Storia dei movimenti per la pace in Italia
Dagli anni Sessanta e le battaglie per l'obiezione di coscienza all'opposizione alla guerra in Kosovo e in Iraq
È solo negli ultimi secoli che il tema della pace è stato percepito come un obiettivo politico. La storia dei movimenti pacifisti è antica e complessa, attraversa la politica, il diritto, la filosofia, le piazze, ed è tornato ad avere visibilità anche in Italia dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. I movimenti pacifisti e antimilitaristi in queste settimane stanno sostenendo che l’invio di armi da parte dei paesi europei all’Ucraina non sia né giusto né efficace, e che il conflitto possa e debba essere invece fermato attraverso un’azione diplomatica multilaterale e una “neutralità attiva”, senza posizionarsi cioè dalla parte di nessuno dei due blocchi armati, ma dalla parte delle persone colpite dalla guerra.
Queste posizioni hanno attirato molte critiche da parte di chi invece sostiene che l’unico modo per fermare le mire espansionistiche del presidente russo Vladimir Putin sia una reazione dura e muscolare, senza arrivare a un intervento militare – che con ogni probabilità espanderebbe istantaneamente il conflitto su scala continentale e forse globale – ma sostenendo in tutti gli altri modi la resistenza ucraina, e quindi anche con le armi.
Intorno a questa contrapposizione si sta sviluppando un confronto acceso, fatto anche di reciproche semplificazioni e accuse poco oneste, e che ha molto a che fare con una storica divisione esistente nei paesi europei tra chi difende l’alleanza militare della NATO e chi invece la critica duramente, principalmente per il passato militare – giudicato violento e imperialista – degli Stati Uniti. Con varie sfumature e posizioni intermedie, quindi, da una parte i movimenti – essenzialmente di sinistra – rivendicano di non stare “né con Putin né con la NATO”, dall’altra in molti li accusano per questo di avere una posizione di equidistanza tra aggressore ed aggredito, oltre che di “antiamericanismo”.
Sarebbe più corretto, storicamente, parlare di movimenti per la pace al plurale. La questione dell’opposizione alle guerre e dell’antimilitarismo è legata infatti ad altri movimenti, compresi quello ecologista, quello anarchico e quello femminista, fin dal secondo dopoguerra. Il pacifismo italiano è stato portato avanti da associazioni che a un certo punto si sono coordinate in reti nazionali e transnazionali, ha seguito vari filoni (in Italia i principali sono stati tre), ha assunto diverse basi teoriche, riferimenti culturali e diverse pratiche politiche: alcune si basano sulla non violenza, altre ammettono invece la conflittualità, per esempio.
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Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento e membro dell’esecutivo della Rete Italiana Pace e Disarmo, racconta che la nascita del movimento pacifista in Italia ha una data simbolica: il 24 settembre del 1961, quando il filosofo e pedagogista Aldo Capitini inaugurò la prima “Marcia per pace e la fratellanza fra i popoli” da Perugia ad Assisi, riunendo i tre filoni storici del pacifismo espresso fino a quel momento: quello social-comunista, quello cattolico e quello liberal-radicale. «In quel momento Capitini, che rappresentava una novità assoluta, ossia il pacifismo non violento che ha come riferimento culturale e filosofico l’esperienza di Gandhi, chiamò a raccolta le tre correnti preesistenti inaugurando la nascita del pacifismo politico che affermò, da subito, come la pace non fosse una questione morale, ma qualcosa che doveva essere inserito nell’agenda politica».
Uno dei temi centrali per il movimento pacifista italiano, fino agli anni Settanta, fu quello dell’obiezione di coscienza al servizio militare, che venne poi introdotta con la legge numero 772 del 15 dicembre 1972. La legge riconobbe cioè la possibilità di rifiutare il servizio militare, a quel tempo obbligatorio, e di sostituirlo con un altro servizio parallelo, non armato e sempre obbligatorio: il servizio civile. Prima di quella legge, c’era stato comunque chi aveva rifiutato l’arruolamento o la leva perché, appunto, era pacifista, anarchico, antimilitarista e, più tardi, anche cattolico. Affrontandone le conseguenze legali.
Il primo e più celebre processo penale di questo tipo fu quello contro Pietro Pinna, che alla fine del 1948 fu chiamato per la leva. Pinna si rifiutò appellandosi ai principi della non violenza e per questo venne condannato al carcere.
La Chiesa cattolica, prima del 1972, stava dalla parte della legge e dunque contro gli obiettori di coscienza al servizio militare. Nella prima metà dell’Ottocento papa Gregorio XVI l’aveva definita «un vaneggiamento» e nel 1955 Pio XII disse: «Se dunque una rappresentanza popolare e un Governo eletti con libero suffragio, in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di politica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutar di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge».
Negli anni Sessanta cominciarono però le prime obiezioni in nome della fede cristiana, sostenute da alcune figure del mondo cattolico che divennero poi dei riferimenti per il movimento pacifista in generale, come padre Ernesto Balducci o don Lorenzo Milani, che venne processato due volte per apologia di reato: la prima volta fu assolto, la seconda, in appello, fu condannato con «reato estinto per la morte del reo».
Negli Sessanta e poi per tutti gli anni Settanta il movimento pacifista italiano, nelle sue varie forme e declinazioni, prese posizione anche rispetto ai grandi eventi che stavano attraversando la storia del mondo: la costruzione del Muro di Berlino, la crisi dei missili a Cuba, la contrapposizione tra il Patto di Varsavia e la NATO e poi più tardi il regime dei colonnelli in Grecia, il golpe di Pinochet in Cile contro il presidente socialista Allende e la guerra in Vietnam, inventando e praticando diverse forme di protesta e di disobbedienza civile.
Tra queste c’erano la non collaborazione e il boicottaggio (quello dei portuali italiani, ad esempio, che si rifiutarono di scaricare e caricare le navi greche e cilene); le obiezioni alle spese militari (inaugurate da alcuni impiegati che cominciarono a detrarre dalla dichiarazione dei redditi la percentuale da destinare al ministero della Difesa); la restituzione dei congedi illimitati, come gesto di obiezione di chi aveva già finito il militare ma ne ripudiava l’esperienza; i referendum autogestiti, gli incatenamenti, i tappeti umani e i blocchi ferroviari, a partire da quello più celebre della fine degli anni Settanta, alla stazione di Capalbio, in provincia di Grosseto, per protestare contro il progetto di costruzione delle centrali nucleari.
«Quando crollò il Muro di Berlino», dice Valpiana, «per un anno ci fu l’illusione che si aprisse una pagina nuova della storia, fatta dell’unione tra popoli, di nuovi rapporti con i paesi dell’est e di un’Europa che potesse assumere una sua dimensione allargata e pacifica. Ma l’illusione durò appunto un anno perché, e siamo tra il 1990 e il 1991, scoppiarono la prima Guerra del Golfo e la guerra nei Balcani». Il pacifismo si trovò dunque, per la prima volta in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, «a doversi confrontare con le guerre e a dover, di conseguenza, cambiare modalità».
In questo nuovo contesto alcune delle priorità del pacifismo degli anni Ottanta, come quella del disarmo nucleare, assunsero progressivamente un’importanza minore e il movimento si riorganizzò seguendo tre strade principali: quella della lotta politica, quella della lotta giuridica in materia di diritto internazionale e quella che il leader ecologista, il parlamentare europeo ed esponente del movimento pacifista italiano Alexander Langer, definì “pacifismo concreto”, e che mise in primo piano l’azione diretta nelle zone di conflitto.
«Il pacifismo divenne “umanitario”», dice Valpiana. «Mise i piedi sul terreno di guerra, con i cosiddetti ambasciatori di pace, con le carovane che partivano per la ex Jugoslavia in soccorso delle vittime: di chi stava sotto alle bombe e di chi voleva scappare». Si portavano solidarietà e aiuti umanitari, si organizzavano attività di diplomazia dal basso e di volontariato, si dava sostegno politico alle forze di pace e si organizzavano iniziative in collaborazione con le forze anti guerra delle diverse comunità.
«Sul campo, i pacifisti entrarono direttamente e con proposte di pace molto concrete e fu in quel momento che nacquero i rapporti tra le associazioni italiane e quelle per la pace e i diritti umani dei paesi in guerra. Iniziarono i coordinamenti, si superarono definitivamente le tre divisioni italiane tra il filone di sinistra, quello cattolico e quello liberale e iniziò a concretizzarsi l’esperienza che oggi, qui in Italia, riunisce le diverse anime del movimento nella Rete Italiana Pace e Disarmo».
Parallelamente, il pacifismo politico continuò a lavorare per una soluzione non violenta dei conflitti, per un ripensamento della funzione dell’ONU e dell’Unione Europea, per il disarmo e per una riduzione delle spese militari. Fu anche grazie a una forte campagna pacifista, tra l’altro, che venne approvata in parlamento la legge sul commercio delle armi (185/1990) per vietarne la vendita a nazioni in guerra o che violano i diritti umani.
Il pacifismo giuridico si concentrò invece sul ruolo del diritto internazionale, per la costituzione della Corte penale internazionale, ad esempio, e per l’istituzione di tribunali speciali per giudicare i crimini di guerra.
Alla fine degli anni Novanta, lo scenario internazionale cambiò di nuovo con un’accelerazione dei conflitti che coinvolgevano potenze su scala globale. La prima fu guerra in Kosovo, quando la NATO intervenne bombardando la Serbia inizialmente senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (in cui la Russia ha il potere di veto), per costringere il presidente Slobodan Milošević a interrompere l’occupazione e le operazioni di pulizia etnica ai danni della minoranza albanese. Il ruolo della NATO nel conflitto fu dibattuto per anni: a chi lo ritenne fondamentale per difendere la popolazione kosovara e per destituire Milošević, morto durante il processo per crimini contro l’umanità a suo carico che si svolse all’Aia, si oppose chi lo giudicò unilaterale e responsabile di una escalation nelle violenze, oltre che causa di estese perdite civili nella popolazione serba.
L’attentato alle Torri Gemelle nel 2001, e il successivo intervento in Afghanistan, spinsero poi 200mila persone a partecipare alla marcia della pace da Perugia ad Assisi. E fu soprattutto la successiva invasione statunitense in Iraq, un’iniziativa unilaterale senza l’autorizzazione dell’ONU, a dare definitivo slancio al nuovo movimento pacifista in tutto il mondo, anche in Italia. Moltissimi cittadine e cittadini italiani esposero dai balconi la bandiera della pace, e il 15 febbraio 2003 a Roma ci fu un’enorme manifestazione del movimento pacifista, organizzato in 400 gruppi e associazioni, nello stesso giorno in cui, attraverso una rete di coordinamento, milioni di persone scesero per le strade in 800 città del mondo in quella che venne definita la più grande mobilitazione di massa della storia. Il New York Times definì il movimento come «la seconda superpotenza mondiale».
Questo “nuovo” movimento pacifista si sovrappose, in parte, con i vasti movimenti sociali antiliberisti e anticapitalisti che si svilupparono dopo la contestazione del vertice della World Trade Organization di Seattle nel 1999 e il Forum sociale mondiale di Porto Alegre del 2001. In quegli anni, e in concomitanza con l’intervento degli Stati Uniti prima in Afghanistan e poi in Iraq, vi fu un progressivo mutamento del discorso no global, e che in Italia riuniva una componente considerevole della sinistra critica e antagonista: il movimento iniziò a definire gli obiettivi della propria contestazione sempre meno in termini economico-sociali e sempre più in termini politico-militari. Fu soprattutto all’interno di questa prospettiva che l’antiamericanismo, basato prima sul rifiuto di un modello economico capitalistico e sulla denuncia degli effetti autodistruttivi del sistema finanziario, si saldò con il pacifismo. Il pacifismo no global sostenne, e sostiene ancora oggi, che tutte le guerre siano l’altra faccia del neoliberismo e che siano ingiuste sempre.
Il cosiddetto “antiamericanismo” si sviluppò dunque soprattutto all’interno di questi specifici contesti, mentre attraversò solo in parte i movimenti pacifisti italiani più tradizionali: si sviluppò all’interno delle correnti di sinistra del secondo dopoguerra, e a partire dal corso interventista della politica estera americana. «Oggi non esiste l’antiamericanismo» sostiene Valpiana «nemmeno da parte di chi è erede di quella storia».
Secondo Valpiana, i movimenti pacifisti furono caratterizzati «da una forte critica alla NATO, certamente, perché dopo il 1989 e lo scioglimento del Patto di Varsavia ci si aspettava lo scioglimento anche della NATO, o un suo forte ridimensionamento: una sua trasformazione da alleanza militare per contrastare il blocco sovietico, che non c’era più, ad alleanza di sicurezza e cooperazione in Europa. Ma quelle critiche furono legate a fatti politici e storici più che a un’ideologia e riguardarono solo uno dei filoni dei movimenti pacifisti italiani».
Oggi i movimenti pacifisti difendono lo slogan “né con la NATO né con Putin” sostenendo che non rappresenti una posizione di equidistanza rispetto alle responsabilità dei due fronti coinvolti, quello ucraino e quello russo. Nonostante ci siano stati ambienti politici in cui la condanna all’aggressione russa è stata giudicata debole e ambigua, la Rete Italiana Pace e Disarmo ha definito «criminale» l’azione di Putin. Il principio difeso è però quello del rifiuto della guerra, accompagnato dalla necessità di stare dalla parte delle popolazioni colpite, sia quella ucraina sia quella russa, e di lavorare per una soluzione diplomatica giudicata comunque possibile.