Quando l’Ucraina era la terza potenza nucleare al mondo
Dopo la fine dell'Unione Sovietica il paese si disfece delle armi in cambio della garanzia che i suoi confini sarebbero stati rispettati: non è andata così
Nelle ultime settimane di crisi in Ucraina, e in questi giorni di invasione del paese da parte della Russia, vari analisti hanno ricordato che l’Ucraina, per pochi anni dopo la fine dell’Unione Sovietica, fu una delle più grandi potenze nucleari del mondo. Questa condizione terminò nel 1994 con il Memorandum di Budapest: l’accordo con cui l’Ucraina acconsentì a disfarsi delle armi nucleari rimaste sul suo territorio dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, in cambio della garanzia che i suoi confini sarebbero stati sempre rispettati, tanto dalla Russia quanto dall’Occidente.
Com’è ovvio, quell’accordo è stato platealmente violato dal presidente russo Vladimir Putin, sia con l’invasione di questi giorni sia nel 2014, quando la Russia invase e annetté la penisola di Crimea. Oltre a chiedersi cosa sarebbe successo se l’Ucraina avesse tenuto le sue armi atomiche, vari analisti hanno notato che questo non è per niente un segnale incoraggiante per il processo di disarmo nucleare di altri paesi del mondo.
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Il memorandum del 1994 non riguardava soltanto l’Ucraina, ma anche il Kazakistan e la Bielorussia: tutti stati diventati indipendenti dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica (nel 1991), e che si trovarono ad avere sul proprio territorio una serie di armi nucleari che erano appartenute all’URSS. Dei tre stati in questione, l’Ucraina era quello che ne aveva di più: con circa 1.800 ordigni nucleari di vario tipo, la neonata Ucraina si trovò a essere la terza potenza nucleare del mondo.
All’accordo – firmato con Russia, Stati Uniti e Regno Unito – si arrivò solo dopo lunghi negoziati, più accordi e numerosi dibattiti: benché il controllo operativo degli ordigni nucleari presenti sul territorio ucraino fosse in mano soprattutto alla Russia, infatti, l’Ucraina esitò molto di più del Kazakistan e della Bielorussia prima di convincersi a disfarsene: tutte quelle armi, di fatto, rendevano senza alcuno sforzo l’Ucraina uno stato forte e temibile, che entrava nel sistema della deterrenza nucleare e che avrebbe potuto preservarsi da attacchi e invasioni.
Il primo passo per arrivare al memorandum di Budapest del 1994 fu la firma, nel 1992, del trattato START I (Strategic Arms Reduction Treaty). Il trattato era stato originariamente firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica, che però si era sciolta appena cinque mesi dopo: i suoi obblighi furono quindi assunti dagli stati che ne avevano ereditato le armi.
L’Ucraina accettò di firmarlo solo dopo numerosi e accesi dibattiti interni e si impegnò, come il Kazakistan e la Bielorussia, a smaltire le armi nucleari sul proprio territorio entro sette anni per poi aderire, come stato non-nucleare, al Trattato di non proliferazione nucleare (trattato del 1968 in cui gli stati che non hanno armi nucleari si impegnano a non dotarsene).
Tra la firma e la ratifica del trattato START I, però, ci fu una serie di altri dibattiti in Ucraina, sia sulle modalità con cui disfarsi delle armi nucleari che sulla possibilità di mantenterne almeno una parte. Alla fine, e anche a seguito delle pressioni degli Stati Uniti, l’Ucraina accettò di ratificare il trattato START I e di smaltire tutte le armi nucleari presenti sul proprio territorio in cambio di sostegno economico e di una serie di garanzie.
Prima di aderire al Trattato di non proliferazione nucleare, però, l’Ucraina pretese ulteriori garanzie sulla propria sicurezza e sul rispetto dei propri confini, garanzie che le vennero date proprio con il memorandum di Budapest del 1994, il cui titolo completo era “Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza”.
Il memorandum, in sintesi, comprendeva 6 punti: che i paesi firmatari (Russia, Stati Uniti e Regno Unito) avrebbero rispettato la sovranità, l’integrità territoriale e i confini esistenti dell’Ucraina; che non l’avrebbero attaccata se non per difendersi; che non avrebbero adottato misure di coercizione economica per piegarla al proprio volere; che non avrebbero usato armi nucleari contro di lei (a meno che l’Ucraina non li avesse attaccati alleandosi o associandosi in qualche modo con uno stato armato nuclearmente); che l’avrebbero assistita se fosse stata attaccata con armi nucleari; e che, in sostanza, avrebbero fatto in modo che tutti questi punti venissero rispettati, consultandosi nel caso in cui fossero sorti problemi in relazione agli accordi presi.
L’accordo non obbligava i paesi firmatari a intervenire in difesa dell’Ucraina nel caso in cui fosse stata attaccata: la formula usata, «fornire assistenza» era piuttosto vaga, e comunque non vincolante, come lo è l’articolo 5 del trattato della NATO, di cui l’Ucraina non fa parte.
Ma la questione più importante, soprattutto alla luce di quello che sta succedendo oggi, è che con quell’accordo la Russia si impegnava a non minacciare mai la sovranità nazionale e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Ed è solo in cambio di molte rassicurazioni in questo senso, ribadite e riformulate in vari modi, che l’Ucraina accettò di disfarsi del grosso arsenale nucleare a sua disposizione (cosa che finì di fare nel 1996). Rassicurazioni che Stati Uniti e Russia offrirono nuovamente nel 2009, con una dichiarazione congiunta in cui dicevano che il contenuto del memorandum di Budapest sarebbe stato rispettato anche dopo la scadenza del trattato START I.
La prima volta che la Russia violò gli accordi di Budapest fu nel 2014, con l’invasione e l’annessione della penisola di Crimea. Alle accuse di Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina, il ministro degli Esteri russo rispose che «le rassicurazioni sulla sicurezza [dell’Ucraina] erano state date al governo legittimo dell’Ucraina, e non alle forze politiche salite al potere con un colpo di stato». Il governo russo si riferiva al governo nominato con la rivoluzione di Euromaidan.
E quando Stati Uniti e Regno Unito si accordarono per incontrarsi con la Russia a Parigi per discutere, come previsto dall’ultimo punto dell’accordo, della situazione, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che pure si trovava a Parigi, non si presentò.
La seconda volta in cui la Russia ha violato quegli accordi è oggi, con l’invasione su larga scala, e da più fronti, dell’Ucraina.
Secondo Mariana Budjeryn, esperta di armamenti nucleari dell’Università di Harvard, nell’opinione pubblica ucraina c’è un certo rammarico rispetto alla scelta fatta con gli accordi di Budapest. Tenere e mantenere quell’arsenale nucleare, ha detto Budjeryn a NPR, sarebbe stato costoso e rischioso, ma la «narrazione pubblica dell’Ucraina è “avevamo il terzo arsenale nucleare più grande del mondo, lo abbiamo ceduto per questo pezzo di carta, e guardate cosa è successo”».
È anche per questo che in questi giorni si parla molto del memorandum di Budapest del 1994. Come ha scritto The Intercept, la guerra in corso è un segnale tutt’altro che incoraggiante per quanto riguarda le politiche del disarmo nucleare: vedendo cosa è successo all’Ucraina, i paesi più piccoli che possiedono armi nucleari, che mirano ad averne come l’Iran o che, come la Corea del Nord, stanno lavorando per potenziare il proprio arsenale, saranno molto meno inclini a disfarsene in cambio di garanzie di pace e stabilità.
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