I vizi dei millennial
Li racconta Vincenzo Latronico nel suo nuovo romanzo, "Le perfezioni": le piante, il cibo, i mobili e una vita «liscia e curata» fatta per essere mostrata sui social
Le perfezioni è il nuovo romanzo dello scrittore Vincenzo Latronico, appena pubblicato da Bompiani. È un testo breve, che in poco più di cento pagine descrive la parabola di una generazione, quella che negli anni Dieci aveva tra i 20 e i 30 anni, che faceva lavori creativi e digitali e che è cresciuta insieme alla diffusione del mondo delle immagini e dei social network.
Anna e Tom sono una coppia di creativi digitali che si trasferisce a Berlino dove, grazie alla nuova globalizzazione di esperienze e idee offerta da internet, condivide la stessa vita, gli stessi passaggi e le stesse passioni di una comunità internazionale unita dalla rete: il lavoro da casa o in spazi condivisi senza orari e vincoli, la passione per le piante, per il cibo, per l’arredamento, la moderata incursione nel mondo delle droghe, l’assidua frequentazione delle gallerie d’arte, il sesso rassicurante, ripetitivo e scadente, l’onnipresenza dei social network e in particolare di Instagram, che permette di condividere immagini di una vita perfetta che, toccata con mano, si rivela sempre un po’ deludente. Sono i nuovi conformisti, una coppia senza qualità che si trascina in un’esistenza piacevole e rassicurante verso un futuro sempre uguale: «Non riuscivano a figurarselo sostanzialmente diverso dalla loro quotidianità – così liscia e curata – e ciò gli conferiva un che di astratto e poco allettante».
A un certo punto in questa «bonaccia a perdita d’occhio» qualcosa si incrina, Anna e Tom cercano un nuovo senso: prima in un vuoto attivismo durante la crisi dei profughi provenienti dalla Siria del 2015, poi in un progetto lavorativo frustrato, infine in brevi viaggi stancanti, mentre Berlino diventa una città sempre più gentrificata e loro si ritrovano adulti.
Vincenzo Latronico è nato a Roma nel 1984, ha pubblicato tre romanzi sempre per Bompiani (Ginnastica e rivoluzione, La cospirazione delle colombe e La mentalità dell’alveare), un saggio sull’Etiopia coloniale (Narciso nelle colonie, insieme al fotografo Armin Linke) e tradotto molti libri. Insegna alla scuola Holden di Torino e tra le altre cose ha collaborato anche con il Post. Ha vissuto a lungo a Berlino.
Di seguito, un capitolo di Le perfezioni.
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Vivevano due vite. C’era la realtà tangibile, che li circondava; c’erano le immagini. Li circondavano anche quelle.
Erano sullo schermo dello smartphone che li svegliava. Un astronauta che canta dallo spazio. Una ragazza a cavalcioni su una palla demolitrice. Gli illuminavano il cuscino oltre la cortina del sonno, li accompagnavano in bagno sfilando sotto i polpastrelli. Proseguivano sul tablet in cucina nell’attesa del caffè e senza soluzione di continuità si prolungavano sul monitor in studio. Le minacce di un marito geloso graffitate sulla facciata di una casa. Capre in equilibrio impossibile su una scogliera o su una spalletta autostradale. Se per pranzo decidevano di uscire, le immagini si restringevano al rettangolo del telefono e levitavano a mezz’aria una spanna sopra il piatto. Un vortice di squali in cielo. Mentre aspettavano la U8 o l’M29, mentre pisciavano. Una donna famosa che spruzza un arco di champagne all’indietro oltre la propria testa in un bicchiere in bilico sul coccige. Gli rischiaravano il volto nella stanza buia al momento di impostare la sveglia per l’indomani. Facce di sconosciuti. Facce di criminali avvenenti. Fette di avocado.
Mentre lavoravano, le immagini entravano come una bufera dalle finestre lasciate aperte in sottofondo. Mandavano un preventivo e controllavano il feed di Instagram. Le previsioni sulle ultime elezioni in patria reclamavano la loro attenzione con una notifica nella linguetta del browser. La combinazione di tasti per saltare dall’una all’altra era impressa nella loro memoria muscolare come command-c command-v. Cercavano su stackexchange i parametri di una classe CSS particolarmente rognosa e coglievano l’occasione per dare un’occhiata a una discussione iniziata poco prima su Facebook. Subito sotto intercettavano l’annuncio di uno Steuerberater che parlava inglese e spagnolo. Nei commenti una conoscente sosteneva che si trattasse di una truffa. Interessati dal suo profilo le chiedevano l’amicizia e scoprivano che forse sarebbe andata a una serata al Kit-Kat la settimana seguente. Scorrendo la lista degli RSVP trovavano un vecchio amico di Neukölln. Ma non era tornato a Madrid? Verificavano su LinkedIn, sembrava di sì. Un gattino fradicio. Un saggio per immagini sulla sprezzatura del presidente degli Stati Uniti. Un selfie.
Le interruzioni potevano durare pochi secondi oppure qualche minuto. A volte assorbivano mezz’ore intere, quando il lavoro era particolarmente ripetitivo o se una discussione li toccava personalmente. Nel complesso non avrebbero saputo quantificare il tempo che ci passavano. Sospettavano fosse tanto.
Non era sempre stato così. Doveva essere cambiato qualcosa a un certo punto. Non avrebbero saputo dire bene cosa.
Ricordavano un periodo in cui usavano Facebook solo per scoprire che fine avevano fatto le cotte del liceo, e Instagram era un archivio di foto delle vacanze. Da allora ne avevano seguito ogni evoluzione, con lo sguardo duplice dell’utente e del progettista di interfacce. Potevano identificare uno per uno gli aggiornamenti che si erano susseguiti – l’introduzione dei like e delle notifiche, la possibilità di condividere video, di rispondere per immagini, di taggare. Ma ogni tentativo di tracciare una correlazione fra quelle minuzie e il modo in cui i social erano dilagati nella loro quotidianità era tanto riduttivo da risultare fuorviante, un po’ come chiedersi se è al primo ramoscello o al terzo albero che la foresta si può dire in fiamme.
Avrebbero voluto poter fare qualcosa per arginarlo, ma cancellarsi dai social, anche da uno solo, non sembrava possibile. Rinunciare a Facebook avrebbe comportato una perdita significativa nella loro socialità. Era stato indispensabile per trovare e consolidare la loro rete berlinese, ed era la fonte principale di informazioni pratiche di cui potevano avere bisogno. Era anche l’unico canale ancora aperto con le loro vite precedenti. Non sentivano molto spesso i vecchi amici – forse la costante presenza fantasmatica di quel flusso di immagini lo rendeva ridondante? – ma leggendo delle loro assunzioni e scorrendo le foto delle cene di classe avevano la sensazione di essere ancora nella loro vita.
Twitter non li appassionava altrettanto, anche se a volte li faceva ridere, però era la loro principale fonte di notizie sul loro paese. Quell’interesse era sopravvissuto al trasferimento, e ad esso non si era mai aggiunta una curiosità per la cronaca tedesca, che era in tedesco. Se avessero smesso di usarlo sarebbero tornati a ricaricare ogni ora le homepage dei quotidiani e dei mensili, ottenendo informazioni meno rilevanti rispetto ai loro interessi e sprecando persino più tempo. Instagram era a tutti gli effetti la vetrina del loro lavoro e una fonte costante di nuove idee e ispirazioni. Lasciarlo non era neanche in discussione.
Anche i tentativi di confinarne l’uso a momenti specifici, o contingentarne la durata quotidiana, portavano a poco. Questo non dipendeva dalla noia o dall’incapacità di concentrarsi. Anzi, spesso era durante le parti più creative del loro lavoro – il brainstorming per un pitch o l’invenzione di una nuova gabbia – che si tuffavano con gioia nel flusso di immagini per qualche minuto. Ne uscivano ricaricati, focalizzati.
Eppure si vergognavano di passarci troppo tempo. Tom aveva girato obliquamente lo schermo per evitare che si riflettesse nelle finestre dello studio che condividevano. Quando lui si alzava per andare in bagno o in cucina Anna cambiava desktop prima che le passasse alle spalle. Si incantavano per l’appartamento, l’insalata di kale o il gattino di una persona che poteva vivere a due isolati o due continenti da lì. Si appassionavano per bisticci irragionevoli fra sconosciuti. Si accendevano di interesse per le vicende di gente che non avrebbero incontrato mai.
Era come attraversare il mercato di strada più caotico del mondo sotto cocaina. Era come fare zapping su una parete intera di televisori sintonizzati su canali diversi. Era come entrare in comunione telepatica coi pensieri di uno stadio gremito di gente. Non era come nient’altro, in realtà, perché era qualcosa di nuovo.
(© Bompiani)