La morte di Giangiacomo Feltrinelli
Uno dei più importanti editori italiani fu trovato 50 anni fa sotto a un traliccio fuori Milano, dopo una vita movimentata
Nel pomeriggio del 15 marzo 1972 a Cascina Nuova, una frazione di Segrate, in provincia di Milano, l’agricoltore Luigi Stringhetti vide sotto un traliccio dell’alta tensione il corpo di un uomo. In quel momento non lo si sapeva ancora, ma era Giangiacomo Feltrinelli, editore, fondatore della casa editrice che porta il suo nome e militante politico, nome di battaglia Osvaldo. La sera prima in tanti a Segrate avevano sentito un forte botto, ma i più avevano pensato a un aereo supersonico in volo sopra l’aeroporto di Linate.
Sul posto arrivarono sia i carabinieri sia, in un secondo momento, gli agenti della Questura di Milano. Attorno al corpo c’erano numerosi candelotti di dinamite, altri erano posizionati sul montante del traliccio, il numero 71 dell’Aem, azienda elettrica milanese. Il corpo dell’uomo, come ricorda Aldo Grandi nel libro Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli, aveva la gamba destra amputata sopra il ginocchio, le ferite erano in tutto il corpo. Vicini a lui c’erano una batteria, un filo elettrico, una stanghetta d’occhiali, una torcia. Molti candelotti di dinamite erano già collegati ai montanti, legati col filo di ferro. La dinamica sembrò ai carabinieri piuttosto chiara: l’uomo voleva far saltare il traliccio ma qualcosa era andato storto, ed era morto in un’esplosione. Si trattava ora di capire a chi appartenesse quel cadavere.
Nella tasca del giubbotto i carabinieri trovarono una patente intestata a Vincenzo Maggioni, nato il 19 giugno 1926 a Novi Ligure. C’erano anche la foto di una donna e quella di un bambino. Distante 300 metri dal traliccio c’era un furgoncino Volkswagen. Era parcheggiato sulla strada Vecchia Cassanese: dentro c’erano il libretto e una polizza assicurativa intestata a Ovidio Invernizzi, di Milano. C’erano anche vecchi giornali, viveri, un pacchetto di sigarette Astoria con dentro dell’esplosivo.
I giornali del pomeriggio (La Notte e il Corriere d’Informazione) uscirono con la foto presa sulla carta d’identità dell’attentatore. Chi conosceva bene Feltrinelli capì subito. Non fu così però per gli investigatori, che comunque scoprirono presto che Vincenzo Maggioni non esisteva e che Ovidio Invernizzi non aveva mai posseduto un furgone Volkswagen.
Fu il commissario Luigi Calabresi, allora vice del capo dell’ufficio politico della Questura di Milano Antonino Allegra, a ipotizzare che la foto di donna trovata insieme al cadavere ritraesse Sibilla Melega, la moglie di Giangiacomo Feltrinelli. Le impronte digitali del cadavere furono confrontate con quelle conservate in questura. All’obitorio di piazzale Gorini, a Milano, fu chiamata Inge Schöntal, che riconobbe nel corpo all’obitorio quello dell’ex marito. Il 16 marzo il sostituto procuratore incaricato delle indagini annunciò alla stampa che l’uomo trovato morto sotto al traliccio dell’alta tensione a Segrate era Giangiacomo Feltrinelli. Le foto che aveva con sé erano quelle di suo figlio Carlo e di sua moglie Sibilla.
La versione ufficiale non lasciava molti dubbi: l’editore era morto mentre tentava di compiere un atto di sabotaggio. Si scoprì poi che Feltrinelli quella sera non era solo, ma con lui c’erano due componenti dei Gap, Gruppi d’azione partigiani, fondati da Feltrinelli nel 1970. Uno dei due uomini chiese aiuto e supporto alle Brigate rosse perché lo nascondessero. Il 16 marzo furono trovate altre cariche esplosive, uguali a quelle di Segrate, su un traliccio a San Vito di Gaggiano. I tecnici della scientifica stabilirono che quelle cariche erano state posizionate correttamente, mentre a Segrate erano stati collegati male i fili.
Molti ambienti della sinistra extraparlamentare sapevano che le cose erano andate esattamente come ipotizzato dagli investigatori. Lo sapevano i militanti dei Gap, e anche Valerio Morucci, che sei anni più tardi, entrato nelle Brigate rosse, avrebbe partecipato al rapimento di Aldo Moro. Ha detto Morucci ad Aldo Grandi: «Giangiacomo aveva rinunciato a tutto esponendosi in prima persona. E il suo tutto era davvero molto. Feltrinelli voleva fare attentati ai tralicci, lo sapevo benissimo (…) per me era morto un compagno. Era un amico».
In un’intervista rilasciata a Cesare Lanza, Sibilla Melega raccontò che dopo aver avuto la notizia della morte del marito fu ricoverata alla clinica Madonnina di Milano: «Alle tre di notte piomba in camera il giudice Guido Viola con un codazzo di persone al seguito per il riconoscimento ufficiale del cadavere. Era lui, in faccia era intatto, nessun segno. Ricordo l’atteggiamento dei funzionari, intorno, che spiavano con compiaciuta morbosità». Aggiunse poi Sibilla Melega: «Giangiacomo non aveva alcuna vocazione per i lavori manuali. Un disastro, ma guai a dirgli che non era capace».
Non tutti credettero alla versione dell’attentato finito male. Alcuni giornalisti e intellettuali erano convinti che Feltrinelli fosse stato assassinato. Ancora nel 2018 l’ex moglie Inge Schönthal disse: «La morte di mio marito fu un omicidio politico, Giangiacomo sapeva di Gladio [l’organizzazione clandestina anticomunista fondata dalla Cia in Europa, ndr]. Era un uomo scomodo. Troppo scomodo, troppo libero, troppo ricco; troppo tutto. Era tenuto d’occhio da cinque servizi segreti, inclusi Mossad e Cia. E ovviamente quelli italiani. Forse sono stati loro. Lui sapeva di Gladio e dei loro depositi di esplosivi. Temeva un golpe di destra; e non era una paura immaginaria».
Lo stesso Feltrinelli aveva detto spesso: «Mi ucciderà il Mossad (il servizio segreto israeliano, ndr)». Feltrinelli era infatti un solido finanziatore dei movimenti per la liberazione della Palestina.
Anche la casa editrice Feltrinelli diffuse un documento in cui si sosteneva che il suo fondatore fosse stato assassinato, in cui si faceva riferimento al processo a Pietro Valpreda, l’anarchico ingiustamente accusato e a lungo incarcerato per la strage neofascista di piazza Fontana: «La criminale provocazione e il mostruoso assassinio sono la risposta alle reazioni internazionali allo smascheramento della strage di stato nel momento in cui si dimostra che il processo Valpreda è stato costruito illegalmente e dalle indagini della magistratura emergono precise responsabilità della destra». Espressero poi forti dubbi sulla teoria dell’incidente Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, i movimenti della sinistra ma anche il Partito socialista italiano e i Radicali.
Le Brigate rosse condussero una loro inchiesta le cui conclusioni vennero ritrovate dai carabinieri nel 1974 in un covo a Robbiano di Mediglia in provincia di Milano. C’era la registrazione del resoconto di uno degli uomini che erano con Feltrinelli a Segrate, che confermava la dinamica dell’incidente:
«All’inizio Osvaldo ha i candelotti di dinamite in mezzo alle gambe… Si trova impacciato nella posizione, impreca. Sposta i candelotti, probabilmente sotto la gamba sinistra e, seduto con i candelotti sotto la gamba, in modo che li tiene fermi, sembra che prepari l’innesco, cioè il congegno di scoppio. È in questo momento che quello a mezz’aria sul traliccio sente uno scoppio fortissimo. Guarda verso l’alto e non vede nulla. Guarda verso il basso e vede Osvaldo a terra, rantolante. La sua impressione immediata è che abbia perso entrambe le gambe. Va da lui immediatamente e gli dice: “Osvaldo, Osvaldo…”. Non c’è… è scoppiato…».
I giornali della destra ironizzarono molto sulla morte di Feltrinelli. Alcuni, riprendendo slogan di volantini fascisti diffusi in quei giorni, scrissero: «Chi di bomba ferisce di bomba perisce». Indro Montanelli, che detestava Feltrinelli e che nei suoi libri lo definiva «il rampollo», scrisse che era uno «che imparava poco o nulla… ma voleva fare molto e subito. E che veniva colto da furibonde e per lo più brevi infatuazioni, l’emblema di una contestazione a burletta, di rivoluzionari da burletta». Anche anni dopo, Montanelli disse di lui: «Era un pover’uomo divorato dall’esibizionismo».
Giangiacomo Feltrinelli fu un personaggio molto discusso e fondamentale per la cultura italiana. Era nato a Milano, nel 1926, in una ricca famiglia originaria di Feltre in Veneto, che si era poi trasferita a Gargnano (Brescia). Il padre Carlo fu presidente di Credito Italiano e della Edison e proprietario di varie società di costruzione, e morì suicida nel 1935. La madre, che era stata assai rigida nell’educazione di Giangiacomo e della sorella Alessandra, sposò cinque anni dopo, in seconde nozze, il giornalista inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini jr con cui Giangiacomo ebbe furibonde liti.
Secondo Barzini da ragazzino, alla fine degli anni Trenta, Feltrinelli era «un fascista arrabbiato» che tappezzava la casa di manifesti inneggianti alla vittoria dell’asse Italia-Germania-Giappone. Durante la guerra, la famiglia dovette abbandonare la villa di Gargnano che divenne poi la residenza ufficiale di Benito Mussolini nel periodo della Repubblica sociale di Salò. Dal 1944, Giangiacomo si avvicinò poi ai movimenti di opposizione al fascismo e ai gruppi partigiani.
Alla fine della guerra Feltrinelli si iscrisse al Partito socialista per poi passare al Partito comunista italiano. Quando nel 1950, ai corsi della scuola politica del partito, dovette redigere una scheda autobiografica, scrisse:
«Un primo elemento importante credo sia stato il seguente: nel ’36 mia madre acquistò un grande giardino al cui riadattamento lavorarono per alcuni anni operai, manovali e contadini. Io divenni ben presto amico di questi operai e manovali e così per la prima volta venni a conoscenza di un altro mondo che non era quello dorato in cui vivevo; dal racconto e dalla discussione imparai a conoscere le condizioni, la vita disagiata che gli operai erano costretti a fare, gli sforzi per mantenere la famiglia, l’insufficienza del loro salario, la costante minaccia della disoccupazione che gravava su ciascuno di loro. Ebbi così la percezione di due categorie sociali differenti e ben distinte. Più tardi, nel ’38-’39, nelle discussioni accanite sugli avvenimenti internazionali la guerra diventava una grave minaccia che si inseriva nella vita già dura che gli operai facevano. Capii che non erano gli studenti, i signori che a gran voce reclamavano il conflitto che sarebbero andati a combattere; che, anzi, chi commerciava aveva la possibilità di guadagnare da una guerra mentre i sacrifici venivano sopportati dagli operai».
Feltrinelli frequentò la facoltà di Ingegneria a Roma, che lasciò presto. Iniziò in quegli anni un lavoro di raccolta di documenti sulla storia del movimento operaio: nacque la biblioteca Feltrinelli, che oggi è la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
La casa editrice fu fondata nel 1954 con sede in via Fatebenefratelli, a Milano. I primi libri pubblicati furono l’autobiografia del primo ministro indiano, Jawaharlal Nehru, e Il flagello della svastica, di Lord Russell. Nel 1957 furono aperte le prime due librerie, a Milano e a Pisa. Il grande successo editoriale arrivò nel 1957 con un libro che non fu solo un caso editoriale ma, come ha scritto Grandi, anche «una questione politica di risonanza mondiale».
Feltrinelli era attentissimo alla letteratura sovietica: un suo collaboratore, Pietro Zveteremich, gli segnalò che stava per essere completata un’opera di Boris Pasternak dal titolo provvisorio Quadri di vita di quasi mezzo secolo, ma allora a nessun autore sovietico era permesso firmare accordi con editori stranieri. Pasternak, per ringraziare la casa editrice dell’interesse, donò una copia a Sergio D’Angelo, referente della Feltrinelli a Mosca, il quale la consegnò clandestinamente allo stesso Giangiacomo nella metropolitana di Berlino. Fu probabilmente la prima volta in cui un libro uscì clandestinamente dall’Unione Sovietica.
Appena le autorità sovietiche seppero che il libro di Pasternak era in Italia iniziarono a fare pressioni sul Partito comunista, che a sua volta le fece su Feltrinelli. Nel libro di Pasternak si parlava delle sofferenze fisiche e mentali, nonché delle vessazioni e delle intimidazioni, che il popolo russo aveva subito dopo la Rivoluzione d’ottobre. Pressioni arrivarono anche da intellettuali vicini al Pci e da intellettuali russi. Lo stesso Pasternak il 21 agosto 1957 scrisse a Feltrinelli di restituirgli il manoscritto perché non era finito. L’editore rispose che non era d’accordo sul fatto che il libro fosse incompiuto e che intendeva pubblicarlo. Aggiunse anche che Pasternak un giorno lo avrebbe ringraziato.
Il libro, con il titolo Il dottor Zivago, uscì il 22 settembre 1957. La tiratura era di 6mila copie che furono esaurite molto presto. L’uscita del volume segnò la rottura definitiva tra Feltrinelli e il Pci. In 12 mesi, a partire dalla sua pubblicazione, il libro ebbe 31 ristampe. Dopo Il dottor Zivago, Feltrinelli pubblicò un altro grande successo, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che vendette in tutto oltre 4 milioni di copie, e poi nel 1960 Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Nel 1968 uscì poi un altro libro di enorme successo, Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez.
Feltrinelli era diventato un editore importante a cui era riconosciuto un grande intuito. Ma era anche un militante di sinistra, in aperto contrasto con il Partito comunista italiano: sempre nel 1958 la Feltrinelli pubblicò gli Scritti politici di Imre Nagy, primo ministro ungherese nel 1956 ai tempi dell’insurrezione contro i carri armati sovietici.
Durante tutti gli anni Sessanta Feltrinelli si interessò ai movimenti di liberazione dei paesi africani. Viaggiò in Marocco, Guinea, Nigeria, Ghana. Andò a Cuba dove chiese a Fidel Castro di raggruppare i suoi scritti per poter fare un libro che però non fu mai completato. Fidel Castro gli affidò invece i diari boliviani di Ernesto “Che” Guevara. Feltrinelli andò in Bolivia dove venne arrestato su indicazione della Cia dal colonnello Roberto Quintanilla, capo dei servizi d’informazione, l’uomo che poco tempo dopo avrebbe ordinato l’amputazione delle mani del cadavere di Guevara. Feltrinelli fu scarcerato un paio di giorni dopo.
In Italia i servizi segreti intanto ampliavano il fascicolo su di lui e seguivano i suoi spostamenti. L’editore era indicato quale finanziatore di numerosi gruppi di sinistra. Nel 1968, si trasferì in Sardegna dove prese contatto con i movimenti indipendentisti, in particolare con il bandito Graziano Mesina. Quest’ultimo poi raccontò alla polizia che Feltrinelli avrebbe voluto coinvolgerlo «in una lotta armata finalizzata ad obiettivi di resistenza a possibili svolte politiche autoritarie pilotate da interessi americani in Italia».
Nel 1969 la casa editrice Feltrinelli pubblicò un libro scritto proprio da Giangiacomo. Il titolo era Estate 1969 – La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di stato all’italiana. Dopo la bomba di piazza Fontana a Milano, Feltrinelli seppe che in Questura era stato fatto più volte il suo nome. Per molto tempo le forze di polizia, secondo una strategia precisa e spalleggiate da gran parte della stampa, indicarono militanti anarchici di sinistra come autori della strage. Feltrinelli era un bersaglio ideale, ed entrò in clandestinità poche ore prima che la sua casa venisse perquisita. Anche dopo la morte dell’editore i servizi segreti, sia quelli civili sia quelli militari, continuarono nel tentativo di diffondere improbabili collegamenti tra Feltrinelli e gli autori della strage.
Nella primavera del 1970, in clandestinità, Feltrinelli fondò i Gap, un’organizzazione clandestina di ispirazione marxista. Le azioni del gruppo erano soprattutto di sabotaggio alle fabbriche e Feltrinelli partecipava sempre in prima persona. Intanto, continuava a gestire a distanza le scelte della casa editrice. Fece anche qualche comparsa clandestina come quando assistette, senza essere riconosciuto, alla presentazione di La via cilena, scritto da Régis Debray. Ma ormai la vita di Feltrinelli era quella di un militante rivoluzionario in clandestinità.
Il funerale di Giangiacomo Feltrinelli si svolse il 28 marzo. Migliaia di persone accompagnarono il feretro al cimitero Monumentale di Milano. Così la Stampa del 29 marzo raccontò quel pomeriggio:
«Alle 15,40 il feretro viene preso a spalla da sei dipendenti della casa editrice Feltrinelli e portato all’interno del cimitero, nel reparto 2 spazio 177 dove s’erge l’edicola funeraria. Gli agenti devono fare due cordoni per lasciar passare il corteo. Davanti alla cappella c’è già una gran folla in attesa, migliaia e migliaia di giovani che cantano inni rivoluzionari, l’« Internazionale », « Bandiera rossa ». Si scandiscono slogans: «Borghesia assassina». « Feltrinelli sarai vendicato». «Feltrinelli è stato assassinato». Mentre il feretro viene calato nella cripta sotterranea della cappella (dove già sono sepolti il padre dell’editore, Carlo, morto suicida nel ’35, e la nonna Maria De Prez. morta nel ’37) parlano Maria Antonietta Maciocchi, ex deputato del pci, l’editore Wagenbach a nome anche di altri editori stranieri, Debray, Capanna e Scalzone. Viene esaltato sia l’uomo rivoluzionario, sia l’uomo di cultura che «ha reso possibile una presa di contatto con la realtà». Scalzone grida: «Non accettiamo Feltrinelli come vittima, lo salutiamo come combattente comunista rivoluzionario». Alle 16,50 la cerimonia ha termine, Sibilla Melega esce dalla cripta, tutti si avviano verso l’uscita del cimitero e, fuori, la folla si disperde senza esitazioni».
Guido Viola, il pubblico ministero che indagò sulla morte di Feltrinelli, disse poi:
«Comprendiamo molto bene che può aver giovato a qualcuno la comoda tesi degli opposti estremismi rispolverata nei momenti più delicati della stori del paese, ma tutte queste considerazioni non possono distogliere il giudice dal suo obiettivo esclusivo: la ricerca della verità. A nostro avviso, e lo diciamo con consapevole certezza, Feltrinelli rimase vittima di un incidente del tutto casuale».
Quanto a chi sosteneva che fosse assurdo che Feltrinelli fosse andato a minare il traliccio portando la foto della moglie Sibilla e del figlio Carlo, Viola rispose dicendo:
«Dalle varie testimonianze raccolte sul conto di Feltrinelli (“Se un giorno sotto il ponte troverete il cadavere di un uomo nudo, quel cadavere è il mio”, andava dicendo agli amici) emerge una personalità contorta di un uomo sempre più solo (…). Negli ultimi tempi era ossessionato, inquieto, irascibile. Diffidente di tutto e di tutti, Feltrinelli era in ultima analisi un uomo timido e frustrato e, soprattutto, con una spaventosa carenza affettiva: si spiega in tale modo come il terrorista Maggioni Vincenzo portasse nel portafoglio la foto di Sibilla Melega e del figlio Carlo».