Quelli che leggono i testi che vogliamo far diventare libri
Uno dei più importanti tra loro, l'editor Antonio Franchini, racconta nel suo nuovo libro i rapporti col proprio lavoro e con i libri (o non libri) degli altri
Antonio Franchini è direttore editoriale della casa editrice Giunti da sette anni, dopo un lungo periodo in Mondadori durante il quale si è costruito stima e ammirazione del mondo editoriale e culturale italiano come uno dei più esperti e importanti editor italiani: ovvero quelle persone nell’editoria che si occupano sia di scegliere i libri da pubblicare che di seguirli e perfezionarli, a volte con interventi anche molto rilevanti, fino alla loro versione finale e pubblicazione. Franchini, che ha 64 anni, è a sua volta scrittore e ha appena pubblicato per l’editore veneziano Marsilio Leggere possedere vendere bruciare, un memoir sulla sua relazione personale e professionale con i libri, ricco di informazioni solitamente poco visibili ai lettori sulle dinamiche dell’editoria. In uno dei primi capitoli descrive le proprie riflessioni intorno al rapporto con i testi che un editor riceve e con i suoi autori.
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Quando prendo le telefonate di qualcuno che chiede come deve fare per inviare il proprio dattiloscritto, a quale indirizzo, all’attenzione di chi, entro quanto tempo potrà sapere qualcosa, prima o poi sento in chi mi parla un indugio, un’incertezza nella voce, che s’incrina, oppure, al contrario, dovendo superare un imbarazzo, diventa proterva, troppo squillante: «Perché, sa, io avrei scritto un romanzo che parla di…»
«No, guardi, non me lo racconti, non serve a niente. L’opera deve parlare da sola. Fa prima a spedirlo…»
«Ah, ecco, sì… va bene…» dice allora la maggior parte di quelle voci, sollevata.
Sento, in quegli imbarazzi e in quei sollievi, lo stesso mio di quando telefono a un ufficio delle imposte, all’Aci, a un qualunque ente sapendo che, finché ho da porre domande chiare e precise, il funzionario mi risponderà, ma se divago, se il mio problema non lo esprimo chiaramente, allora potrò suscitare il suo fastidio, una risposta irritata e brusca.
Siamo i discreti depositari dei più farneticanti narcisismi, di querule recriminazioni, imprevedibili debolezze, perdite del senso di realtà, delle più macchinose manie di persecuzione e dei più patetici entusiasmi.
Siamo funzionari che, a conoscenza degli abissi della burocrazia, sorridono quando qualcuno ci telefona dicendo: «Non posso credere che non riuscite a pubblicare la mia opera, allo scrittore X, al critico Z è piaciuta moltissimo e a voi no? Arrivo ancora a capire il rifiuto del lavoro precedente, ma questa volta no, questa volta mi sono superato!»
Sappiamo che quasi non facciamo a tempo a rilasciare una mezza dichiarazione – una delle rare volte che usciamo dal nostro anonimato – che ci arrivano, nel giro di pochi giorni, almeno quattro o cinque dattiloscritti accompagnati da lettere del tipo: «Lei ha dichiarato, nell’intervista al Corriere della Sera del… di stare aspettando un’opera “nuova” che riesca a stupirla. Ho la presunzione di credere che il mio romanzo abbia tutte le caratteristiche per stupirla…»
Privi come siamo di riferimenti sul dattiloscritto che ci troviamo davanti, la lettera d’accompagnamento, come un guizzo di stella per gli antichi navigatori, è spesso l’unico aiuto paratestuale. Ne conosciamo di tutti i generi: brillanti e creative o piatte e informative, dirette e colloquiali («Ehi tu, lettore! Non so che faccia hai, però mi sei simpatico… Be’, lo so che finora non te la sei passata troppo bene, ma adesso tocca a me e spero proprio di non deluderti») o dure e burocratiche («In riferimento al nostro colloquio telefonico del 12 c. m…»), trionfali («Ecco l’opera che aspettavate da decenni!»), rassegnate («So che ricevete decine di dattiloscritti al giorno, so quindi di non avere speranze») e possibiliste («Pur sapendo che ricevete centinaia di dattiloscritti…»).
Una volta il dattiloscritto mi è arrivato assieme a una sontuosa orchidea adagiata in una confezione trasparente. La lettera accompagnatoria diceva che non sarebbe stato giusto procrastinare la lettura del romanzo oltre il tempo che avrebbe impiegato quella meraviglia della natura a sfiorire: un paio di settimane.
Ma una lettera d’accompagnamento, nella prevedibilità o nella bizzarria delle sue varianti, è sempre una messa in scena. Che la si scriva semplicissima o buffonesca, è comunque una posa: una contraffazione di sobrietà o d’istrionismo. Se uno scorre le note autobiografiche contenute nell’Autodizionario degli scrittori italiani, dove al rito dell’autopresentazione sono invitati non gli ignoti ma gli scrittori pubblicati, si accorgerà che non basta essere più o meno noto per sfuggire all’ineluttabilità della foto in posa.
Per questo, le lettere di accompagnamento ci servono a poco. A volte neppure le leggiamo, o lo facciamo con rassegnata sufficienza. C’è solamente il testo.
Perfettamente confezionati, i dattiloscritti, a volte pure con il disegno della copertina, il frontespizio, le bandelle, il nome dell’editore e il prezzo, oppure battuti male e corretti a mano (ma molti telefonano allarmati per chiedere: «C’è qualche correzione a mano, che devo fare?», nel timore d’irritare il funzionario), a molti il computer consente l’illusione della pubblicazione come la pornografia le gioie del sesso.
Non bastano le fatidiche quattro righe iniziali, non bastano le prime due pagine – ha detto uno dei miei maestri –, a volte devi leggerne cinquanta, di pagine, prima di accorgerti che è un’opera morta, e per cinquanta pagine ha camminato come uno zombi. Camminava ma era morto con una palla in fronte.
Bella immagine, ma ottimista. Se uno è arrivato a leggere cinquanta pagine, significa che è sulla buona strada per non accorgersi più di niente.
La lettura dei dattiloscritti è sempre rallentata, oltre che dai loro pregi e difetti, dalle nostre fisime, dalle nostre idiosincrasie linguistiche, da radicate convinzioni che non poggiano su nulla se non sulle nostre abitudini. Leggere per la prima volta la scrittura di un autore ignoto e non pubblicato è come dover spartire la stanza da letto con uno sconosciuto.
Anche quando ci sembra di poter condividere le scelte o l’idea di letteratura che da quel dattiloscritto vengono fuori, molti infimi particolari – che se leggessimo lo stesso testo pubblicato non considereremmo neppure – ci possono colpire in maniera sgradevole, come le abitudini di uno che si soffi il naso troppo rumorosamente per i nostri gusti o si chiuda in bagno più del tempo che a noi sembra necessario. Così ci irritiamo, e tanto minore importanza questi particolari hanno, tanto più ci viene spontaneo, e ci torna comodo, ingigantirli.
Una volta lessi un dattiloscritto in cui di un personaggio si diceva che era un «capodicazzo». La scelta lessicale, non so perché, mi innervosì. Mi accorsi di dire all’autore «lei poi scrive “capodicazzo”, ma non si dice “capodicazzo”, semmai “testa di cazzo”!», e su questo capodicazzo testa di cazzo mi resi conto di star perdendo davvero un tempo esagerato, che avrei dovuto impiegare per discutere con l’autore temi più fondamentali.
Poi mi è capitato, questa volta da autore, di usare l’espressione «un testa di cazzo». Così, al maschile. Il redattore che stava curando il testo per la stampa mi disse: «Hai scritto “un” testa di cazzo, ma perché? Non si dice “una”?» Allora feci la connessione con quell’altro episodio successo qualche anno prima e mi prese uno scoramento profondo per come può essere identico e ugualmente umiliante stare in un ruolo oppure in un altro.
E mi scuso per la trivialità dell’esempio.
La lettura dei dattiloscritti è come l’attraversamento di un territorio desertico, dove le esili zone verdi sono costituite proprio da quelle opere che due righe o due pagine al massimo bastano a far scartare. Allora si tira un vero respiro di sollievo: va bene, fa schifo, questo è proprio chiaramente – oltre ogni ragionevole dubbio – uno schifo. Avanti il prossimo! Ma quando si è andati avanti, quando ci si è inoltrati nella sabbia, ogni abbaglio, allucinazione, miraggio è possibile.
Qualcuno di questi miraggi può diventare una realtà, una celebrata realtà. Gli altri restano sepolti dentro di noi. Cioè all’interno della sensibilità discreta del funzionario.
Di fianco all’immagine del principe Andrea, che cade ferito da cavallo e gli entra nello sguardo l’immensità del cielo, vicino al samovar che gorgoglia cupo nella stanza di Kirillov, accanto alla paura di Francis Macomber che considera la striscia di sangue del leone rintanato nella boscaglia, la mia memoria trattiene le immagini di un personaggio in fuga per le strade di una città le cui botteghe sono tutte addobbate di sanguinosi, scintillanti pezzi di carne, di una ragazza al mare che scambia le prime frasi con l’uomo di cui s’innamorerà, di un vecchio leone malato allo zoo di Palermo, episodi che ho trovato in dattiloscritti di romanzi che non sono stati stampati e forse mai lo saranno. Mi può venire in mente una frase di Frédéric Moreau, allo stesso modo in cui, una sera, mi sono improvvisamente ricordato di una barzelletta assai divertente che, in un dattiloscritto letto qualche anno fa, veniva pronunciata come tormentone da un personaggio destinato, forse, a essere noto solo all’autore e a me, che si chiamava Vincenzino Chiacchio. E Vincenzino Chiacchio e Frédéric Moreau hanno uguale cittadinanza nel mio cervello.
© 2022 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Antonio Franchini parteciperà al ciclo di incontri sull’editoria del Post, A proposito di libri.