La dieta vegana e gli stereotipi sulla mascolinità
A lungo sono stati un ostacolo alla riduzione del consumo di carne tra gli uomini, ma qualcosa si sta muovendo nella direzione opposta
All’interno del grande dibattito sul rapporto tra il consumo di carne nel mondo e le emissioni di gas serra legate alle attività umane, responsabili del riscaldamento globale, una differenza attestata da alcuni recenti studi scientifici è quella relativa agli stili alimentari delle persone di genere maschile rispetto a quelle di genere femminile. In una ricerca pubblicata a novembre scorso sulla rivista scientifica PLOS One e condotta nel Regno Unito dalla University of Leeds, gli stili alimentari degli uomini sono risultati responsabili del 41 per cento di emissioni in più rispetto a quelli delle donne, principalmente a causa di un maggiore consumo di carne.
Altre ricerche recenti non legate al tema del riscaldamento globale hanno confermato i dati relativi al maggiore consumo di carne tra gli uomini, nella fascia di età compresa tra 20 e 39 anni, e approfondito le relazioni tra queste abitudini alimentari e i tradizionali ruoli di genere. Una maggiore conformità a quei ruoli nella popolazione maschile, secondo uno studio pubblicato a novembre scorso sulla rivista scientifica Appetite, è associata a un maggiore consumo di carne e a una minore inclinazione a diventare vegetariani.
Una ragione plausibile di questo comportamento, secondo gli autori dello studio, potrebbe essere il fatto che mangiare carne sia considerata in molti ambienti un’abitudine da «“veri” uomini», sulla base di consolidati modelli sociali collegati ai tradizionali ruoli di genere. Un pregiudizio diffuso e molto radicato in diversi gruppi maschili e tra gli appassionati di body-building è che un’alimentazione priva di carne non possa favorire lo sviluppo di una muscolatura poderosa, per esempio, o in generale che l’alimentazione vegana – quella che evita tutti i cibi che contengano prodotti di derivazione animale, inclusi quindi uova e latticini – non sia compatibile con determinati modelli tradizionali di mascolinità.
Da alcuni anni, la popolarità degli stili alimentari che non prevedono l’assunzione di proteine animali è tuttavia in crescita anche in ambienti tradizionalmente associati a un alto consumo di carne e considerati luoghi di formazione e consolidamento di certi stereotipi sulla mascolinità. Alcuni quotidiani e riviste specializzate cominciarono già dal 2010 a utilizzare il neologismo «hegans» – in seguito ripreso anche in alcuni studi scientifici – per definire, all’interno di un fenomeno emergente, i maschi tra i 40 e i 50 anni che si stavano convertendo allo stile alimentare vegano dopo avere per lungo tempo seguito un’alimentazione a base di carne.
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Secondo dati diffusi dall’organizzazione inglese Vegan Society, considerata la più antica organizzazione vegana al mondo, dal 2014 al 2019 il numero di persone vegane nel Regno Unito, attualmente circa 600 mila, è quadruplicato. E in generale, secondo uno studio pubblicato nel 2021 dalla rivista The Lancet Planetary Health, le persone hanno ridotto del 17 per cento in dieci anni il loro consumo di carne, sebbene la maggior parte di queste persone sia comunque di genere femminile.
In un recente articolo sul Guardian il giornalista freelance vegano David Hillier ha descritto i pregiudizi ancora esistenti riguardo agli uomini vegani, ma ha spiegato come le cose stiano progressivamente cambiando grazie alla sempre maggiore disponibilità di alimenti alternativi alla carne, a documentari come The Game Changers, prodotto nel 2018 dall’ex lottatore di arti marziali miste (MMA) inglese James Wilks, e alla crescente popolarità di atleti e personaggi dello sport vegetariani o vegani.
Tra questi ci sono il tennista serbo Novak Djokovic, il giocatore di basket americano Chris Paul, il lottatore di MMA americano Nate Diaz, l’ex sollevatore di pesi e bodybuilder tedesco-armeno di origini iraniane Patrik Baboumian e il pilota inglese di Formula 1 Lewis Hamilton. Altri, come il politico, attore ed ex culturista americano di origini austriache Arnold Schwarzenegger, hanno drasticamente ridotto il loro consumo di carne.
Hillier, che non mangia carne da quando aveva cinque anni, ha scritto di essersi abituato fin da quando era giovane a una serie di comportamenti abituali tra le persone a lui vicine: dalle preoccupazioni dei suoi genitori, riguardo alla presunta incompletezza della sua alimentazione, fino alle prese in giro e derisioni da parte degli amici. Derisioni che includevano «l’immancabile utilizzo di “gay” come insulto, principalmente da parte di ragazzi che sembravano offesi dalla mia decisione di non mangiare cose morte».
Ha raccontato che quando era ragazzo odiava ordinare cibo quando era fuori con altri ragazzi – «perché sapevo che ci sarebbero state risatine e commenti sulla mia mascolinità» – e che per molti anni nascose la vera ragione della sua scelta preferendo descriverla come un’abitudine anziché attribuirla a un’esplicita sensibilità e attenzione per il benessere degli animali.
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Negli anni Novanta, la scrittrice e saggista americana Carol J. Adams approfondì le relazioni tra il consumo di carne e la cultura patriarcale delle società contemporanee nel libro di successo La politica sessuale della carne. Secondo Adams viviamo in un mondo fortemente basato sul binarismo di genere, in cui alle cose maschili viene generalmente attribuito un maggior valore. In questo contesto, «ogni volta che un uomo diventa vegano, mette in discussione i presupposti di base sulla mascolinità e la femminilità», ha detto Adams al Guardian.
L’inglese Ed Winters, attivista vegano autore di un popolare canale YouTube con oltre 420 mila iscritti, sostiene di ricevere abitualmente critiche che mettono in discussione la sua mascolinità e il suo orientamento sessuale. «Mi chiamano “soy boy”, e tanti dicono “Ed sarà gay, visto che è vegano”», ha detto Winters, spiegando che gli uomini vegani «sfidano ciò che le persone tradizionalmente percepiscono come virile» e che è il risultato di un complesso insieme di fattori, una sovrastruttura sociale «creata dai media, dalla pubblicità e dalle pressioni del gruppo».
Nei paesi di lingua anglosassone, soy boy è un’espressione dispregiativa spesso utilizzata per descrivere uomini privi di caratteristiche maschili e legata alla contestata ipotesi che i fitoestrogeni della soia, molecole simili agli ormoni sessuali femminili, possano avere effetti femminilizzanti negli uomini.
Da diversi anni è un’espressione molto utilizzata in alcune comunità online e gruppi attivi sui social network che promuovono valori ed esperienze maschili basate sul dominio e sull’aggressività, parte di una vasta rete comunemente chiamata manosphere (“androsfera”). E in tempi recenti è diventata molto popolare tra i gruppi dell’estrema destra per definire non soltanto i vegani ma in generale i progressisti e altri gruppi di persone i cui comportamenti e stili di vita non sono ritenuti compatibili con alcuni valori tradizionali della società.
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Sebbene la ricerca abbia spesso smentito l’idea che un’alimentazione priva di cibi di origine animale non possa fornire una quantità sufficiente di proteine, gran parte della demonizzazione dell’alimentazione vegana in alcuni ambienti maschili è ancora basata su questo tipo di pregiudizi. Pregiudizi a loro volta storicamente derivati dall’idea, diffusa fin dai primi decenni del Novecento, che le proteine siano un elemento fondamentale della forza fisica e l’insufficiente apporto proteico la principale ragione della malnutrizione in molte aree del mondo.
«Le proteine animali sono dette complete perché contengono tutti gli aminoacidi essenziali mentre alla maggior parte delle proteine vegetali, eccetto quelle di soia, quinoa e canapa, ne manca uno o più di uno», ha detto al Guardian Caroline Farrell, nutrizionista inglese che in passato ha lavorato con squadre di calcio di Premier League come Watford e Fulham. Farrell ha però aggiunto che i vegani possono facilmente ottenere tutti gli aminoacidi necessari assumendo una varietà di proteine vegetali ogni giorno, magari includendo prodotti a base di soia oppure legumi, cereali e frutta secca. E ha detto che mentre cinque anni fa era molto raro il caso di un uomo che seguisse una dieta vegana, oggi circa il 40 per cento dei suoi clienti maschi ne segue una, rispettando le raccomandazioni relative al fabbisogno proteico.
A favorire le scelte di un’alimentazione vegana all’interno di ambienti tradizionalmente avversi a quello stile alimentare ha contribuito, tra le altre cose, un progressivo cambiamento dell’immagine dei maschi vegani in termini di maggiore aderenza ai consolidati modelli di mascolinità. Cosa che peraltro rischia, secondo alcune ricerche, di rafforzare determinati pregiudizi e stereotipi anziché rimodellarli o ridurli.
Hillier ha citato l’esempio del libro del 2010 Meat Is for Pussies («La carne è per le fighette»), un libro sull’alimentazione vegana e sull’allenamento scritto dal triatleta americano John Joseph McGowan, noto per essere il cantante della band hardcore americana Cro-Mags. Alcuni studi recenti hanno inoltre indicato la crescente diffusione sui social di descrizioni del fenomeno del veganismo in relazione a vecchi ideali di mascolinità. Sono in genere descrizioni diffuse attraverso i canali di influencer, anche molto seguiti, in grado di ottenere profitti facendo leva sui valori della virilità e della forza fisica per vendere prodotti vegani, e facendo leva su «narrazioni di redenzione» in cui insistono molto sull’essere diventati ancora più forti e in salute dopo aver smesso di mangiare carne.
Ma sia i modelli di mascolinità saldamente legati al consumo di carne sia alcuni di quelli emergenti in relazione alle scelte alimentari vegane, secondo Adams, condividono una certa visione del mondo e un certo insieme di valori all’interno della società che associano le donne a qualcosa di negativo e debole. Come se nessun modello di mascolinità possa affermarsi se non attraverso la «necessità di non essere associati alle donne, che sono percepite dalla società come più compassionevoli ed empatiche».
Hillier ha infine citato un esempio di comunicazione commerciale di successo legata all’alimentazione vegana e che non ricade negli stereotipi di genere: la linea di cibi vegani e libri di ricette Bosh!, di grande successo nel Regno Unito, fondata da due trentasettenni inglesi, Henry Firth e Ian Theasby, vegani dal 2015 e autori di un popolare canale YouTube. Firth e Theasby, ha scritto Hillier, hanno contribuito a svecchiare un’idea di alimentazione vegana in precedenza legata al benessere fisico e spirituale. Pubblicano ricette per hamburger, torte, primi e secondi piatti molto apprezzate sia dal pubblico maschile che da quello femminile.
Una delle polemiche più frequenti, hanno detto Firth e Theasby a Hillier, è quella alimentata dalle persone – prevalentemente uomini – che scrivono per lamentarsi del fatto che i nomi delle loro ricette siano in parte nomi di piatti tradizionalmente a base di carne («hamburger», «salsicce», «polpette» o «bistecche»). Come se quelle persone, secondo una questione peraltro da tempo dibattuta anche in ambito industriale, non accettassero la possibilità che una parola utilizzata per definire la carne possa definire qualcosa che non contiene carne.
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