L’antica abitudine di dormire a spezzoni
Sperimentata da alcune persone durante la pandemia, per lungo tempo prima della rivoluzione industriale fu una pratica normale e diffusa
Roger Ekirch è uno storico americano che insegna all’università Virginia Tech, uno dei più importanti centri di ricerca degli Stati Uniti. Nell’ambito delle ricerche sul sonno – materia oggetto di una quantità crescente di studi, in parte favoriti dalle circostanze eccezionali determinate dalla pandemia – Ekirch è un nome molto conosciuto. Negli anni Novanta, alcune sue ricerche negli archivi nazionali del Regno Unito sulle abitudini notturne delle persone prima della Rivoluzione industriale gli permisero di formulare la sua teoria del “sonno bifasico” e sostenere l’ipotesi, poi approvata da altri storici, che la pratica di dormire otto ore di fila sia sostanzialmente una convenzione moderna determinata dall’introduzione della luce artificiale.
Dalla consultazione approfondita di atti giudiziari, trattati scientifici, articoli di giornale, corrispondenza varia e altri documenti risalenti a un periodo compreso tra l’Alto Medioevo e la Rivoluzione industriale, Ekirch scoprì centinaia di riferimenti a un tipo di sonno spezzettato attestato in molti paesi del mondo e forse dominante nella civiltà occidentale. Secondo le sue ricerche, di notte le persone dormivano solitamente in due fasi distinte, intervallate da un periodo di veglia di circa una o due ore, più o meno tra le 23 e l’una. Quel tempo era generalmente dedicato alla preghiera, alla riflessione e allo studio, oppure alle conversazioni con familiari o vicini e all’attività sessuale.
In un articolo sul New York Times in cui ha raccolto una serie di osservazioni condivise da alcune persone, la giornalista Danielle Braff ha scritto di come l’abitudine di dormire in due fasi distinte della notte anziché in un’unica tirata sia stata riscoperta e in alcuni casi ripresa stabilmente durante la pandemia.
Una donna di 50 anni, madre di tre figli, ha raccontato di aver cominciato a svegliarsi alle 3 del mattino e a fare esercizi di yoga o meditazione, per poi rimettersi a dormire alle 6 ed essere svegliata alle 7 dalla figlia più piccola. Un uomo di 52 anni, che in passato aveva sofferto di insonnia e che ha poi letto del sonno bifasico, ha detto che dallo scorso agosto va a dormire alle 22, si sveglia naturalmente intorno alle 2, legge per un paio d’ore e poi si rimette a dormire fino alle 6:30 o le 7. «È quello che il mio corpo stava cercando di fare, anche quando non ne avevo mai sentito parlare», ha detto.
Braff associa queste nuove abitudini a un insieme di cambiamenti determinati dalla pandemia e al fatto che molte persone abbiano cominciato a lavorare da casa, ad avere orari più flessibili o, in generale, a modificare il loro modo di programmare le giornate. Alcune di loro sostengono di aver preso l’abitudine di dormire in due fasi in modo naturale e involontario, altre a causa dello stress.
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Più che una scelta consapevole, dormire in due fasi è stato per lungo tempo qualcosa che le persone facevano naturalmente, qualcosa che meglio si adattava ai modelli di lavoro agricolo e artigianale prevalenti, ha spiegato al New York Times Benjamin Reiss, docente di inglese alla Emory University di Atlanta, in Georgia, e autore di un libro sulla storia del sonno, Wild Nights: How Taming Sleep Created Our Restless World.
Nei numerosi documenti consultati da Ekirch i due periodi di sonno notturno erano generalmente definiti in inglese “first sleep” e “second sleep”, termini di cui trovò corrispondenze anche nelle lingue romanze: “primo sonno” in italiano, “premier sommeil” o “premier somme” in francese, “primo somno” o “concubia nocte” in latino. Lo stato di coscienza delle persone nell’intervallo tra il primo e il secondo sonno, in alcuni documenti francesi, era a volte definito “dorveille”, equivalente all’italiano “dormiveglia”, ancora oggi riferito a una condizione intermedia tra il sonno e la veglia.
L’ipotesi di Ekirch, da lui sostenuta nel libro At Day’s Close: A History of Nighttime, è che il sonno bifasico sia stato il modello dominante tra gli esseri umani per migliaia di anni, una predisposizione probabilmente ereditata dai nostri antenati preistorici. E che anche i riferimenti al «primo sonno» presenti in opere letterarie del passato, da Plutarco a Virgilio a Omero, debbano essere intesi avendo in mente quel modello, non il sonno ininterrotto diventato una consuetudine nelle moderne società industrializzate.
Nel XVII secolo, racconta Ekirch, in una giornata normale le persone in Inghilterra cominciavano alle 21 una prima fase di sonno che durava fino alle 23. Le persone che potevano permetterselo dormivano su materassi imbottiti di paglia o di stracci, e quelle più ricche su materassi imbottiti di piume. Quelle meno fortunate su giacigli di erica selvatica o anche per terra, senza coperte. La maggior parte condivideva uno stesso ambiente, spesso lo stesso letto, e in viaggio era piuttosto frequente dormire con sconosciuti. Per ridurre disagi e imbarazzo erano generalmente rispettate alcune convenzioni sociali come evitare il contatto fisico e cercare di non rigirarsi troppo nel letto.
La veglia notturna durava in genere un paio d’ore, dalle 23 all’una oppure in un intervallo diverso, a seconda dell’ora di inizio del primo sonno. E il risveglio non era provocato da rumori o altri tipi di disturbi notturni, né tantomeno da una sveglia, invenzione di fine Settecento. Quella fase di veglia intermedia era un intervallo di tempo utile per molteplici scopi, in cui le persone potevano aggirarsi per casa sfruttando la luce fornita da candele o lampade a olio. Oltre a essere spesso utilizzata per l’attività sessuale, favorita dal precedente riposo, si riteneva che la veglia fosse anche un momento adatto per l’assunzione di pillole curative e pozioni magiche.
A seconda delle persone e delle loro tipiche mansioni diurne, il tempo della veglia poteva essere utilizzato anche per attività contadine e lavori domestici: controllare gli animali nella fattoria, rattoppare, pettinare la lana o sistemare la legna da ardere nel camino, per esempio. Era anche un momento buono per le preghiere, alcune delle quali specifiche per questo intervallo di tempo, o anche per riflessioni filosofiche. Le persone che condividevano lo stesso letto, riferisce Ekirch, potevano anche soltanto dedicarsi a conversazioni casuali in un contesto informale e con un’intimità difficilmente riproducibili durante il giorno.
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Dopodiché si tornava a dormire, solitamente fino all’alba e in alcuni casi anche oltre. Più o meno come succede oggi, ha detto Reiss al New York Times, con la differenza che non c’era alcuna urgenza di andare in fabbrica o in ufficio, di andare a prendere un treno o di mandare i figli a scuola, dal momento che la maggiore parte dei lavori erano svolti in casa o nei dintorni. E il sonno non era regolato dall’orologio ma dai ritmi circadiani, i cicli con cui si ripetono regolarmente determinati processi fisiologici nell’arco di 24 ore.
Ovviamente, secondo Reiss, c’erano anche ragioni meno funzionali alla base della segmentazione del sonno. Le superfici su cui le persone dormivano rendevano più difficile di quanto non lo sia oggi dormire per lunghi periodi di tempo senza interruzioni. Le condizioni erano meno confortevoli, in generale, e i problemi di salute erano più frequenti e meno curabili, con il risultato che certi dolori potevano insorgere anche nel cuore della notte.
Problemi di salute a parte, l’abitudine di dormire in due fasi era comunque quella da cui gli esseri umani traevano generalmente maggiori benefici. E da questo punto di vista il modello del sonno bifasico non sarebbe un’eccezione nel regno animale, dato che molte specie riposano in fasi distinte e non in modo prolungato. In questo modo riescono a rimanere attivi in determinati momenti della giornata, per esempio quando nutrirsi è più semplice e li espone a minori rischi di essere cacciati a loro volta.
Un esempio significativo è quello del lemure dalla coda ad anelli, i cui cicli di sonno presentano notevoli somiglianze con quelli degli esseri umani preindustriali. «Ci sono ampie fasce di variabilità tra i primati, in termini di come distribuiscono la loro attività durante le 24 ore», ha detto a BBC Future David Samson, direttore del laboratorio del sonno e dell’evoluzione umana alla University of Toronto a Mississauga, in Canada.
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In uno degli esperimenti più noti sul sonno bifasico, oggetto di un citato studio del 1992 pubblicato dallo psichiatra e ricercatore americano Thomas Wehr del National Institute of Mental Health di Bethesda (Maryland), un gruppo di uomini rimase per un mese in assenza di qualsiasi fonte di luce per 14 ore al giorno. Soltanto per dieci ore al giorno era consentito loro di lasciare le proprie stanze prive di finestre, stanze in cui erano completamente al buio e in cui era loro vietato fare esercizi o ascoltare musica.
Dopo qualche giorno in cui dormirono per lunghi periodi ininterrotti, i partecipanti all’esperimento cominciarono a dormire più o meno secondo i cicli scoperti da Ekirch nelle sue ricerche. Dormivano per circa quattro ore, poi si svegliavano poco dopo mezzanotte e rimanevano svegli per due o tre ore, prima di tornare a dormire per altre quattro ore. La misurazione dei loro livelli di melatonina – un ormone che regola il ciclo sonno-veglia – confermò che i loro ritmi circadiani erano cambiati a seguito della diversa esposizione alla luce.
Uno studio simile condotto da Samson nel 2015 in un grande villaggio della comunità di Manadena, nel nord-est del Madagascar, in un luogo privo di infrastrutture per l’elettricità, confermò i risultati dello studio di Wehr. Ma altri studi, tra cui uno condotto in gruppi di cacciatori-raccoglitori in Tanzania, Namibia e Bolivia e un altro in una comunità autoctona di Tanna, nell’arcipelago di Vanuatu, suggerirono che il sonno ininterrotto fosse una pratica presente anche in luoghi privi di illuminazione artificiale.
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Secondo l’ipotesi di Ekirch, dopo la Rivoluzione industriale il sonno bifasico smise progressivamente di essere un’abitudine condivisa. L’illuminazione artificiale più diffusa e potente – prima quella a gas, poi quella elettrica – permise alle persone di rimanere sveglie più a lungo e andare a dormire più tardi, e questo determinò in definitiva una compressione del sonno.
Riguardo alla pratica di dormire in due fasi riemersa dopo la pandemia, il New York Times scrive che non c’è accordo tra i medici su quanto questo comportamento possa essere salutare. «Non conosciamo davvero gli effetti a lungo termine perché non abbiamo molti dati a questo proposito», ha detto Matthew Ebben, docente di neurologia all’unità Weill Cornell Medicine della Cornell University a New York.
Alcune persone che sperimentano il sonno bifasico potrebbero sentirsi più stanche e assonnate durante il giorno. E in generale la pratica di dormire in due periodi distinti richiederebbe comunque di andare a dormire prima, abitudine che si adatta poco ai ritmi delle giornate di molte persone.