la rappresentanza delle migliaia di addetti ai lavori che fanno parte dell’Academy, c’è chi pensa che gli Oscar si stiano però internazionalizzando, con l’obiettivo di diventare dei premi statunitensi per il cinema mondiale. Accogliendo a loro modo un cambiamento che altrove sembra già ben avviato da tempo, con le serie e i film internazionali di Netflix o con il fatto che, anche a causa della pandemia, gli incassi fuori dagli Stati Uniti – in particolar modo in Cina – stanno diventando sempre più determinanti. Come ha scritto Vox, «per non diventare irrilevante, e forse perfino insolvente, Hollywood deve cambiare ed espandersi». In questo senso, gli Oscar non farebbero che adattarsi a loro volta a quel cambiamento.
A chi vede gli Oscar come premi internazionali, capaci di accrescere la fama (e gli incassi) di film che altrimenti potrebbero faticare negli Stati Uniti, si oppone però chi ritiene che dovrebbero invece restare fedeli alla tradizione e concentrarsi perlopiù sul cinema statunitense: in parte per “difenderlo”, in parte per evitare che gli Oscar diventino premi magari importanti ma sempre meno seguiti proprio negli Stati Uniti, il paese dal quale sono trasmessi e per il quale è pensata la cerimonia.
Una serie di ragioni (compresa la evidente crisi dei Golden Globe, gli unici premi che, seppur a modo loro, cercavano davvero di fare concorrenza agli Oscar) rende i prossimi anni possibilmente determinanti nel decidere se gli Oscar prenderanno una rischiosa strada più internazionale o se invece proveranno con più determinazione a tornare attraenti anzitutto negli Stati Uniti, magari pensando a cerimonie o premi che riguardino i film più visti negli Stati Uniti e non film, magari bellissimi e celebrati, ma poco visti. È infatti difficile pensare che, seppur con tutto il contorno possibile, un rilevante numero di spettatori si interessi a una cerimonia che premia in una ventina di categorie film, registi, attori, attrici e membri vari che hanno lavorato a film sconosciuti.
Non è detto che quello che farebbe comodo a Hollywood sia uguale a quello che farebbe comodo all’Academy e agli Oscar, e soprattutto non è chiaro al momento cosa, a conti fatti, farebbe davvero più comodo. Wilkinson, nel suo articolo, propende chiaramente per una maggiore internazionalizzazione degli Oscar, e scrive: «una generazione di giovani spettatori cresciuti su internet potrebbe essere più aperta alle prospettive del cinema globale, più attenta a quel che ha successo in giro per il mondo. E se l’Academy vuole restare attuale, e far sì che la cerimonia mantenga il dominio che ha avuto per quasi un secolo, deve adattarsi, e deve farlo in fretta».
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