Se le piastrelle saranno diverse è per via dell’invasione in Ucraina
Il distretto produttivo di Sassuolo contava sul Donbass per il 25% delle materie prime, e ora deve trovare una nuova miscela
L’ultima nave carica di argilla e caolino, una roccia prevalentemente usata per la produzione di piastrelle, è partita dal porto di Mariupol pochi giorni prima che l’esercito russo invadesse l’Ucraina. È sbarcata alla fine di febbraio nel porto di Ravenna, in Emilia-Romagna, per scaricare tonnellate di materiale nei magazzini che riforniscono le aziende del distretto industriale della ceramica di Sassuolo, in provincia di Modena, e quello della ceramica artistica di Faenza. Da quando l’approvvigionamento di materie prime dall’Ucraina è stato sospeso per via della guerra, tecnici e chimici sono al lavoro per cercare di mantenere l’alta qualità dei prodotti che negli ultimi decenni ha contribuito alla crescita dell’industria italiana della ceramica. Dall’Ucraina, infatti, arrivava il 25 per cento delle materie prime usate nel settore della ceramica in Italia e la maggior parte delle argille considerate pregiate, indispensabili per la produzione delle piastrelle più costose e con un margine di guadagno elevato.
Le aziende del distretto dovranno farne a meno: per trovare un’alternativa compatibile e competitiva, dicono gli addetti ai lavori, serve innanzitutto trovare un’altra ricetta, cioè una nuova miscela di argille, caolini e feldspati con materiale importato da altri paesi.
Argilla e caolino venivano estratti soprattutto nelle cave che si trovano in Donbass, un territorio che sulla carta fa parte dell’Ucraina ma che dal 2014 è occupato da separatisti filorussi. È stata una delle prime aree a essere occupate dall’esercito russo.
Negli ultimi anni l’esportazione di questo tipo di materie prime si è sviluppata grazie alla costruzione di strade realizzate appositamente per il passaggio di grandi tir diretti verso i porti di Mariupol e Odessa. Da lì partivano le navi che rifornivano i distretti europei della ceramica. Nel 2021 al porto di Ravenna sono arrivate 5,21 milioni di tonnellate di materie prime, 1,57 milioni in più rispetto all’anno precedente, condizionato dalla pandemia.
Le argille provenienti dall’Ucraina sono preziose per le loro caratteristiche: hanno un’elevata “tenacità in crudo”, in altre parole una maggiore resistenza e coesione rispetto al materiale estratto in altri paesi. Le argille ucraine sono quindi adatte alla produzione di piastrelle di grandi formati e con spessori sottili, sempre più richieste sul mercato e non semplici da realizzare con altre materie prime.
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Massimo Muratori, segretario generale della Femca Cisl dell’Emilia centrale, il sindacato dei lavoratori ceramisti, tessili e chimici della zona di Modena e Reggio Emilia, dice che fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina le aziende hanno capito che gli effetti sull’importazione dei materiali sarebbero stati significativi e hanno messo al lavoro i tecnici nei loro laboratori. «Mi risulta che molte delle prove fatte finora siano andate bene», spiega. «L’obiettivo è mantenere la stessa qualità e lo stesso identico prodotto con una ricetta diversa. Non è semplice trovare la miscela giusta: se nella terra in arrivo da altri paesi c’è più carbonio la piastrella sarà leggermente più scura oppure avrà una consistenza diversa rispetto a quella prodotta con materie prime ucraine che hanno anche una resa migliore: da una certa quantità di argilla ucraina si riescono a produrre più piastrelle».
Non è un lavoro totalmente nuovo: da anni le aziende hanno allestito laboratori per controllare la qualità del materiale importato e studiare leggeri correttivi alle ricette. Senza un’intera quota di materiale, però, si dovranno fare scelte più complicate e originali.
La composizione delle piastrelle, infatti, è anche legata al mercato, orientato da scelte estetiche dettate più dalla moda e meno da logiche di produzione e approvvigionamenti. Con nuove esigenze per le aziende, non è escluso un cambiamento delle preferenze verso nuovi tipi di piastrelle. «Abbiamo convinto il mercato a prediligere piastrelle fatte con pasta bianca», continua Muratori. «Si dovrà iniziare a pensare anche a una maggiore produzione con pasta rossa».
L’ultima nave arrivata nel porto di Ravenna con le argille cavate in Ucraina garantirà le scorte almeno per un paio di mesi. È difficile prevedere come sarà la situazione nel Donbass alla fine di maggio. Considerate le conseguenze della guerra a Mariupol, una delle città in cui gli scontri sono stati più violenti e tuttora assediata, è irrealistico pensare che l’attività estrattiva riprenda nel giro di poco tempo. Le cave sono state costrette a fermare il lavoro e tutti i dipendenti stranieri, compresi molti italiani, hanno lasciato l’Ucraina.
L’alternativa è acquistare la materia prima da altri paesi come Germania, Francia, Austria, Turchia, Portogallo, ma anche Sardegna e Piemonte. Oltre a trovare ricette nuove per le piastrelle, rimpiazzare il 25 per cento della materia prima nel giro di poco tempo comporta altri due problemi. Il primo è capire come trasportare il materiale in Emilia-Romagna, se via mare o via treno: in entrambi i casi, i tempi di approvvigionamento dipendono dalla distanza del paese di esportazione e dalle infrastrutture disponibili. Il secondo problema riguarda i prezzi, destinati ad aumentare a causa dell’improvvisa diminuzione nell’offerta. Tra le altre cose, non è detto che i cavatori di altri paesi riescano a soddisfare interamente la crescita della domanda.
Ma l’interruzione dell’importazione di materia prima dall’Ucraina è soltanto uno dei problemi che il settore sta affrontando. Come tutte le aziende che consumano grandi quantità di energia anche i produttori del distretto di Sassuolo sono alle prese con la notevole crescita dei prezzi. Il gas, necessario ad alimentare i forni in cui vengono cotte le piastrelle, costa otto volte tanto rispetto allo scorso anno, ha detto Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica, durante l’audizione delle commissioni Ambiente e Attività produttive la scorsa settimana alla Camera. «Le nostre attività sono entrate in crisi e abbiamo oltre 2.500 persone in cassa integrazione. È anacronistico pensare di dover chiedere la cassa integrazione con una quantità di ordini così grossa».
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Durante la pandemia, in effetti, c’è stata una significativa crescita della domanda di piastrelle, un rivestimento facile da pulire e quindi più igienico rispetto ad altri. Secondo i dati diffusi da Confindustria Ceramica, nel 2021 il settore ha registrato vendite per 459 milioni di metri quadri, il 12 per cento in più rispetto al 2019, ed esportazioni per 367 milioni di metri quadrati, il 13 per cento in più sempre rispetto al 2019. La crescita ha interessato tutti i principali mercati internazionali con aumenti notevoli negli Stati Uniti, in Germania, Belgio e Paesi Bassi. La produzione totale è cresciuta di circa il 25 per cento, raggiungendo i 430 milioni di metri quadrati. Come molti altri settori energivori, anche i produttori di ceramica hanno chiesto aiuto al governo per limitare i costi del gas e dell’energia elettrica.
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Finora gli unici mezzi per abbattere i costi sono stati piuttosto drastici: alcune aziende hanno spento i forni perché sarebbe stato più costoso lasciarli accesi piuttosto che non produrre, altre hanno attivato procedure di cassa integrazione fino alla fine dell’anno. Per la precisione, è una cassa integrazione straordinaria per un evento improvviso e imprevisto, non riconducibile alla gestione aziendale. Di fatto è una cassa integrazione preventiva che consente alle aziende di limitare il lavoro nel giro di pochissimo tempo, due o tre giorni, nel momento in cui i costi dell’energia sono troppo alti.
«Le conseguenze sono già preoccupanti», spiega Muratori. «L’area industriale di Modena e Reggio Emilia si regge sulla ceramica: il vero rischio è un impoverimento del territorio. Se le condizioni di mercato legate alla fornitura di materie prime e ai costi dell’energia dovessero continuare così non è escluso che qualcuno decida di delocalizzare. Il governo deve mettere un limite al prezzo del gas e in questa fase non si dovrebbe tenere conto dei vincoli di spesa come è stato fatto durante la pandemia. La crisi energetica è come una nuova pandemia».
I lavoratori del distretto della ceramica modenese e reggiano sono circa 15mila, l’80 per cento degli addetti del settore a livello nazionale. Oltre ai dipendenti diretti, va considerato anche l’indotto: aziende metalmeccaniche, di componentistica, imballaggi, spedizioni. Una delle società più importanti dell’articolato indotto è Sacmi, che produce forni e macchinari per la produzione delle piastrelle. Si trova a Imola, ha oltre 1,3 miliardi di fatturato e 4.600 dipendenti. Paolo Mongardi, il presidente, guida anche la Acimac, l’associazione che rappresenta i costruttori di macchine ceramiche.
Da tempo la Sacmi ha iniziato a sviluppare nuovi forni alimentati a idrogeno “verde” o “pulito”, prodotto con processo di elettrolisi (cioè separazione di idrogeno e ossigeno) dell’acqua, tramite una macchina alimentata con fonti rinnovabili. È una tecnologia che consente di fare a meno del gas, ma anche piuttosto costosa e per cui il governo non ha previsto incentivi o contributi economici. «Il forno alimentato a idrogeno è una soluzione che guarda al futuro e che al momento è molto costosa», spiega Mongardi. «Dal punto di vista economico sono convenienti soltanto se il prezzo del gas rimane molto alto. Inoltre non esiste una distribuzione dell’idrogeno in rete, per cui sarà molto complicato fare a meno del gas, almeno per ora. Il settore della ceramica è uno dei traini dell’export italiano: in questa fase dovrebbe essere sostenuto dallo Stato. Così come vengono abbassate le bollette delle famiglie, servono interventi anche per le aziende».