In Europa ci sono già varie repubbliche filorusse
Quelle autoproclamate di Luhansk e Donetsk sono le ultime, ma prima c'erano state già l'Ossezia del Sud, l'Abcasia e la Transnistria
Lunedì, pochi giorni prima dell’invasione completa dell’Ucraina, il presidente russo Vladimir Putin ha riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche autoproclamate di Luhansk e Donetsk, nella parte orientale del paese. Lo ha fatto con un lungo discorso in cui ha sostanzialmente negato che l’Ucraina esista come stato indipendente, e in cui ha posto le basi, di fatto, per l’invasione di terra dei giorni successivi, che è stata giustificata come un’operazione di difesa a favore delle due repubbliche del Donbass.
Non è certo la prima volta che la Russia utilizza il riconoscimento di territori separatisti o di minoranze etniche come pretesto per interferire nella politica di un altro stato, o per intervenire militarmente. In Ucraina, vari analisti sono ormai convinti che l’intenzione della Russia sia quella di rovesciare il governo e imporre un nuovo regime più favorevole, trasformando per certi versi l’intero paese in una “repubblica filorussa”.
Da anni, Putin persegue l’obiettivo di ristabilire l’influenza russa nei territori ex sovietici che hanno conservato legami culturali e politici con la Russia. Oltre alle repubbliche autoproclamate di Luhansk e Donetsk, ci sono altri territori che soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica si sono proclamati indipendenti e hanno trovato il sostegno diretto, la complicità e il riconoscimento della Russia.
Ancora oggi, molti di questi territori si definiscono indipendenti ma non sono riconosciuti dalla comunità internazionale, e sono di fatto protettorati della Russia, da cui dipendono dal punto di vista economico, militare e politico. In alcuni di questi territori, tra le altre cose, i cittadini possono acquisire cittadinanza russa, oppure ottenere il doppio passaporto.
Ossezia del Sud
La Georgia è uno stato caucasico che fece parte dell’Unione Sovietica, composto da varie etnie spesso in conflitto tra loro. All’interno del paese ci sono due territori separatisti che durante l’epoca sovietica godettero di ampia autonomia, e che quando l’Unione Sovietica si disgregò nel 1991 iniziarono ad avanzare richieste di indipendenza dalla Georgia. Una di queste è l’Ossezia del Sud, dove vivono circa cinquantamila persone, principalmente di etnia osseta.
L’Ossezia del Sud dichiarò l’indipendenza nel 1991, provocando però la dura reazione repressiva del governo georgiano. Si arrivò allo scontro militare, con l’intervento di milizie volontarie dall’Ossezia del Nord, che si trova in Russia. Il governo georgiano accusò la Russia di aiutare massicciamente le milizie ossete mandando in aiuto mezzi e unità dell’esercito.
Per mesi lo scontro andò avanti a fasi alterne, poi nel 1992 la Russia propose al governo georgiano un cessate il fuoco, firmato a Sochi il 24 giugno. Il governo georgiano accettò anche perché in quel momento la situazione si stava aggravando in un’altra regione separatista, l’Abcasia.
L’accordo di Sochi lasciò l’Ossezia del Sud in una situazione ibrida, divisa tra la Georgia e il governo locale non riconosciuto. Fu insomma una soluzione temporanea e infatti, dopo anni in cui ci furono sporadici episodi di violenza tra le due parti, il conflitto si rianimò nel 2008 in modo ancora più violento rispetto agli anni Novanta. Il casus belli fu una bomba fatta esplodere dalle milizie ossete, che il 1° agosto colpì un contingente georgiano.
Stavolta l’intervento della Russia – già guidata da Vladimir Putin – fu più deciso. L’esercito russo invase il territorio georgiano e in cinque giorni mise fine allo scontro armato. Ci furono centinaia di morti, migliaia di profughi e i rapporti tra Russia e paesi occidentali – Stati Uniti in particolare – attraversarono una nuova fase di ostilità, anche se la risposta occidentale alla guerra in Georgia venne poi giudicata da molti come troppo debole. La Repubblica dell’Ossezia del Sud è riconosciuta da pochissimi paesi: Russia, Siria, Venezuela, Nauru e Nicaragua.
Abcasia
All’estremità occidentale della Georgia c’è un altro territorio separatista. L’Abcasia, come l’Ossezia, ebbe una propria autonomia all’interno dell’ex repubblica sovietica della Georgia. E come accaduto con l’Ossezia, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica questa autonomia portò a rivendicazioni di indipendenza, accentuate peraltro dalle posizioni nazionaliste che andava assumendo il governo georgiano tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.
La Georgia tentò di revocare l’autonomia dell’Abcasia, che però dichiarò l’indipendenza riprendendo l’antica costituzione che era in vigore prima dell’Unione Sovietica, nel 1925. Iniziò una guerra diventata poi nota come la Seconda guerra russo-georgiana (la prima era quella in Ossezia del Sud), a cui parteciparono sia milizie provenienti dal Caucaso del Nord, in particolare dalla Cecenia, sia la Russia, che fornì supporto aereo agli abcasi.
Anche in Abcasia le conseguenze della guerra furono devastanti, ma a differenza dell’Ossezia riuscì a riprendersi più in fretta, per via di maggiori risorse economiche: principalmente il turismo – affaccia sul Mar Nero – e la sua autonomia energetica. L’Abcasia è anche più popolata dell’Ossezia: ci vivono oltre 200mila persone. Dopo la guerra ci furono varie schermaglie con i georgiani, finché nel 2008 la Russia riconobbe l’indipendenza dell’Abcasia. Da allora, per la Georgia, l’Abcasia è ufficialmente un territorio occupato dai russi. Sia in Ossezia del Sud che in Abcasia la Russia mantiene delle forze militari, ufficialmente per operazioni di peacekeeping.
Negli ultimi anni l’Abcasia ha attraversato un ulteriore periodo di instabilità politica. Nel 2014 le politiche di apertura nei confronti delle minoranze etniche georgiane in Abcasia, portate avanti dall’allora presidente Alexander Ankvab, portarono a grosse manifestazioni e alle dimissioni di Ankvab.
Ulteriori proteste ci sono state anche di recente, a dicembre del 2021, organizzate da alcuni movimenti politici che si oppongono all’attuale presidente, Aslan Bzhania. Tra i motivi delle proteste c’è la privatizzazione di una grossa centrale elettrica.
Transnistria
La Transnistria è una sottile striscia di territorio che si trova tra l’Ucraina e la Moldavia. Ci vivono tra le 500 e le 600mila persone e nel corso del Novecento è stata a lungo contesa tra Romania e Unione Sovietica. In periodi diversi ha fatto parte di entrambe, e questo ha contribuito a creare divisioni ancora nette nella popolazione.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica nacque un conflitto tra la Moldavia, che si era appena dichiarata indipendente, e la Transnistria, che aveva fatto lo stesso e che nel 1990 si era distaccata dalla Moldavia per formare una repubblica socialista autonoma. Già dal 1990 c’erano stati conflitti armati a bassa intensità, poi nel 1992 iniziò una guerra vera, combattuta per quattro mesi da truppe separatiste transnistriane sostenute dai russi contro l’esercito moldavo (armato e finanziato dalla Romania). Da allora la Transnistria continua a considerarsi indipendente, anche se di fatto non è riconosciuta da nessuno.
Negli anni seguenti si cercò di trovare una soluzione politica alla situazione transnistriana: nel 2005 iniziò un dialogo multilaterale con la Russia, la Moldavia, l’Ucraina e i paesi dell’OSCE per trovare un accordo sulla creazione di una Moldavia federale di cui facesse parte anche la Transnistria. Ma le trattative arrancarono e nel 2014, con l’annessione della Crimea da parte della Russia, l’ipotesi sfumò definitivamente. Da allora si parla periodicamente di un’ipotetica annessione russa della Transnistria, peraltro chiesta dal capo del parlamento locale nel 2014.
Nagorno-Karabakh
Nel Nagorno-Karabakh l’intervento della Russia è piuttosto recente, e risale alla fine del 2020, anno dopo il quale il territorio caucasico è diventato un ulteriore protettorato russo.
In Nagorno Karabakh ci vivono poco meno di 150mila persone. Si trova formalmente in Azerbaijan ma è controllato dall’Armenia, anche se i contrasti tra i due stati per il controllo del territorio sono continui. Lì si combatté una guerra cominciata a settembre del 2020 e andata avanti per due mesi, al termine della quale la Russia negoziò una tregua con la partecipazione della Turchia. Oggi in Nagorno-Karabakh sono presenti quasi duemila soldati russi, ufficialmente come forza di peacekeeping, ma con un mandato in realtà poco chiaro. Attraverso alcuni checkpoint sparsi per la regione – alcuni lontani dal fronte dove c’erano stati i combattimenti – controllano di fatto il territorio. Ancora una volta la Russia sta distribuendo ai cittadini locali passaporti russi.
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