Quando si viveva con la paura dell’atomica
La minaccia che oggi appare poco plausibile era assai più concreta durante la Guerra fredda, e le precauzioni entrarono in alcuni pezzi della quotidianità
In questi giorni di preoccupazione generale causata dall’aggressione militare della Russia ai danni dell’Ucraina, avvenuta ormai più di una settimana fa, molte persone temono scenari di guerra ancora più gravi e soprattutto estesi di quelli a cui stiamo assistendo. Per quanto la situazione sia imprevedibile, è umano e comprensibile prepararsi al peggio, anche se viene ritenuto assai improbabile un eventuale impiego di armi nucleari nella guerra in corso. È però vero che sia la Russia che gli Stati Uniti e alcuni paesi europei sono tra le più grandi potenze nucleari al mondo, e che Putin ha minacciato gravi ritorsioni in caso di intervento occidentale, facendo riferimenti impliciti alla bomba atomica.
La minaccia nucleare non è però una cosa nuova. L’umanità ci ha convissuto per diversi decenni, durante i quali l’eventualità di una guerra nucleare era considerata molto meno lontana di oggi. C’era la Guerra fredda, la lunga fase di ostilità tra Unione Sovietica e Stati Uniti successiva alla Seconda guerra mondiale, e nei momenti di tensione più acuta – come l’invasione alla Baia dei Porci e la crisi dei missili a Cuba – le persone si abituarono all’eventualità e vennero educate a prendere le contromisure necessarie.
La cosiddetta era atomica iniziò di fatto con le bombe sganciate dall’esercito americano su Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, alla fine della Seconda guerra mondiale. La fissione dell’atomo, che aveva permesso la produzione delle due bombe, era stata scoperta anni prima, nel 1938. Fin da subito vennero intuite le grandi potenzialità di questo processo, che può liberare quantità enormi di energia.
Vennero ipotizzati vari impieghi, tra cui quello militare, poiché si intuì immediatamente il vantaggio competitivo che si poteva acquisire con una tecnologia di tale potenza. E infatti, durante la Seconda guerra mondiale, gli stati maggiori dei vari paesi cercarono in tutti i modi di sviluppare un’arma nucleare prima dei rispettivi nemici. Ci riuscirono gli Stati Uniti grazie al progetto Manhattan, ma dopo la guerra il processo non si arrestò: tanto l’Unione Sovietica quanto Francia e Regno Unito svilupparono le proprie armi nucleari, che vennero affinate e rese ancora più potenti di quelle già devastanti usate in Giappone.
Questo nuovo contesto internazionale in cui comparvero per la prima volta nella storia armi di distruzione di massa portò a un clima mai sperimentato prima, in cui ciascuna potenza mondiale sapeva di rischiare la distruzione totale. Ma paradossalmente proprio questa consapevolezza servì in certe fasi a placare le tensioni per via di quella che è stata chiamata deterrenza nucleare: da un lato le armi nucleari costituivano una minaccia costante, dall’altro però il piazzamento di testate missilistiche ai confini dei due blocchi – occidentale e sovietico – servirono a mostrare il proprio potenziale distruttivo ed evitare lo scontro diretto.
L’efficacia della deterrenza può essere ritenuta ovvia guardandola con gli occhi di oggi, ma allora, specie nei momenti di crisi diplomatica e militare più gravi, non lo era affatto. Negli anni Sessanta per esempio le tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica si acuirono moltissimo, dopo il tentativo fallito da parte degli americani di rovesciare il regime comunista di Fidel Castro, a Cuba, con l’invasione della Baia dei Porci. All’epoca il leader sovietico era Nikita Kruscev, il quale nel 1962, dopo il fallimento dell’invasione americana, costruì a Cuba delle basi per lanciare missili nucleari verso gli Stati Uniti.
Questo periodo fu forse il più teso in assoluto della Guerra fredda, il momento in cui si arrivò più vicini a una guerra nucleare, poi sventata dopo giorni di intensa attività diplomatica.
In quel periodo negli Stati Uniti e in tutto il mondo si diffuse una paura generalizzata. Il 6 ottobre 1961 il presidente americano John Kennedy invitò la popolazione a costruirsi rifugi antiatomici, promettendo che poi il programma di difesa civile avrebbe provveduto a metterli a disposizione per tutta la cittadinanza. Nei giorni della crisi dei missili molti americani si costruirono in breve un rifugio nel giardino di casa e soprattutto fecero una gran scorta di cibo in scatola, per fronteggiare eventuali scarsità di risorse provocate da una guerra nucleare.
Ma già negli anni precedenti, negli Stati Uniti, era stato creato un programma di educazione e propaganda per sensibilizzare la popolazione, insegnando buone pratiche di protezione in caso di attacco. È rimasta celebre per esempio la campagna “Duck and Cover” degli anni Cinquanta, voluta dal presidente Truman, con cui si consigliava ai cittadini ad abbassarsi (duck) e cercare riparo (cover) in caso di attacco.
Fu una pratica un po’ presa in giro, perché nascondersi sotto un tavolo o coprirsi con le braccia serve a poco se l’attacco avviene nelle immediate vicinanze. Ma il governo americano ci investì molto, creando persino un cortometraggio commissionato dalla Difesa, con protagonista Bert la tartaruga che in caso di pericolo «ducks and covers», ritirandosi nel guscio.
Un pericolo simile era avvertito negli stessi anni anche in Europa, che con ogni probabilità sarebbe potuta essere terreno di scontro nucleare, trovandosi al confine tra blocco occidentale e sovietico. La Svizzera, per esempio, nel 1963 introdusse una legge che costringeva case e condomìni a costruire un bunker abbastanza ampio da ospitare tutte le persone residenti. Nel 1976 fu costruito quello che all’epoca era il bunker civile più grande al mondo, a Lucerna, capace di ospitare 20mila persone.
Anche il Regno Unito, che aveva cominciato a costruire rifugi soprattutto a Londra durante i bombardamenti nella Seconda guerra mondiale, avviò una campagna simile a quella statunitense, con produzione di film informativi sul nucleare.
In Italia, un paese considerato particolarmente importante e delicato nell’equilibrio tra i due blocchi, la NATO collaborò strettamente con il governo per istituire piani di emergenza in caso di attacco nucleare. In particolare, in caso di attacco a Roma, il governo doveva essere trasferito immediatamente nel rifugio del monte Soratte, a circa 40 chilometri dalla capitale, che venne attrezzato appositamente.
Come molti altri sparsi sul territorio, il rifugio – una lunghissima galleria scavata a 300 metri di profondità – risale al periodo bellico, tra gli anni Trenta e Quaranta. L’Italia, come gli altri paesi europei interessati dai combattimenti della Seconda guerra mondiale, aveva già una rete di rifugi antiaerei che vennero riadattati a bunker antiatomici nel periodo della Guerra fredda. Tra quelli che furono costruiti appositamente per il rischio nucleare c’è invece il rifugio “West Star”, vicino al lago di Garda, nei pressi del monte Moscal di Affi.