L’omicidio di Marco Biagi
Vent'anni fa le Nuove Brigate Rosse uccisero a Bologna il consulente del governo responsabile di una contestata legge sul mercato del lavoro
L’esperto di diritto del lavoro e consulente del governo Marco Biagi fu ucciso a Bologna alle 20.07 del 19 marzo del 2002, vent’anni fa. Ad assassinarlo furono le Nuove Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente, gruppo terroristico nato dieci anni dopo la dissoluzione delle Brigate Rosse originarie. Biagi era un docente di diritto del lavoro molto noto, consulente di vari ministri del Lavoro e soprattutto responsabile di una legge che sarebbe entrata in vigore un anno dopo la sua morte, studiata per portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro anche attraverso la nascita di contratti a progetto.
Fu scelto come obiettivo dai terroristi proprio perché si occupava di mercato del lavoro, esattamente come Massimo D’Antona, altro giuslavorista assassinato a Roma tre anni prima, il 20 maggio 1999. L’omicidio D’Antona era avvenuto undici anni dopo l’ultimo omicidio compiuto dalla Brigate Rosse, quello del senatore della Democrazia Cristiana Roberto Ruffilli, assassinato a Forlì il 16 aprile 1988.
Ma Biagi divenne un obiettivo anche perché da qualche mese era stato privato della scorta. Disse durante la sua testimonianza al processo Cinzia Banelli, terrorista pentita: «Se Marco Biagi avesse avuto la scorta non saremmo riusciti ad ucciderlo». Gli era stata tolta dopo gli attentati dell’11 settembre: il pericolo di attacchi da parte del terrorsimo islamista venne considerato prioritario e le scorte vennero riassegnate dando la priorità a chi poteva essere obiettivo di azioni armate di al Qaida.
Sulla mancata assegnazione della scorta ci furono due inchieste: vennero indagati l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola e il capo della polizia Gianni De Gennaro. La prima inchiesta venne archiviata, la seconda si concluse nel 2015 con la dichiarazione di prescrizione del reato di cooperazione colposa in omicidio colposo. Biagi, nei mesi precedenti la sua morte, aveva detto di essere stato minacciato telefonicamente e aveva scritto più volte al ministro dell’Interno chiedendo il ripristino della scorta.
Le polemiche sulla mancata assegnazione della scorta ebbero anche una clamorosa conseguenza il 30 giugno 2002 quando al ministro Scajola, in visita ufficiale a Cipro, fu chiesto come mai una figura centrale come Biagi non fosse protetto da una scorta. Il ministro rispose con questa frase: «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Le parole del ministro furono riportate dal Corriere della Sera. Tre giorni dopo Scajola si dimise.
In occasione del viaggio a Cipro, Scajola aveva anche detto: «A Bologna hanno colpito Biagi che era senza protezione, ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre. E poi vi chiedo: nella trattativa di queste settimane sull’articolo 18 quante persone dovremmo proteggere? Praticamente tutte». In quelle settimane era infatti in corso un acceso dibattito a proposito dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che tutela i lavoratori dipendenti dall’eventualità di licenziamento illegittimo. I partiti del governo Berlusconi avevano l’obiettivo di abolire l’articolo mentre i sindacati si opposero duramente. Per il 22 marzo era stata convocata a Roma, da parte della Cgil, una manifestazione in difesa dell’articolo 18, che poi si tenne con una enorme partecipazione.
Biagi era stato consulente del ministro del Lavoro Tiziano Treu nel 1995 e poi Rappresentante del governo italiano nel Comitato per l’occupazione e il mercato del lavoro dell’Unione Europea. Nel 1998 aveva collaborato, come consulente, con un altro ministro del Lavoro, Antonio Bassolino, e nel 2000 aveva partecipato alla stesura del Patto per Milano, un accordo di collaborazione sui temi del lavoro tra la giunta di centrodestra del Comune e alcuni sindacati. L’anno successivo era divenuto consulente del ministro del Lavoro Roberto Maroni, con il quale lavorò alla proposta di legge che poi divenne la 30/2003, nota proprio come legge Biagi.
La sera in cui venne ucciso, Biagi arrivò, come ogni giorno, alla stazione di Bologna dopo aver finito di insegnare all’università di Modena, in cui era docente di Economia. Recuperò la bicicletta, posteggiata alla stazione, e si diresse verso casa, in via Valdonica. Due persone stavano seguendo i suoi movimenti: avvertirono i tre complici che erano sotto casa del giuslavorista ad aspettarlo. Due di loro, arrivati sul luogo dell’attentato in scooter, e con caschi integrali, spararono sei colpi. Il terzo brigatista, di vedetta, scappò a piedi.
Al processo contro gli autori dell’attentato una ragazza che era quella sera nel caffè Freedom di via Valdonica raccontò che cosa aveva visto: «Ho sentito dei rumori e un grido d’ aiuto, mi sono affacciata alla porta del caffè e ho visto Biagi che cadeva a terra con la bici quasi sui piedi e due persone vicine, una che gli sparava. Biagi era steso di fronte alla porta di casa sua con la testa girata verso la piazza. Erano in due, uno era più avanti inclinato verso di lui e sparava. Ho sentito che gridava aiuto e che chiedeva pietà». In che senso pietà?, chiese il giudice: «“Per favore aiutatemi”, sono state le sue ultime parole». Disse ancora la ragazza: «La canna era coperta da un giornale o qualcosa…uno sparo l’ho visto e uno l’ho sentito. Io allora mi sono nascosta nel locale sotto una panca e ho chiamato i carabinieri con il cellulare».
La rivendicazione arrivò poche ore dopo l’omicidio: venne spedita via mail a oltre 500 indirizzi. C’era scritto:
«Il giorno 19 marzo 2002 a Bologna, un nucleo armato della nostra Organizzazione, ha giustiziato Marco Biagi consulente del ministro del lavoro Maroni, ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato, e di ridefinizione tanto delle relazioni neocorporative tra Esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, quanto della funzione della negoziazione neocorporativa in rapporto al nuovo modello di democrazia rappresentativa».
Le indagini stabilirono che a sparare era stata la stessa pistola con cui era stato colpito D’Antona. Furono analizzati tabulati telefonici e i video ripresi alla stazione di Bologna al momento dell’arrivo di Biagi in treno da Modena. Il 31 ottobre 2002 furono diffusi due ordini d’arresto, nei confronti di Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, entrambi irreperibili. Lioce, il cui nome era già comparso nell’indagine sull’omicidio D’Antona, non aveva nessun carico pendente con la giustizia mentre Galesi, già condannato per rapina a mano armata, era evaso dagli arresti domiciliari. Vennero indagati anche alcuni componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse che, secondo i sospetti degli inquirenti, avevano coordinato o aiutato, dall’interno delle carceri, le azioni del nuovo gruppo terroristico. I sospetti nei loro confronti caddero però presto.
Il 3 marzo 2003, a bordo di un treno interregionale tra Roma e Firenze, tre agenti della polizia ferroviaria chiesero i documenti a due persone, un uomo e una donna. I documenti, falsi, insospettirono uno degli agenti che telefonò alla centrale per chiedere riscontri. A quel punto l’uomo, che si scoprì essere Mario Galesi, estrasse la pistola e sparò uccidendo il sovrintendente Emanuele Petri. Un altro agente, Bruno Fortunato, anche se ferito, riuscì a sparare uccidendo il brigatista mentre Lioce, che non aveva tolto la sicura alla pistola e non era riuscita a sparare, fu immobilizzata dal terzo agente, Giovanni Di Fronzo. Il treno fu fatto arrivare alla stazione di Castiglion Fiorentino dove Lioce fu presa in custodia e vennero sequestrati due zaini contenenti computer, schede telefoniche, telefoni cellulari, due computer e molti appunti.
Grazie al materiale sequestrato, le indagini condussero ad altre persone: Roberto Morandi, Cinzia Banelli, Marco Mezzasalma e Simone Boccaccini, tutti coinvolti nella preparazione ed esecuzione dell’attentato a Biagi. Qualche mese dopo fu scoperto il covo romano delle Nuove Brigate Rosse, in via Montecuccoli, e venne arrestata Diana Blefari Melazzi, filmata mentre portava via documenti dal covo per spostarli altrove.
Mentre gli altri si dichiararono prigionieri politici, Banelli iniziò a collaborare con i magistrati aiutando a ricostruire le azioni del gruppo.
Lioce, Morandi, Mezzasalma e Blefari Melazzi furono condannati all’ergastolo per l’omicidio di Biagi. La pena per Boccaccini fu di 21 anni di carcere. Lioce, Morandi e Mezzasalma furono condannati all’ergastolo anche per il concorso nell’omicidio di D’Antona, delitto per il quale l’esecutore materiale fu individuato in Mario Galesi. A Nadia Desdemona Lioce vennero inflitte condanne anche per gli attentati alla sede della Commissione di garanzia per gli scioperi, a quella della Cisl di Milano (entrambi del 2000) e all’Istituto affari internazionali di Roma nel 2001, oltre che per quattro rapine in Toscana, tra il 1998 e il 2003. Cinzia Banelli venne condannata a 15 anni e sei mesi per l’omicidio Biagi e a 12 anni per l’omicidio D’Antona. Come collaboratrice di giustizia ora ha cambiato identità: è libera e vive in un luogo segreto.
Diana Blefari Melazzi, detenuta in regime di 41bis, si suicidò il 31 ottobre 2009 nella sua cella del carcere romano di Rebibbia. Il 10 aprile 2010 morì suicida anche l’agente della Polfer Bruno Fortunato che aveva partecipato alla sparatoria sul treno Roma-Firenze in cui erano morti il suo collega Petri e il brigatista Galesi.
Lioce, Morandi e Mezzasalma sono tuttora detenuti in regime di 41bis. La decisione che impone loro il carcere duro è stata rinnovata nel settembre scorso, con la motivazione che «l’associazione terroristica è tuttora operante e risulta tuttora dedita ad attività di proselitismo nonché alla programmazione di gravissimi delitti».