Gli italiani che combattono in Ucraina
Da anni nell'est del paese ci sono militanti comunisti tra i filorussi e soprattutto neofascisti, da entrambe le parti: ora ci si aspetta aumenteranno
Ci sono italiani che stanno combattendo da tempo in Ucraina, soprattutto nelle zone degli stati autoproclamati di Donetsk e Luhansk, nel Donbass: militanti della destra fascista, ma anche della sinistra radicale. I primi sono divisi a metà: una parte di loro combatte a fianco degli ucraini mentre un’altra parte, consistente, combatte con le milizie filorusse. I militanti di estrema sinistra sono invece schierati con i russi o, più precisamente, con le truppe delle repubbliche separatiste. In tutto, in quelle zone, dal 2014 in poi combattono circa 17mila stranieri, 15mila russi e il resto proveniente da tutta Europa.
Non è facile avere una stima di quanti siano gli italiani impegnati sul campo. Nei primi anni della guerra del Donbass erano una sessantina, poi alcuni sono tornati indietro, altri sono rimasti nella zona, altri ancora si stanno dirigendo in Ucraina dall’Italia in questi giorni. «Quello che stiamo notando ora, soprattutto sui social» dice Francesco Marone, ricercatore dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, «è un forte interesse che si sta sviluppando, soprattutto da parte di chi sta valutando l’ipotesi di andare a combattere con le forze ucraine. L’appello del presidente Volodymyr Zelensky a creare una sorta di Brigata internazionale ha fatto breccia ed è stato ripreso addirittura da alcuni ministri degli Esteri europei».
Il ministero della Difesa ucraino ha creato la Legione internazionale: chi vuole farne parte deve rivolgersi all’ambasciata ucraina nel proprio paese. Secondo le autorità di Kiev sono già molti quelli che stanno prendendo contatto, ma non è chiaro se le partenze siano già iniziate. La legione si riunirà e inizierà a operare a Leopoli, a circa 70 km dal confine con la Polonia. Le ambasciate fanno sapere che vengono accettati tutti a patto, pare, che siano incensurati. Non è necessario che abbiano esperienza militare, ma meglio se sono già dotati di equipaggiamento. Sono anche previsti una sorta di rimborso spese e una piccola paga.
Per ora a essere pronti a partire sono soprattutto canadesi, inglesi, australiani, americani. Saranno definiti foreign fighters, anche se, continua Marone, la stessa definizione non è univoca: «la più nota è quella dello studioso David Malet che individua i foreign fighters come stranieri rispetto a entrambi le parti della guerra; motivati principalmente da ragioni differenti da quelle del proprio compenso economico; non inquadrati in forze armate attive nel conflitto. Sulla base di questa semplice definizione, in questa fase i volontari che si unissero alla legione internazionale dell’esercito ucraino non avrebbero il terzo requisito».
Non è un reato andare a combattere all’estero. «Lo diventa», spiega Marone, «se si combatte per organizzazioni terroristiche, come avvenne per i jihadisti. Ma non è questo il caso, nemmeno le milizie filorusse sono considerate terroriste». Commette reato invece secondo l’articolo 288 del codice penale chi «arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero». È prevista come pena «la reclusione da quattro a quindici anni». Dice ancora Marone: «L’atteggiamento di molti governi in questa fase è ancora d’attesa: c’è chi, come la ministra degli Esteri del Regno Unito, Liz Truss, si è però già detta favorevole al fatto che i propri cittadini possano combattere per l’Ucraina.»
Il più celebre tra gli italiani che si sono impegnati militarmente in Ucraina si chiama Andrea Palmeri, soprannominato “Generalissimo”. Ha 42 anni ed è di Lucca, ha un passato come leader dei Bulldog, gruppo egemone nella curva ultras della sua città e militante di Forza Nuova. È latitante in Italia e non fa mistero di trovarsi in Ucraina, più precisamente nelle zone delle autoproclamate repubbliche filorusse dove, dal 2014, ha combattuto con le milizie.
Palmeri ha inviato sui suoi profili social l’ultimo messaggio poche ore fa da Luhansk, scrivendo che prossimamente non avrà modo di farsi sentire molto perché «l’Europa sta riempiendo l’Ucraina di armi letali, l’informazione è invasa da propaganda russofobica e fake news, la mia paura è che si voglia preparare l’opinione pubblica a qualcosa di grosso». Palmeri era già stato condannato in Italia a due anni e otto mesi di carcere per l’aggressione a un militante di sinistra nei primi anni Duemila. Nel 2014 lasciò Lucca, riapparve qualche settimana dopo, in una fotografia, a fianco dei combattenti russi a torso nudo e con un kalashnikov al collo.
Fu poi condannato in primo grado nel 2019 a cinque anni di carcere a Genova, nell’ambito di un’inchiesta sui reclutatori di mercenari da mandare a combattere a fianco dei russi in Ucraina. Il processo di Genova nacque da un’inchiesta del 2013 sull’estrema destra ligure. Ora Palmeri vive stabilmente nell’Ucraina dell’est, è diventato cristiano ortodosso (il 19 gennaio ha festeggiato il santo Battesimo immergendosi nell’acqua ghiacciata) e ha anche cercato di darsi un’immagine meno da combattente, fondando una onlus per aiutare i bambini coinvolti nel conflitto.
Nel Donbass a combattere con i russi ci sarebbero attualmente anche due cittadini lombardi. Massimiliano Cavalleri, 42 anni di Palazzolo, in provincia di Brescia, nome di battaglia Spartaco, è nella zona da anni: sulla sua pagina Facebook si mostra in combattimento e si vanta di essere stato ferito tre volte. Nel 2018 ha raccontato in un’intervista televisiva: «Prima di arrivare nella Repubblica di Luhansk ero a Donetsk. Ho combattuto all’aeroporto per cinque mesi. Là si sparava bene o male tutti i giorni, con fucili, artiglieria, carri armati… Si sparava con tutto, là».
Con lui c’è Gabriele Carugati, nome di battaglia Arcangelo, che ha 32 anni ed è di Cairate, in provincia di Varese, figlio dell’ex segretaria cittadina della Lega. Coinvolto anche lui, come Cavalleri, nell’inchiesta di Genova, ha combattuto a lungo nel Donbass. Da tempo non si hanno però più sue notizie. Quando lasciò casa, famiglia e lavoro nel 2014 disse: «Mi chiedono se ho paura ad andare a combattere, rispondo che non ho paura di morire o rimanere mutilato facendo del bene, ho molta più paura a vivere 100 anni e non aver fatto nulla di buono…».
L’inchiesta di Genova sul reclutamento di mercenari per le milizie filorusse del Donbass aveva coinvolto anche Antonio Cataldo di Nola, ex membro della Legione Straniera francese poi addestrato dai russi nel Kazakistan. Combattè in Libia e poi a lungo nel quarto battaglione motorizzato del Corpo dell’esercito LPR, e cioè Luhansk People Republic. Poi andò in Siria per combattere come miliziano nell’esercito di Bashar el Assad, e infine era ritornato nei territori ribelli in Ucraina. Le sue parole sono riportate da un sito ucraino, poi tradotto in italiano da Ukraine Crisis Media Center: «Non sono un terrorista. Non ho decapitato nessuno. Non ho fatto niente di male se non essere venuto qui per aiutare la popolazione».
Ma dalla parte dei filorussi non ci sono solo estremisti di destra. Si hanno notizie di militanti comunisti che hanno combattuto negli ultimi anni nel Donbass. Edy Ongaro, nome di battaglia Bozambo, partì dall’Italia nel 2015. Sostiene di essere un «internazionalista antifascista impegnato a lottare contro le ingiustizie nel mondo».
Si troverebbe attualmente in Ucraina, inquadrato tra i combattenti filorussi, un uomo partito da Roma e conosciuto come Comandante Nemo. Secondo informazioni delle autorità italiane sarebbe vicino a gruppi di sinistra radicale e al Comitato per il Donbass antinazista, “gruppo italiano a sostegno delle forze che combattono per una Novorossiya libera, socialista, antifascista”.
È stato nel Donbass, a fianco delle forze delle repubbliche autoproclamate, anche Riccardo Sotgia, accusato nel 2020 dalle autorità ucraine di banda armata e spionaggio. Parlando con il Post, Sotgia dice: «È vero, queste sono le accuse ma non ho notizie dell’inchiesta dal 2020». Nega di essere un combattente: «Sono accuse senza riscontro, anche avendo questo onore basterebbe osservare i timbri dei miei visti per constatare che la mia permanenza non sarebbe stata sufficiente. E vale anche per l’accusa di banda armata». Su alcuni media ucraini era uscito il suo nome come ministro di una delle due repubbliche autoproclamate dell’est dell’Ucraina, «ma anche questo», dice, «non è vero. Ho intrattenuto rapporti politici e di solidarietà, come internazionalista, e di carattere materiale, contribuendo all’invio di generi di prima necessità e medicine».
Alla domanda sul perché una persona di sinistra si schieri con le forze russe, Sotgia risponde riproponendo la versione della propaganda putiniana, attribuendo le responsabilità della guerra all’espansione della NATO verso est. «È da ben prima, e mi riferisco alla resistenza nell’est del paese dopo il golpe del 2014 [i russi definiscono golpe la rivoluzione democratica del 2014 di piazza Maidan che depose il presidente filorusso Viktor Yanukovych, ndr], che un comunista e un antifascista ha il dovere di schierarsi con chi lotta contro il fascismo del suo paese, specie se resuscitato e usato dalla NATO per scopi di espansione militare, politica ed economica». Secondo Sotgia «a nessuno piace la guerra, ma la Russia si è trovata con le spalle al muro e umiliata, non ha potuto scegliere altra via».
Su quella che è la situazione sul campo Sotgia parla di un avanzamento delle milizie della LNR (Luganskaja Narodnaja Respublika) e della DNR (Doneckaja Narodnaja Respublika): sostiene abbiano allontanato la linea del fronte, ricongiungendosi con il contingente russo intorno alla città ucraina assediata di Mariupol. Avverte: «In generale devo dire che le reazioni occidentali all’operazione militare russa sembrano sottovalutare, nella loro scelleratezza e prepotenza proterva, lo spettro della guerra nucleare».
Ciò che accade in Ucraina è che militanti comunisti e militanti fascisti si sono trovati assieme a combattere senza apparenti imbarazzi. Molti militanti della destra estrema tra l’altro sono sostenitori di Aleksandr Dugin e delle sue teorie definite in Italia “rossobrune” e nazionalbolsceviche (fu fondatore con lo scrittore Eduard Limonov del Partito nazionalbolscevico), che ipotizzano una convergenza tra l’estremismo di destra e di sinistra in nome di una lotta all’Occidente. Dugin teorizza la necessità di un impero che nasca dall’unione di tutti i popoli di lingua russa in un unico paese.
Se da una parte ci sono comunisti e neofascisti a combattere fianco a fianco coi filorussi, ci sono fascisti italiani che combattono attualmente nel reggimento Azov, un reparto militare che è stato inquadrato nella Guardia Nazionale dell’Ucraina. L’Azov, che ha come simbolo il Wolfsangel adottata dai nazisti, è costituito prevalentemente da volontari appartenenti a movimenti dell’estrema destra ucraina, soprattutto del gruppo neonazista Pravy Sector (Settore destro), e da militanti nazifascisti di tutta Europa. Ci sono anche parecchi esponenti della frangia più violenta del tifo della Dynamo Kiev. Prima era una forza paramilitare autonoma, ma da tempo fa parte a tutti gli effetti dell’esercito ucraino.
Secondo un rapporto degli osservatori Osce e di Amnesty International del 2016, il reggimento Azov è colpevole di aver ucciso prigionieri, di occultamento e distruzione di cadavere e di torture fisiche e psicologiche. Pravy Sector è da anni accusato di avere avuto un ruolo determinante nella strage di Odessa del 2 maggio 2014, quando 42 persone che manifestavano contro la deposizione di Yanukovych morirono nell’incendio alla Casa dei sindacati in cui si erano rifugiati per scappare dalle aggressioni della folla sostenitrice del movimento noto come Euromaidan, filo-occidentale. Cosa successe esattamente in quell’occasione è per molti versi ancora poco chiaro, nonostante diverse indagini giornalistiche.
Il reggimento Azov, che oggi conta circa 1.200 effettivi, fu fondato da Andriy Biletsky, un militare noto con l’appellativo di “führer bianco”. Il governo ucraino di Zelensky non ha mai dimostrato vicinanza ai leader del reggimento, e in generale la presenza di estremisti di destra in Ucraina viene spesso gonfiata dalla propaganda russa: lo stesso Putin ha detto che il suo obiettivo con l’invasione è «denazificare» il paese.
In realtà l’influenza dell’estrema destra sulla politica ucraina è eccezionalmente limitata: alle elezioni del 2019, quelle vinte da Zelensky, tutti i partiti di estrema destra si riunirono in una grande coalizione, di cui faceva parte anche il Corpo nazionale, il partito considerato dipendente dal battaglione Azov. Tutta la coalizione prese appena il 2,15 per cento delle preferenze e non superò la soglia di sbarramento del 5 per cento. Oggi nessun politico di estrema destra o neofascista siede nel parlamento ucraino.
Resta il fatto che in questo contesto di guerra per le autorità ucraine il battaglione Azov è prezioso ed è stato dislocato nell’Europa dell’est.
Ma molti lo considerano un azzardo: Yuri Huymenko, capo del partito-milizia Ascia Democratica, un’altra formazione di estrema destra nata negli ultimi anni e vicina agli uomini del reggimento Azov, ha già detto che «se qualcuno nel governo ucraino cerca di firmare le trattative con la Russia, un milione di persone scenderà in strada e quel governo cesserà di essere il governo».
Del battaglione Azov ha fatto parte un noto neofascista italiano, F. F., conosciuto come Stan, che nel 2015 disse alla Stampa: «All’incendio seguirono due giorni di scontri furibondi. Centinaia di separatisti erano accorsi in città e girava voce che l’esercito russo stesse per attaccarci dalla Crimea: se così fosse stato, non avremmo avuto scampo». Alcuni anni fa diede poi un’intervista al Corriere della Sera: «Il nostro è un reggimento prima politico e poi militare, siamo contro il governo ucraino ma difendiamo la popolazione. Ma anche se la nostra ideologia è ferrea dipendiamo in qualche modo dal ministero della Difesa ucraino e siamo uniti alla Guardia Nazionale: mi hanno messo “in regola” e sono al riparo anche dalle leggi internazionali».
F. F. spiegava poi che nell’Azov c’erano moltissimi foreign fighters: russi, francesi, slavi e italiani. Al giornalista Fausto Biloslavo, nel 2015, raccontava di essere stato membro negli anni Settanta in Italia di Avanguardia Nazionale, il movimento fondato da Stefano Delle Chiaie.
«La divisione tra varie anime della destra fascista non è una sorpresa» dice ancora Marone, «d’altra parte anche in Italia, fin dall’inizio delle ostilità nell’Ucraina dell’est, CasaPound sviluppò per esempio simpatie e contatti con il Reggimento Azov mentre Forza Nuova è da sempre legata alle formazioni filo-russe».
Che appartenenti alla destra fascista si dividano dalla parte opposta di un conflitto non è una novità. Accadde già negli anni Novanta. Nel 1991 Andrea Insabato, neofascista italiano che il 22 dicembre 2000 compì un attentato alla sede del Manifesto in via Tomacelli a Roma, si dava da fare per arruolare “camerati” disposti ad «andare a combattere nei Balcani per la sorella Croazia». Nacque in quegli anni la Legione Nera, composta da neofascisti di tutta Europa. Dall’altra parte però, nelle file dell’esercito serbo, combattevano altri fascisti, anche se in misura minore, inquadrati nelle milizie cetniche soprattutto nella guerra in Kosovo.
Difficile prevedere quanto si svilupperà nelle prossime settimane il fenomeno degli stranieri che raggiungono l’Ucraina per combattere. Dice ancora Marone: «Non va esagerato il pericolo ma nemmeno sottovalutato: una parte consistente dei foreign fighters partiti per l’Ucraina ha posizioni politiche estremistiche e ha persino manifestato un sentimento di intensa ostilità nei confronti di valori e istituzioni dell’Occidente».
Alcune delle persone che nel 2019 tentarono un golpe filorusso in Montenegro erano foreign fighters di ritorno dall’Ucraina. Ci sono poi casi di suprematisti bianchi americani che sono andati a combattere con le formazioni paramilitari ucraine. Di uno di loro, Craig Lang, ex soldato dell’esercito statunitense, è stata richiesta l’estradizione per aver commesso in patria un duplice omicidio. Marc de Cacqueray-Valmenier, giovane francese che ha combattuto con le milizie ucraine, una volta tornato in Francia fu protagonista di parecchi episodi di violenza politica. A capo del gruppo neonazista Les Zouaves, è anche stato tra gli animatori più decisi delle proteste dei gilet gialli. Ora è in carcere per gli incidenti avvenuti il 5 dicembre durante un comizio del candidato di estrema destra alle presidenziali Éric Zemmour.
«La situazione», conclude Marone, «è da tenere sotto controllo. Come già accaduto nel 2014-2015, a partire per l’Ucraina potrebbero essere anche militanti estremisti, potenzialmente pericolosi per i loro stessi paesi di origine e per altri stati».