Sta tornando la storia?

Oppure non se n'era mai andata? L'invasione in Ucraina ha riaperto le discussioni intorno a un celebre e criticato concetto del politologo Francis Fukuyama

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L’allora presidente eletto americano George H.W. Bush con il presidente americano Ronald Reagan e il presidente dell’URSS Michail Gorbaciov a Governors Island, nel porto di New York, l’8 dicembre 1988 (AP Photo/Boris Yurchenko)
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La guerra in Ucraina e gli avvenimenti violenti ed eclatanti delle ultime settimane, che hanno provocato la morte di centinaia di persone e il cui impatto riguarda la vita di milioni di altre, hanno determinato una situazione di estrema incertezza politica in cui risulta oggettivamente molto difficile sia prevedere lo sviluppo e le conseguenze del conflitto su scala mondiale sia assumere prospettive in grado di ripensare l’attualità in termini storici.

«L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia segna una svolta decisiva nella storia europea», ha detto martedì scorso il presidente del Consiglio Mario Draghi introducendo un suo discorso in Senato in cui ha successivamente citato anche lo storico e politologo americano Robert Kagan: «la giungla della storia è tornata».

L’espressione di Kagan utilizzata da Draghi e il riferimento al ritorno della storia potrebbero risultare poco comprensibili senza un richiamo alla letteratura storiografica da cui provengono: il saggio di filosofia politica La fine della storia, scritto nel 1992 dal celebre politologo americano Francis Fukuyama, e le numerose riflessioni che ha generato nel corso degli ultimi trent’anni. Nel saggio, uscito dopo la caduta del muro di Berlino e preceduto dalla pubblicazione di un breve testo sullo stesso tema, Fukuyama formulò un concetto divenuto poi centrale – e molto spesso contestato – in molte analisi della contemporaneità nei paesi occidentali.

La fine della storia
L’idea espressa all’epoca da Fukuyama era che, in seguito alla fine della Guerra fredda e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la diffusione mondiale delle democrazie liberali e del capitalismo di libero mercato dell’Occidente sarebbe emersa come punto d’arrivo di un’evoluzione socioeconomica e culturale ineluttabile dell’umanità. Il che naturalmente non implica una conclusione della storia in senso stretto, una fine degli avvenimenti. «La fine della storia si può attestare come stadio ultimo della evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma di governo umano definitiva», scrisse Fukuyama.

A determinare questa fase di sintesi di passaggi storici precedenti – secondo uno schema concettuale che Fukuyama mutuò in parte da nozioni del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel – sarebbe stata una spontanea tendenza universale al riconoscimento e alla tutela del diritto alla vita e alla libera affermazione e autodeterminazione degli individui. Valori che la democrazia liberale, modello di organizzazione sociale sostanzialmente privo delle contraddizioni mostrate dai modelli alternativi, sarebbe in grado di rispettare.

L’invasione dell’Ucraina è in questi giorni trattata da molti teorici e analisti politici come il più recente, e per certi aspetti il più clamoroso e problematico, di una serie di eventi storici che nel corso degli ultimi trent’anni hanno smentito o quantomeno ridimensionato le tesi di Fukuyama, rivelando limiti e contraddizioni del concetto di fine della storia. Le guerre nei Balcani, l’attacco terroristico dell’11 settembre alle Torri Gemelle, la successiva guerra in Iraq e quella in Afghanistan, conclusa con il caotico e criticato ritiro delle truppe americane nel settembre 2021, sono state interpretate come prove irrefutabili di insensibilità e resistenza di estese parti del mondo alla diffusione della democrazia liberale. In questo senso, un ritorno della storia più che la sua fine.

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Inoltre la funzionalità e l’efficacia del sistema politico dell’Occidente democratico e liberale sono state più volte messe in dubbio dall’esistenza di profonde disuguaglianze economiche e sociali, dal successo di populismi e nazionalismi, e in generale da fenomeni interni da molti considerati espressione più o meno diretta di sentimenti collettivi di insofferenza e delusione, se non proprio segni di una crisi di legittimità del sistema politico stesso. Da Brexit all’elezione di Donald Trump, non sono state soltanto le guerre a mettere in discussione il percorso delle idee e dell’umanità previsto da Fukuyama.

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Un uomo attraversa di corsa una strada di Sarajevo, nota come il “viale dei cecchini” durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina, vicino a due soldati francesi delle Nazioni Unite, il 23 novembre 1994 (Foto AP/Enric Marti)

Fukuyama è più volte intervenuto nel corso degli anni per precisare e, secondo alcuni commentatori, rivedere in parte le tesi espresse nel suo saggio. In più occasioni ha affermato che la fine della storia non presupponeva la scomparsa dei totalitarismi o delle guerre. Ha però sostenuto che questi eventi dovessero essere intesi come deviazioni temporanee nelle singole storie nazionali, all’interno di una storia universale che avrebbe comunque portato la democrazia liberale a essere la forma prevalente nel lungo termine.

Respinse inoltre in modo esplicito l’obiezione frequente secondo cui la sua teoria sarebbe un tentativo di legittimare un modello di organizzazione sociale e politica specificamente americano. «Credo che l’Unione Europea, rispetto agli Stati Uniti, rifletta con maggiore precisione come sarà il mondo alla fine della storia», scrisse sul Guardian nel 2007, descrivendo come molto più in linea con la sua idea di mondo alla fine della storia il tentativo dell’Unione Europea «di trascendere la sovranità e la tradizionale politica di potere stabilendo uno stato di diritto transnazionale» che non la «continua fede degli americani in Dio, nella sovranità nazionale e nei loro militari».

In un articolo da poco pubblicato sul Financial Times, Fukuyama ha aggiunto che l’invasione dell’Ucraina dimostra che l’attuale ordine mondiale liberale non è scontato e richiede, per esistere, continui sforzi da parte dei suoi sostenitori. E lo dimostrerebbero anche le recenti svolte illiberali verso il populismo e il nazionalismo all’interno di democrazie liberali di lungo corso come gli Stati Uniti e l’India.

La dottrina del liberalismo, ha scritto Fukuyama, ammette che le persone non siano d’accordo sulle cose più importanti, come per esempio la religione da seguire, ma sostiene il principio di tolleranza tra le persone con opinioni diverse dalle proprie. Sostiene il rispetto della parità dei diritti – incluso quello alla proprietà privata – e della dignità degli individui attraverso uno stato di diritto e un governo costituzionale che controlli ed equilibri i poteri dello stato. Da questo punto di vista, sono numerosi gli esempi di stati moderni contrari a questi fondamenti.

L’India laica e liberale dei padri fondatori è diventata il paese nazionalista e induista del primo ministro Narendra Modi. Negli Stati Uniti, il nazionalismo bianco è apertamente celebrato in una parte del partito Repubblicano, e secondo Fukuyama sta emergendo una forma di attacco ai valori liberali della tolleranza e della libertà di parola nei paesi democratici anche da sinistra: molti progressisti, dice, si sono mostrati disposti a limitare la libertà di parola in nome di una giustizia sociale non abbastanza rapidamente garantita dai processi basati sul dibattito e sulla costruzione del consenso.

Alla base di queste regressioni dell’ordine liberale, secondo Fukuyama, ci sarebbe un’evoluzione del liberalismo classico verso sistemi in grado di indebolirlo. Concezioni e approcci neoliberisti hanno demonizzato lo stato come nemico della crescita economica e della libertà individuale, determinando una progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari e una riduzione della spesa sociale e degli «ammortizzatori» statali in grado di proteggere gli individui dagli effetti distorsivi del libero mercato. E questo secondo Fukuyama ha determinato a sua volta la recente ascesa di populismi e nazionalismi, in un contesto in cui la sinistra attribuiva al capitalismo la crescita delle disuguaglianze mentre la destra vedeva nel progresso della tolleranza e del liberalismo un indebolimento dei valori tradizionali.

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Il punto di vista di Fukuyama è tuttavia ancora sostanzialmente ottimista, perché a suo avviso è proprio in contesti illiberali che il liberalismo tende a riemergere ed essere maggiormente apprezzato. Cita, per contrasto, l’esempio delle proteste contro l’obbligo delle mascherine durante la pandemia, il paragone proposto da alcune persone con le leggi razziali e l’idea della “dittatura sanitaria”: «qualcosa che può accadere soltanto in una società sicura e compiaciuta di non avere esperienza di una vera dittatura».

Regimi autoritari come quelli in Russia, Cina, Siria, Venezuela, Iran e Nicaragua, secondo Fukuyama, hanno poco in comune se non la loro avversione per la democrazia liberale. E sono rafforzati dalle parti di popolazione di tutto il mondo che respingono quei valori e desiderano invece comunità fondate su opinioni religiose condivise, e un’etnia e tradizioni culturali comuni. La Russia è al centro di questa «rete di mutuo sostegno» che si estende all’interno delle stesse democrazie liberali, tra i populisti e i nazionalisti che hanno espresso più volte ammirazione per Putin e per l’idea stessa di un «leader “forte”» in grado di difendere i valori tradizionali senza troppe attenzioni alle leggi e alle costituzioni.

Le altre riflessioni
Al netto delle obiezioni e dei limiti inevitabili di alcune previsioni contenute nel saggio del 1992, l’idea di fine della storia formulata da Fukuyama è stata ed è ancora la base di molte letture approfondite e analisi critiche del presente. Robert Kagan, lo storico citato da Draghi e da tempo considerato un sostenitore dell’interventismo liberale, utilizzò l’espressione «ritorno della storia» alla fine degli anni Duemila per descrivere le crescenti tensioni tra stati nazionali rivali. In anni più recenti ha espresso preoccupazione riguardo all’espansionismo territoriale e alle capacità egemoniche della Russia in Europa dell’Est, e alla scelta degli Stati Uniti di rinunciare al ruolo di tutori dell’ordine liberal-democratico mondiale.

Le considerazioni di Kagan, alcune delle quali contenute nel suo libro The Jungle Grows Back, sostengono in generale l’idea che quanto avvenuto nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, in termini di prosperità e di espansione delle democrazie, sia da considerare un’eccezione nella storia del mondo più che un punto di arrivo. «Penso che abbiamo perso di vista quanto sia costato questo ordine internazionale e quale atto di sfida alla storia e persino alla natura umana per molti abbia rappresentato questo ordine», disse Kagan nel 2018, in un convegno organizzato a Bruxelles dal centro studi German Marshall Fund.

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Marines statunitensi appostati nelle vicinanze di piazza Firdos, a Baghdad, prima dell’abbattimento di una statua del dittatore Saddam Hussein, il 9 aprile 2003 (Wathiq Khuzaie/Getty Images)

Oltre alle letture che condividono l’idea di fine della storia sviluppata da Fukuyama e a quelle numerose che, pur non condividendola, ne accettano i presupposti teorici, sono emerse nel corso degli anni riflessioni che rifiutano il modello dominante che alle liberaldemocrazie oppone populismi e nazionalismi, senza alternative. Riflessioni che respingono l’idea di un mondo in cui, per dirla con i termini di Fukuyama, la storia possa soltanto o finire o tornare.

Del discorso di Fukuyama è in genere ritenuto contraddittorio e rifiutato all’interno di questi approcci il presupposto stesso di una storia universale, quindi valida per tutta l’umanità, che al fine di tutelare la libertà individuale e i diritti del singolo possa concludersi con una forma di liberalismo. Tanto più se quel liberalismo universale conduce poi, nei fatti, verso forme di democrazie in cui prevalgono interessi particolari e disuguaglianze sociali.

Descrivendo un’idea di democrazia a suo avviso diffusa in molte società occidentali, il sociologo tedesco Armin Nassehi, docente all’Università Ludwig Maximilian a Monaco di Baviera, ha recentemente scritto sul settimanale Zeit che la democrazia è stata intesa troppo a lungo come «una specie di erogatore di servizi», in cui l’individuo ripone o a cui nega la propria fiducia a seconda dei risultati personali immediati che ottiene. E che la libertà è stata «equiparata al mero individualismo e all’egoismo, senza nemmeno avere idea di quanto il discorso sulla democrazia liberale abbia storicamente faticato a conciliare autodeterminazione e aspettative sociali, diritti individuali e ordine sociale».

Orientamenti di pensiero alternativi rispetto a quelli che accettano la fine della storia di Fukuyama riflettono sulla possibilità di modelli di organizzazione politica, economica e sociale né liberaldemocratici né autarchici. Alcuni tra quei modelli propongono una ridefinizione dei rapporti sociali, delle politiche economiche e delle relazioni internazionali in grado di ridurre le contraddizioni e «la competizione delle idee», scrive Nassehi citando un antico concetto cinese, il tianxia (che significa «tutto sotto il cielo»), e l’interpretazione moderna proposta dal filosofo cinese Zhao Tingyang negli anni Duemila.

Nel 2018, Zhao lo descriveva come un sistema politico basato sul rispetto reciproco, sulla convivenza e sull’interesse collettivo anteposto a quello personale. Sistema che lui ritiene un ordine mondiale preferibile, più stabile di quello liberale e opposto allo stato di natura teorizzato dal filosofo inglese Thomas Hobbes, in cui prevarrebbero diffidenza, ostilità e imitazione del comportamento altrui allo scopo di ottenere il dominio. In alcuni contesti accademici, la Cina – modello politico a sua volta non privo di contraddizioni e spesso considerato dalla prospettiva delle democrazie liberali un esempio di autoritarismo – è a volte proposta come esempio di cooperazione e tolleranza internazionale ispirata al tianxia.

Come ha scritto il giornalista Alex Lo sul quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, «la Cina non sfida la democrazia liberale e il capitalismo occidentale più di quanto non sfidi la teocrazia islamica o il fondamentalismo cristiano», nel senso che «accetta la loro legittimità come qualsiasi altro sistema politico ed economico». Si rifiuta però di attribuire alla democrazia liberale e al capitalismo occidentale una superiorità rispetto agli altri sistemi, e si rifiuta di riconoscere ai paesi in cui sia presente quel sistema – o un altro – il diritto di decidere le regole dell’ordine mondiale.

Secondo i sostenitori del concetto di tianxia, ha scritto Lo, fenomeni come la disuguaglianza, la povertà, il terrorismo o la crisi climatica non sarebbero i risultati ottenuti da «nazioni malvagie contro le quali combattono nazioni buone». Sono piuttosto i risultati di «un sistema internazionale profondamente imperfetto che incoraggia tale comportamento e genera tali risultati», evitabili soltanto attraverso leggi e istituzioni internazionali in grado di aumentare la rappresentanza delle nazioni in via di sviluppo e favorire la riforme delle politiche estere di tutti i paesi in senso apertamente antimilitarista.

Il ritorno della storia
La storia degli ultimi trent’anni, scrisse a novembre scorso Serhii Plokhy, docente di storia ucraina a Harvard e direttore dell’Harvard Ukrainian Research Institute, indica che la fine dell’Unione Sovietica non solo non ha segnato la fine della storia, nel senso di Fukuyama di evoluzione ideologica dell’umanità, ma non ha cambiato nemmeno il significato della storia come «disciplina che ha documentato la lunga e dolorosa disintegrazione della maggior parte degli imperi del mondo».

La fine dell’Unione Sovietica, secondo Plokhy, non fu evidentemente un evento puntuale ma piuttosto l’inizio di un processo continuo di dissoluzione contraddistinto da successive controversie sui confini territoriali, tentativi di stabilire sfere di influenza e anche guerre aperte. E a guidare in direzioni spesso molto diverse gli interessi e le ambizioni delle diverse comunità emerse in seguito alla disintegrazione dello spazio post-sovietico avrebbe contribuito in modo significativo la loro storia pre-sovietica, come dimostrato dai paesi baltici, annessi durante la Seconda guerra mondiale e poi primi a dichiarare la propria indipendenza all’inizio degli anni Novanta.

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La decisione della Russia di riconoscere l’indipendenza dell’Ucraina, votata a maggioranza il 1° dicembre 1991, e di non voler più sostenere i costi dell’Unione senza le ingenti risorse umane ed economiche dell’Ucraina fu, secondo Plokhy, l’evento che segnò la fine dell’URSS. Da quel momento in poi, le differenze nei percorsi verso l’indipendenza intrapresi dalle diverse repubbliche sovietiche si rifletterono nella loro successiva evoluzione. Non tutti i paesi riuscirono a mantenere i progressi nella democratizzazione della loro vita politica e delle loro istituzioni, e anzi la maggior parte – anche tralasciando dal conteggio le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale – non ci riuscì, ed è oggi più sulla via dell’autocrazia che della democrazia.

Secondo Plokhy è solo relativamente a un aspetto che la fine della storia nel senso di Fukuyama sembrerebbe essersi realizzata nei paesi post-sovietici: la fine del modello monopolistico statale e l’introduzione dei principi della proprietà privata, della libera impresa e dell’economia di mercato. Cosa che, con l’eccezione dei paesi baltici, non ha tuttavia impedito che corruzione e altri difetti sistemici diventassero caratteristiche della vita politica, sociale ed economica di gran parte delle regioni dell’ex Unione Sovietica, peraltro ulteriormente svantaggiate in diversi casi da guerre e scontri armati in corso. E dove non ci sono scontri, scrisse Plokhy, c’è una relativa ricchezza in gran parte legata alle risorse naturali e alla capacità dei paesi di venderle sui mercati esteri, traendone profitti utili a sostenere i governanti autoritari e limitare la diffusione della democrazia.

Sebbene la democrazia si sia concretizzata soltanto in alcune ex repubbliche sovietiche, e sebbene la Russia non abbia mai di fatto rinunciato all’ambizione di controllare lo spazio post-sovietico, secondo Plokhy diverse cose sono comunque cambiate in meglio rispetto agli anni della Guerra fredda. «La maggior parte dei paesi post-sovietici è oggi molto più libera di quanto non lo fosse durante la perestrojka di Gorbaciov, per non parlare della dittatura assassina di Stalin».

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Inoltre, secondo Plokhy, che sembra in qualche modo alludere al concetto di storia universale presupposto da Fukuyama, il ritorno della storia non esclude che sia possibile imparare dalle esperienze passate e conoscere in anticipo gli sviluppi futuri dei processi in atto nelle regioni dell’ex Unione Sovietica. «Nessun impero è stato in grado di rianimarsi e continuare a imporre indefinitamente la sua volontà o la sua ideologia» su territori assoggettati in precedenza, perché quei paesi non sono poi disposti a rinunciare alla propria libertà di scelta. A patto che quella libertà sia sostenuta dalla comunità internazionale «non solo con le parole, ma con i fatti».

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Un soldato armato a Sinferopoli, in Crimea, durante l’occupazione militare russa della città, il 1° marzo 2014 (Sean Gallup/Getty Images)

Come chiarito dallo stesso Fukuyama nel citato articolo sul Financial Times, le difficoltà del liberalismo non termineranno nemmeno in caso di sconfitta della Russia di Putin. Ma nel frattempo il mondo avrà imparato il valore di un ordine mondiale liberale, e quale continuo sostegno e impegno richieda quell’ordine per esistere. «Gli ucraini, più di ogni altro popolo, hanno dimostrato cosa sia il vero coraggio e che lo spirito del 1989 rimane vivo nel loro angolo di mondo. Per il resto di noi si era addormentato e si sta risvegliando».

Che l’invasione dell’Ucraina possa aver involontariamente riattivato la diffusione e la popolarità del sistema liberal-democratico, anziché arrestarle, lo ha scritto sull’Atlantic anche Kori Schake, direttrice degli studi di politica estera presso l’organizzazione American Enterprise Institute. L’obiettivo di Vladimir Putin, secondo Schake, era quello di sminuire l’«occidentalismo» dell’Ucraina esponendo «l’inettitudine della NATO e la riluttanza dei paesi liberi a farsi carico degli oneri economici» in difesa dei valori alla base dell’ordine liberale internazionale. Ma nel farlo avrebbe ottenuto l’effetto opposto.

Oltre a mostrare una tenace resistenza, sia i cittadini che le forze militari ucraine hanno compreso di essere impegnate anche in una «battaglia di idee» e di valori, come dimostrato dalla recente attivazione da parte del ministero della Difesa ucraino di una linea telefonica per le persone russe che desiderano avere informazioni sui loro parenti militari partiti per l’Ucraina e con i quali abbiano perso i contatti. Inoltre, la questione del consenso verso i regimi autoritari, pur presente all’interno delle democrazie liberali, vale anche al contrario: coraggiose iniziative di protesta e attivismo civile molto commentate e ammirate sono state intraprese in questi giorni nella stessa Russia, esponendo gli autori a rischi probabilmente sconosciuti agli ammiratori degli autoritarismi che vivono nelle democrazie liberali.

È inoltre venuta meno una finora stabile forma di neutralità espressa da alcuni paesi europei come la Svizzera, la Finlandia, la Svezia, che a vario titolo e in forme diverse hanno comunque deciso di sostenere la linea politica adottata dall’Occidente, ha ricordato Richard Fontaine, CEO del centro studi americano Center for a New American Security.

Anche Anne Applebaum, rispettata giornalista polacco-americana, esperta di temi internazionali e questioni relative alla Russia, ha descritto l’invasione dell’Ucraina come un evento in grado di indebolire alcune infondate convinzioni dell’Occidente riguardo al ruolo della Russia nell’ordine liberale internazionale e, al contempo, di accelerare processi già in corso: «Comunque finisca la guerra – e molti scenari sono ancora immaginabili – viviamo già in un mondo con meno illusioni».

È come se le persone in tutta Europa si fossero rese conto di vivere in un continente in cui la guerra, in questa epoca, non è più impossibile, ha scritto Applebaum. E molte delle espressioni a lungo utilizzate riguardo all’unità e alla solidarietà all’interno dell’Unione Europea abbiano improvvisamente assunto un significato profondo smettendo di sembrare dei cliché linguistici. Tralasciando il discorso sulle procedure formali di ingresso nell’Unione Europea, secondo Applebaum, di fatto si è già affermata nell’immaginario collettivo di tutto il continente un’idea di Europa di cui l’Ucraina fa parte. E gli eventi recenti non soltanto hanno cambiato «la percezione che il mondo ha dell’Ucraina, ma anche la percezione che gli ucraini hanno di sé stessi».

Anche l’opinione di Applebaum sembra teoricamente compatibile, in definitiva, con l’idea di un “ritorno della storia” nel senso di Fukuyama, cioè come deviazione da una storia universale che vede comunque nella democrazia liberale un modello destinato a prevalere. «Anche se finirà male, anche se ci saranno più spargimenti di sangue, ogni ucraino e ucraina che ha vissuto questo momento ricorderà sempre come ci si sente a resistere, e anche questo avrà importanza, nei decenni a venire».

Infine, ha scritto Applebaum, l’impopolarità di questa guerra aumenterà anche in Russia, grazie a una crescente consapevolezza e all’espansione dell’«altra Russia» che è sempre stata lì. Quella che manifestò esultando per le strade dopo la fine dell’Unione Sovietica, che protestò per le irregolarità durante le elezioni del 2011 e poi ancora per l’arresto dell’oppositore politico di Putin Alexei Navalny nel 2021.

E l’insoddisfazione popolare in Russia potrebbe a maggior ragione crescere in conseguenza delle scelte compiute da quell’ordine liberale internazionale a cui il regime russo si oppone. Scelte che, ha scritto Fontaine, stanno «disconnettendo i russi da benefici della globalizzazione come il commercio, i viaggi, la finanza e la tecnologia» con il risultato di rafforzare l’idea di «una Russia più povera, più isolata e più debole».

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