I razzi di Colleferro
Avio produce i lanciatori che portano i satelliti di mezzo mondo in orbita: qui il futuro pare vicino e si può immaginare cosa faremo sulla Luna e su Marte
di Claudio Caprara
La via Latina, la strada blu che porta a Colleferro da Roma, è molto bella. Arrivando è naturale pensare alla storia di Willy Monteiro, e vale la pena fare un salto a vedere il murale di Lucamaleonte.
In vista del centro, sulla sinistra, si apre una vallata dominata dalla più importante industria della zona. È Avio, un’azienda che fa razzi che trasportano nello Spazio satelliti di varie dimensioni e con diverse funzioni.
Dispositivi che servono alla telefonia, alle tv, ai servizi internet, al controllo del territorio, all’industria militare e a una grande quantità di altre cose.
La storia
La storia di Avio procede parallela con quella dell’aviazione italiana.
La Fiat, nel 1908, avvia la produzione del primo propulsore per aeroplano come sviluppo di un motore di un’auto da corsa.
Nel 1912 a Colleferro nasce la Bombrini Parodi Delfino, la BPD: un’azienda che operò soprattutto nella produzione di polvere da sparo ed esplosivi.
Con la Prima guerra mondiale nasce la Società Italiana Aviazione per soddisfare la domanda di aerei dell’esercito. Con la fine della guerra le competenze e le risorse della Fiat nel volo vengono indirizzate alla produzione di velivoli commerciali.
Tra gli anni ’20 e’30 del secolo scorso – soprattutto dopo la nomina di Italo Balbo come ministro dell’Aeronautica – il settore ebbe un notevole sviluppo e numerosi successi.
Simbolicamente il fatto che fosse lo stesso ministro a guidare le squadre di velivoli in crociere transatlantiche ebbe un’enorme risonanza mondiale.
In quella fase diverse aziende lavoravano su prodotti che concorsero alla crescita dell’aeronautica italiana: la SACA (Società Anonima Cantieri d’Aeroporto) di Brindisi e la CMASA (Costruzioni Meccaniche Aeronautiche Società Anonima) di Marina di Pisa, tra le altre.
In quegli anni le scoperte e le innovazioni si intersecarono tra i diversi settori che disegnarono grandi motori sia per i trasporti sottomarini e ferroviari che per la produzione di turbine a gas.
È del 1938 un’esplosione che uccise 59 operai della BPD e che resta il più grave incidente sul lavoro della storia di questa parte del Lazio.
A Colleferro, su commessa del ministero della Difesa e dell’Aeronautica, nel 1952 fu realizzato un combustibile solido a base di nitroglicerina e nitrocellulosa con il quale furono alimentati i primi missili sperimentali a livello industriale.
In seguito si fecero le sperimentazioni missilistiche per approfondire le ricerche meteorologiche.
L’evoluzione di quel propellente servì per i lanci di razzi nei primi anni ’60.
«Quello degli anni tra il 1961 e il 1964 fu un periodo straordinario, spiega l’amministratore delegato di Avio, Giulio Ranzo. Fu quando l’Italia varò il Progetto San Marco. Uso questi termini perché pensare che 60 anni fa fu realizzato il primo satellite italiano lanciato nello Spazio da una piattaforma italiana sembra incredibile. Un progetto come quello oggi sarebbe inimmaginabile e richiederebbe miliardi di euro e una notevole dose di incoscienza. Fu un momento fondamentale della storia del nostro Paese perché ci si rese conto di quanto fosse importante la conoscenza di queste tecnologie».
In quel periodo si arrivò alla nascita della Società Generale Missilistica Italiana con un accordo tra Finmeccanica, BPD e Fiat.
Nel 1947 nel gruppo BPD entrò un giovane che si chiamava Cesare Romiti. «Poi andai a lavorare a Colleferro, alla Bombrini Parodi Delfino», raccontò una volta. «Lì si compì la mia formazione manageriale, lì fui il promotore della fusione con la Snia Viscosa, lì diventai direttore generale finanziario. Da lì partii per arrivare a fare l’amministratore delegato all’Alitalia. Mi sono sposato giovane. Molto giovane. E squattrinato. Mia moglie venne a vivere con mia madre e i miei fratelli. Il nostro primo “lusso” fu una Topolino. Di seconda mano. Fatti dieci chilometri cominciò a fumare e si piantò».
Il progetto San Marco
Nell’aprile del 1961 Luigi Broglio (fondatore e direttore della Scuola di Ingegneria Aerospaziale della Sapienza di Roma) presentava a Firenze, al congresso internazionale del Comitato per la Ricerca Spaziale (COSPAR), i risultati ottenuti con il lancio del razzo Nike Cajun effettuato a gennaio dal poligono di Salto di Quirra, in Sardegna.
Quella fu anche l’occasione – complice una cena a base di pappardelle alla lepre e Chianti – per coinvolgere la «NASA sulla disponibilità a collaborare a un progetto che Broglio aveva elaborato come presidente della Commissione per le ricerche spaziali. Tale progetto fu battezzato San Marco».
L’obiettivo era la costruzione e il lancio di satelliti per lo studio dell’alta atmosfera terrestre. A bordo del primo lancio c’erano satelliti di forma sferica, 66 centimetri di diametro, che pesavano poco più di 115 chilogrammi.
Nella palla fu installata la “bilancia Broglio”, strumento in grado di misurare la densità dell’atmosfera ad alta quota (fino a 400 chilometri). Era sostanzialmente un sistema di navigazione inerziale.
Per lanciare nello Spazio questi satelliti fu utilizzato un razzo della classe Scout, ottenuto dalla NASA grazie agli accordi stabiliti da Broglio.
San Marco 1 fu lanciato il 15 dicembre del 1964 dalla base americana Wallops, e rimase in orbita intorno alla Terra per 271 giorni. Il satellite rientrò il 14 settembre 1965.
Nell’ambito del Progetto San Marco furono lanciati altri 4 satelliti (nel 1967, 1971, 1974 e 1988), tutti dal sistema di piattaforme che oggi è il Centro Spaziale Luigi Broglio a Malindi, in Kenya, gestito dall’Agenzia Spaziale Italiana, ormai in gran parte dismesso.
«È una storia importante e gloriosa dell’Italia nel settore dello Spazio – spiega Ranzi – perché noi abbiamo cominciato prima degli altri paesi europei a occuparcene. La nostra aspirazione si è concretizzata in un forte rapporto con la NASA per i missili già a metà degli anni ’50. Nei primi anni ’60 l’Italia lanciò il primo satellite di telecomunicazioni completamente italiano in una partnership con gli americani, diventando il terzo paese al mondo a lanciare un oggetto nello Spazio. Poi sono arrivati alcuni decenni meno rilevanti, ma credo che dalla metà degli anni ’90 l’Italia sia tornata una realtà importante nello Spazio».
Nel 1975 nasce l’ESA, l’European Space Agency, che raccoglie le due precedenti organizzazioni spaziali del continente: ESRO ed ELDO.
Del 1988 è la fondazione dell’Agenzia Spaziale Italiana, l’ente nazionale che ha il compito di definire i programmi nazionali in campo spaziale, gestendo la partecipazione italiana, scientifica e industriale ai programmi dell’Agenzia Spaziale Europea.
VEGA
«Un altro momento molto importante nel settore dei lanciatori dei razzi e dell’accesso allo Spazio c’è stato tra il 2006 e il 2012 quando abbiamo lanciato per la prima volta VEGA, il Vettore Europeo di Generazione Avanzata, che noi produciamo qua a Colleferro», spiega Ranzo.
«È stato un momento fondamentale perché siamo passati da essere fornitori dell’industria spaziale, producendo dei componenti più o meno rilevanti, a diventare responsabili per un intero sistema. Si deve considerare che al mondo esistono pochi paesi in grado di costruire un intero sistema capace di andare nello Spazio».
«Un razzo per l’80 per cento è costituito dal propellente – ci spiega Nicola Romanelli, del marketing di Avio – che gli serve per andare lontano. Perché un vettore che trasporta satelliti deve compiere una lunga distanza senza possibilità di rifornirsi e deve avere almeno una velocità di 7 chilometri al secondo, per vincere la forza di gravità terrestre».
Per questo i razzi vengono prodotti a stadi e man mano che uno stadio esaurisce il carburante si stacca e viene abbandonato, riducendo la massa del sistema di lancio.
VEGA, che Avio realizza per ESA, è un razzo a quattro stadi, spinto principalmente da propulsione a carburante solido, impiegato per portare in orbita i satelliti.
Francesca Romano è un’ingegnera spaziale, viene da Avellino, ha 26 anni e lavora da qualche mese a Colleferro nel team “Guida, navigazione e controllo” e in particolare si occupa – seguita da un tutor – delle analisi di separazione tra gli inter-stadi di un lanciatore.
Tra i diversi stadi ci sono meccanismi di espulsione basati su molle e piccole cariche esplosive, che le dilatano e spingono via gli stadi che hanno esaurito il carburante.
Il carico utile, vale a dire il satellite o gli oggetti che devono essere lasciati in orbita, costituisce circa il 3 per cento del peso complessivo del razzo, ed è sistemato nella parte superiore.
Il razzo è progettato per portare carichi definiti “leggeri” (parliamo di 1,5 tonnellate) in diverse orbite fino a una quota di 1.500 chilometri.
La capacità di carico non è un particolare secondario, perché i clienti pagano il viaggio dei loro oggetti spaziali a peso (il prezzo di vendita, da quello che abbiamo intuito, si aggira attorno ai 20mila euro al chilogrammo).
L’Italia (e in Europa solo la Francia), insieme a Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e India è tra i paesi che possono mandare satelliti nello Spazio, e questo significa che le aziende italiane del settore sono un punto di riferimento per 124 paesi: tutti potenziali clienti nel mercato della space economy, anche perché VEGA si è rivelato molto affidabile e tra i vettori è uno di quelli che hanno subìto meno incidenti con perdite del carico.
Difficile avere informazioni precise da Avio, anche perché sono dati particolarmente sensibili, ma Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Perù, Thailandia, paesi dell’America Latina e dell’Africa sono tra i clienti che in Italia possono trovare “un passaggio”, ma anche satelliti e servizi.
Dei venti lanci di VEGA effettuati dal Centre Spatial Guyanais di Kourou, dal novembre 2010 al 16 novembre dello scorso anno, due sono falliti: il quindicesimo e il diciassettesimo. Si tratta di una percentuale ritenuta molto bassa rispetto a quella di altri fornitori.
La quotazione in borsa
Avio fu ceduta dalla Fiat nel pieno della crisi dell’auto: dal 2003 la società aerospaziale era diventa di proprietà per l’85 per cento del fondo di private equity britannico Cinven, mentre il restante 15 per cento faceva capo a Finmeccanica.
Nell’aprile del 2017 Avio è diventata la prima “public company” tecnologica al mondo per la vendita di vettori per satelliti ad essere quotata in borsa.
Il protagonista di questa operazione è stato l’amministratore delegato, Giulio Ranzo, romano, ingegnere e dottore di ricerca in ingegneria a San Diego (California, Stati Uniti). Ha 50 anni.
Ha lavorato un po’ in Italia, negli Stati Uniti, in Medio Oriente, in giro per l’Europa.
Ha fatto per anni il consulente di strategie nel settore aerospaziale e della difesa. E poi dal 2011 è entrato in Avio.
Ranzo, insieme al resto del management, è anche azionista dell’azienda.
«Si tratta di un’innovazione che ho voluto io. Quando abbiamo portato l’azienda in Borsa con alcuni colleghi abbiamo deciso di comprare una piccola quota. Eravamo una quindicina a fare questo esperimento. Poi siamo diventati azionisti in una settantina di dipendenti e la valorizzazione di questa quota è intorno al 4 per cento del capitale. Ciò fa di noi uno fra i primi azionisti. Credo che si possa dire che si tratta di un’esperienza innovativa perché unisce fortemente tutti noi ai risultati aziendali. Io porto all’occhiello il marchio della nostra azienda non solo perché lavoro qui, ma perché ho legato la mia vita a questo marchio. È qui che ho investito i miei risparmi e conto di portarli a frutto».
Ranzo pensa che questo elemento rappresenti un valore competitivo in un momento di grande accelerazione del settore.
«Ci sono investimenti finanziari importanti e noi abbiamo già la mentalità giusta per affrontare questa ondata di rinnovamento che ha invaso il nostro settore e ci fa essere preparati a coglierne le opportunità, a comprenderne prima degli altri le dinamiche, ad essere più aperti e più elastici ad accogliere questi stimoli».
Ranzo ci conferma che Avio è una delle poche aziende italiane a elevato capitale flottante in Borsa, in cui cioè due terzi delle azioni sono disponibili per essere negoziati in borsa.
Non c’è un azionista di controllo, quindi è un’azienda molto aperta al mercato, alla partecipazione di investitori italiani, europei e internazionali.
«Oggi ci sono diversi investitori che vengono da altri paesi europei e dagli Stati Uniti. Quindi non so se questo sia un elemento di continuità e di stabilità, ma è qualcosa che ci rende più allineati alle necessità del mercato e a quello che si aspetta».
Che cosa succede adesso
«Adesso ci stiamo spingendo verso cose nuove, più sofisticate. In questi anni abbiamo acquisito nuove competenze».
Ranzo spiega che nello Spazio ci sarà bisogno di nuovi servizi che riguarderanno sempre più anche gli oggetti che si trovano già in orbita.
«Sulle nostre teste ci sono quasi tremila oggetti orbitanti, molti di questi non sono più operativi. Questi numeri sono in continuo aumento. Tra dieci anni potrebbero essercene più di diecimila e a quel punto ci dovrà essere qualcuno in grado di controllarli, di ripararli, oppure di portarli via da dove stanno perché intralciano, oppure si dovrà pensare ad allungare loro la vita rifornendoli di altro propellente o di moduli aggiuntivi compatibili. Questa attività di andare nello Spazio al servizio di oggetti già esistenti sarà completamente nuova».
A queste necessità sarà rivolto il progetto Space Rider, un complesso di attività sia in orbita che a terra che Avio sta portando avanti con Thales Alenia Space.
Space Rider è un vero e proprio laboratorio spaziale robotizzato che ha una stiva interna apribile e può svolgere numerose rilevazioni su molti oggetti in orbita.
Le sue attività «porteranno vantaggi alla ricerca nel settore farmaceutico, biomedico, biologico e delle scienze fisiche» si legge sul sito dell’ESA: «Al termine della sua missione, Space Rider tornerà sulla Terra con i suoi carichi per essere scaricato e strutturato per un altro volo».
«Nei nostri progetti non c’è solo Space Rider – precisa Ranzo – ma un sistema di attività di servizio. Sono già previste delle estensioni di Space Rider con l’inserimento di moduli di servizio orbitali con la capacità sia di rientrare sulla Terra, ma anche di rimanere in orbita per svolgere diverse attività, ad esempio di raccolta di rifiuti spaziali o l’estensione del ciclo di vita di satelliti orbitanti o l’attività di trasporto presso le stazioni spaziali degli specifici strumenti recuperati. Oggi c’è una sola Stazione spaziale internazionale. In futuro ne avremo diverse perché sono già previste delle stazioni spaziali commerciali, che avranno bisogno continuamente di rifornimenti: non solo di generi di prima necessità, ma anche di strumenti e di apparecchiature. Questa attività di servizio, secondo noi, diventerà prevalente nei decenni a venire».
Una sorta di officina spaziale è per Avio un business del futuro.
«Sì, una sorta di meccanico che arriva con una tanica di benzina se hai finito il carburante e sei rimasto fermo per strada. Oppure che tira fuori dei cacciaviti o degli altri strumenti per riparare qualcosa che non funziona. O, ancora, che potrà portare delle nuove funzionalità che al momento in cui il satellite è stato progettato non esistevano e magari possono essere aggiunte per fornire servizi in più al proprietario del satellite».
Tutto non umano?
«Non si può escludere una presenza umana, ma oggi con gli strumenti di volo a pilotaggio remoto che ci sono si possono sbrigare molte funzioni per le quali non occorre la presenza di astronauti, che potranno dedicarsi ad attività più sofisticate».
VEGA C
Nelle officine di Avio siamo andati a vedere come si stanno realizzando le componenti del nuovo razzo Vega, che ha preso il nome di Vega C (C sta per Consolidation).
È un vettore che avrà prestazioni migliori del suo predecessore VEGA e riuscirà a portare fino a 2.300 chilogrammi di materiali in orbita terrestre (vale a dire il 60 per cento in più rispetto all’attuale).
«Da VEGA C ci aspettiamo un balzo in avanti di competitività. – dice Ranzo – Entro l’estate lanceremo questo nuovo vettore che oltre alla maggiore capacità di carico, allo stesso costo, può raccogliere le richieste che arrivano da un maggior numero di clienti da più posti nel mondo. Potremo lanciare con una frequenza maggiore e magari passare dalla media attuale di circa 3 voli l’anno, potremmo arrivare fino a 6 voli, ampliando notevolmente l’offerta, con la possibilità di aggiungere al carico sia Space Rider che altri moduli per i servizi orbitali e rendere maggiore la gamma della nostra offerta».
La new space economy
Avio vive una fase di euforia perché tutto ciò che ha a che fare con le attività nello Spazio gode in questo periodo di un notevole interesse. Difficile dire se accanto alla curiosità si stia sviluppando una bolla speculativa (come capitò con internet a cavallo del secondo e del terzo millennio) o se cresca con vigore una economia spaziale reale.
Qui non hanno dubbi: la new space economy sta vivendo una fase entusiasmante perché finalmente c’è di nuovo uno spirito che porta i giovani a sognare.
«Se i giovani non sognano non andiamo da nessuna parte. Lo Spazio fa sognare perché consente di porci degli obiettivi che solo apparentemente possono sembrare irraggiungibili. Avere grandi visioni ha consentito all’uomo, nella sua storia, di fare delle innovazioni che diversamente non ci sarebbero state. Pensiamo a tutte le tecnologie che sono state sviluppate per permettere all’umanità di andare sulla Luna negli anni ’60: la crescita dell’industria dei semiconduttori, i computer, molti elettrodomestici a cominciare dagli aspirapolvere senza quel passo non sarebbero stati messi a punto così velocemente. Sognare di abitare su Marte, di avere una stazione stabile sulla Luna, o di fare altre esplorazioni interplanetarie è uno stimolo eccezionale per i giovani. Li spinge a studiare, a crescere culturalmente, ad acquisire delle competenze. Io trovo che tutto questo sia una cosa positiva per il bene del pianeta, oltre che essere importante per chi vuole misurarsi con nuove frontiere e non accontentarsi di quello che già abbiamo».
I lanci spaziali non si improvvisano: il futuro è in larga parte già scritto, magari potrebbe esserci qualche ritardo rispetto alle previsioni, ma le cose che succederanno sono abbastanza chiare.
«Abbiamo una programmazione di lungo periodo i cui effetti si snodano direi fino al 2040», conferma Ranzo.
Però succedono cose che vent’anni fa erano considerate progetti visionari.
In questo campo c’è bisogno di “eroi”, o comunque di protagonisti che possano accendere anche le passioni popolari, come è stato con Yuri Gagarin o anche – in misura diversa e più razionale – per Samantha Cristoforetti?
Per Ranzo la loro presenza è uno stimolo per tutti gli altri a fare meglio.
«Se non ci fossero queste personalità ci sarebbe il rischio di un appiattimento di tutti noi. Un avanzamento molto lento. Lo abbiamo visto per diversi decenni, non c’è stata una vera evoluzione tra gli anni ’80 e i primi anni Duemila. Gli anni ’10 di questo secolo, invece, hanno avuto un’evoluzione assai più significativa, anche grazie ad alcuni individui che hanno creduto di più nella ricerca spaziale. È sempre stato così. Se in Italia negli anni ’60 non ci fosse stato Luigi Broglio che diede vita a un progetto ambizioso di realizzare un satellite italiano e di lanciarlo nello Spazio in autonomia, l’Italia mai sarebbe stata nelle condizioni in cui è oggi. A volte sono necessarie delle personalità, delle capacità, delle competenze particolari. Sono dei riferimenti che stimolano l’attenzione e la fantasia dei giovani».
Ranzo non ricorda se da piccolo voleva fare l’astronauta. Conosce Samantha Cristoforetti ed è affascinato da quello che fa.
«Un giorno mi piacerebbe vedere il nostro pianeta dallo Spazio. Quando vado a vedere i lanci dei nostri vettori, nonostante ci sia già stato diverse volte, per me è un’emozione grande e, anche se non mi riuscirà l’impresa di andare personalmente nello Spazio, mi emoziono molto lo stesso».
Poi c’è il turismo spaziale: Ranzo su questo è scettico.
«Il turismo è un’attività che non credo durerà. Vedo più probabile il trasporto di persone sul pianeta uscendo dall’atmosfera. Stiamo parlando di viaggi per poter andare da Roma all’Australia in 20 minuti. Ecco, questa attività credo che potrebbe diventare qualcosa di interessante. Oggi il turismo spaziale ha delle applicazioni che durano cinque, sei minuti. Poco più di un giro in giostra. Domani si potrebbero sviluppare dei sistemi di trasporto per volare in condizione suborbitale. Ci potrebbero essere delle attività di trasporto interplanetario quando le stazioni orbitanti intorno alla Luna saranno stabili e di conseguenza il trasporto nello Spazio potrebbe diventare un po’ più ordinario».
Space economy e etica
Ci è capitato, quando abbiamo parlato di tecnologie molto avanzate (qui e qui) di chiedere se avere a che fare con tecnologie militari, che potenzialmente possono causare la morte di molte persone (e, come vediamo in questo periodo, non stiamo parlando di teoria), possa portare ad avere qualche problema etico o morale nel lavoro che si fa.
Ranzo ne parla in questo modo: «Noi siamo dei tecnici, ci occupiamo delle soluzioni tecnologiche e non di quello che viene lanciato. Quando lanciamo dei satelliti come quelli di osservazione del nostro pianeta, che consentono di sapere come si muove il vento, come si fa a prevenire i danni di un’alluvione o come si fa a valutare velocemente i danni di un terremoto, pensiamo di dare un piccolo contributo a questo nostro mondo così fragile. Siamo però consapevoli di essere solo dei traghettatori che offrono un servizio. Certo, ci occupiamo anche di motori per sistemi di difesa. Questo fa parte di quello di cui l’umanità purtroppo ha bisogno, ma anche su questo noi non ci occupiamo delle applicazioni».
Elon Musk e Marte
Nicola Romanelli ha 27 anni, è un ingegnere gestionale romano e lavora nel team di sviluppo business di Avio. È arrivato in azienda dopo aver fatto uno stage e una tesi sul funzionamento di un robottino spaziale alla NASA.
Vedere un lancio dal vivo a Cape Canaveral, in Florida, e trovarsi a contatto con quell’ambiente lo ha convinto a scegliere il settore spaziale per la propria attività professionale. Anche se ci ha confessato che non vorrebbe mai andare nello Spazio: «Comporterebbe una preparazione fisica e mentale che non credo sarei in grado di affrontare».
Per Romanelli Elon Musk «è uno dei più grandi innovatori della storia di questo settore. C’è chi pensa che sia un pazzo, ma è un trascinatore del cambiamento della space economy. Lui, Jeff Bezos di Amazon, Richard Branson di Virgin. Sono visionari che non hanno esitato di fronte a costi molto elevati e ad alte probabilità di fallire dei voli. Situazioni che un fondo pubblico non sarebbe stato in grado di affrontare».
Se Romanelli avesse la possibilità di andare a cena con Musk gli farebbe molte domande sui costi di SpaceX.
«Noi siamo un’azienda quotata in borsa e siamo obbligati a rendere trasparenti i nostri bilanci. La cosa su cui da sempre mi interrogo sono i suoi costi reali, quale è il modello di business, su che cosa la sua azienda spaziale fa margine. Secondo me è molto importante sapere se le cose che fa si reggono sui suoi capitali privati o se è un modello sostenibile. Se davvero genera utili vuol dire che il futuro della new space economy è fare come lui, se invece brucia capitali vuol dire che trascina il resto del mercato, ma non è possibile averlo come riferimento».
Musk ha un’azienda che lancia satelliti, ma produce anche piccoli satelliti impiegati per rendere possibili le connessioni a internet da qualsiasi parte del pianeta.
Anche l’amministratore delegato di Avio, se fosse a cena con Musk, gli parlerebbe di qualcosa di simile.
«Io gli chiederei: chi paga il conto? – ovviamente Ranzo non si riferisce alla cena, ma se realmente le sue visioni siano sostenibili dal punto di vista commerciale – Avrei un milione di domande di natura tecnica e industriale da fargli. Mi piacerebbe conoscere la sua visione reale sull’approdo dei suoi progetti e se è realmente convinto che la vita su Marte sia qualcosa di perseguibile, oppure se è uno strumento di suggestione per poi portare il mercato sulla sua visione dello sviluppo».
Personalmente Ranzo pensa che, a un certo punto della nostra storia, si potrà andare ad abitare su Marte?
«Non lo so, non sono sufficientemente esperto per dirlo. Credo che sia una domanda che ci si deve porre e che deve stimolare a sviluppare la capacità tecnologica e le competenze per poter dominare fatti che oggi non sono noti. È un quesito che ci spinge a lavorare. Se poi Marte sia veramente vivibile o no, secondo me conta relativamente poco. Ciò che è importante è scoprirlo».
VEGA NEXT
La prossima cosa interessante è capire cosa sarà VEGA Next, la fase successiva di VEGA dopo il prossimo VEGA E (Evolution), il lanciatore che è in fase di sviluppo e che sarà utilizzato per satelliti leggeri e con un prezzo di lancio più basso rispetto a quelli attuali. Il primo volo, presumibilmente, arriverà nel 2027.
«Non posso dire che cosa sarà VEGA Next perché è ancora un segreto. Sarà un oggetto più flessibile nel suo impiego per i clienti e diventerà disponibile con minore preavviso rispetto ad oggi. Sarà ancora meno costoso di VEGA E ed è progettato con tecnologie più sofisticate di quelle che abbiamo a disposizione oggi. Credo sia giusto sottolineare che sarà anche più compatibile con i limiti ambientali che oggi, anche per noi, diventano sempre più rilevanti».
Negli ultimi anni Avio ha fatto al massimo tre lanci all’anno. Si tratta di operazioni ad alto consumo energetico, ma sono pur sempre tre eventi. Ma se i lanci dovessero diventare 100? L’impatto ambientale della vostra attività diventerebbe insostenibile.
«Io non credo che diventeranno 100 – risponde l’amministratore delegato di Avio. Noi abbiamo studiato che fino al 2050 si potrà al massimo triplicare il numero dei lanci in un anno e già la si deve considerare una crescita notevole. È difficile immaginare che si lanceranno 3000 oggetti all’anno: io credo se ne lanceranno al massimo 400, che sono quattro volte il numero di quelli messi in orbita oggi. Non di più. Stiamo continuando a parlare di eventi isolati. Arriveremo a un lancio al giorno. È chiaro che si debba fare più attenzione all’utilizzo dei propellenti meno inquinanti, dei materiali con minore impatto sull’ambiente e il tutto va accompagnato da cicli produttivi più attenti alla sostenibilità. Anche questi elementi fanno parte della sfida che dobbiamo cogliere in tutti i settori».
Avio ha circa il 30 per cento delle sue risorse economiche ed umane orientate alle attività di ricerca e di sviluppo di nuove tecnologie. Lo studio riguarda i propellenti innovativi, meno inquinanti e meno costosi.
«Stiamo studiando la struttura in materiale composito molto leggero e ad alta resa. Ci sono soluzioni tecnologiche per i servizi in orbita, per muoversi da un’orbita all’altra, per spostarsi da un pianeta all’altro – spiega Ranzo. Facciamo ricerca sui materiali, sulle strutture, progettiamo nuovi sistemi. È una ricerca ad ampio raggio che riguarda anche i software e l’elettronica. Ci concentriamo su molti settori».
Questo lavoro riguarda anche la possibilità di avere persone a bordo dei vostri razzi?
«È un tema che stiamo discutendo, perché l’Europa – a differenza degli Stati Uniti e della Cina, che sono le due superpotenze del settore, e della Russia – non ha la capacità di lanciare astronauti. È un tema importante che ci porterebbe ad alzare il livello delle nostre ambizioni».
La difficoltà, in questo ambito, riguarda l’affidabilità dei sistemi di lancio che dovrebbero diventare incredibilmente più sicuri rispetto ad oggi e per questo richiedono un aumento di costi molto importante.
«Però si tratta di una sfida tecnologicamente e economicamente molto rilevante».
Infatti il rischio più rilevante che vede Ranzo per l’attività della sua azienda rimane quello di un’anomalia in volo: un lanciatore che non funziona, che fallisce il lancio, che esplode.
«Purtroppo questi elementi sono parte della vita, perché circa il 7 per cento dei lanci spaziali finisce in un fallimento. L’incidente fa parte del nostro business. È l’incubo di chi fa il nostro mestiere. Noi controlliamo tutto, abbiamo dei processi molto rigorosi, ciononostante quando si ha a che fare con degli oggetti composti da 30.000 pezzi, c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto».
Dalla Luna a Marte
Si sta molto parlando del ritorno sulla Luna. Che cosa ci andremmo a fare?
«La Luna è una tappa per poterci muovere più agevolmente per andare su Marte».
Praticamente un autogrill…
«Può diventare una stazione di trasferimento dove fare degli esperimenti in una condizione atmosferica che sulla Terra non è riproducibile. Si potrà lavorare in maniera stabile. Si potrà studiare come fabbricare degli oggetti con materie prime anche provenienti da lì. Lavorare sulla Luna ci darà delle competenze che oggi non abbiamo e ci potrà servire a fare cose che oggi non prevediamo neanche. Sono convinto che la Luna assumerà un ruolo importante nei prossimi decenni».
Ci sono state notizie false che hanno creato difficoltà o che hanno colpito il modo di lavorare degli ingegneri di Avio?
«È molto difficile raccontare delle balle nel nostro settore, perché è composto da persone con grandi competenze. In Europa siamo circa 45mila persone. Più della metà ha una laurea. Quasi tutti hanno una cultura solida e trovo difficile si possa raccontare loro che la Terra è piatta o che non siamo mai stati sulla Luna. A noi non danno fastidio le fake news».
E gli UFO?
«Noi siamo gente che valuta i fenomeni in maniera scientifica e su questo non ci sono evidenze».
Lasciando perdere la scienza per un momento, lei crede che ci sia vita da qualche parte nell’Universo?
«Non credo che sarà così importante scoprire se esista questa vita. È importante lo sforzo che ci porterà a capire dove c’è o c’è stata. Quel percorso di conoscenza ci darà delle competenze e una consapevolezza che ci consentiranno di vivere meglio qui. Viviamo in un mondo industrializzato, sviluppato, dove la popolazione cresce in maniera impressionante. Oggi siamo sette miliardi di persone, nel 2050 probabilmente saremo più di 9. A un certo punto, con tutta questa gente, non ci sarà più niente da scoprire sulla Terra. Allora quali saranno gli stimoli di questi nuovi due miliardi di persone? Se non ci fosse qualcosa da scoprire fuori dal nostro pianeta quale prospettiva interessante ci sarebbe? La vita sulla Terra, senza nuove conquiste, diventerebbe troppo noiosa».
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