Le femministe russe contro la guerra e Putin
Sono tra le poche forze di opposizione rimaste attive in Russia, e in un appello chiedono sostegno dagli altri paesi
I movimenti femministi russi sono tra i pochi nella Russia contemporanea a non essere stati colpiti dalle persecuzioni del governo di Vladimir Putin nei confronti degli oppositori politici. Questo, nonostante proprio la Russia abbia contribuito a creare e a finanziare le reti transnazionali che, nei diversi paesi del mondo e con importanti connessioni politiche, si battono contro i diritti delle donne e delle persone LGBT+.
La storia del femminismo, in Russia, è piena di paradossi. Le basi dell’uguaglianza tra i sessi, almeno formalmente, vennero poste durante l’epoca della rivoluzione d’ottobre e poi in epoca sovietica. A quel tempo, le donne russe si videro riconosciuti alcuni diritti che erano estremamente all’avanguardia per l’epoca e in altri paesi del mondo: il diritto di voto nel 1917, il diritto di aborto nel 1920 (anche se venne nuovamente negato tra il 1936 e il 1955), servizi di assistenza all’infanzia e generosi congedi di maternità. La stessa Costituzione sovietica del 1936 dichiarò la parità tra uomini e donne.
Da un punto di vista sostanziale, però, per le donne la vita restò sempre molto complicata e la società russa continuò a rappresentare un modello conservatore e patriarcale, oggi pubblicamente difeso e rivendicato non solo dalla Chiesa ortodossa, che ha definito il femminismo un “peccato mortale”, ma anche dal presidente Vladimir Putin: «Qui le donne hanno un unico ruolo: quello di essere asservite e silenziosamente sottomesse», ha scritto qualche tempo fa la giornalista russa Yevgenia Albats.
Putin è noto per le sue opinioni apertamente omofobe e antifemministe. Sotto la sua presidenza sono state approvate una legge che vieta la diffusione ai bambini di informazioni sull’omosessualità e una per depenalizzare la violenza domestica. È stato proposto di escludere l’aborto dal sistema sanitario nazionale, rendendolo dunque un intervento a pagamento, e di inserire nella Costituzione il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Nell’ultimo decennio la Russia ha inoltre sostenuto e finanziato vari gruppi di pressione legati ad alcuni movimenti populisti di destra e conservatori, i cui obiettivi sono ristabilire un presunto “ordine naturale”, opporsi al divorzio, all’accesso ai contraccettivi, all’aborto, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso. Le loro strategie e le loro connessioni politiche, anche con l’Italia, sono state scoperte e raccontate da diverse inchieste giornalistiche e da due report in particolare: “Ristabilire l’ordine naturale” e “Modern-day crusaders in Europe”, scritti da Neil Datta, segretario dell’European parliamentary forum for sexual and reproductive rights (EPF, un gruppo di parlamentari europei con base a Bruxelles).
Nonostante questa situazione, le femministe sono una delle poche forze politiche di opposizione rimaste attive in Russia, grazie anche al fatto di non aver creato, negli anni, un movimento più ampio, compatto e unitario. L’unico gruppo che, nel tempo, è stato perseguitato da Putin è quello delle Pussy Riot, un collettivo di dissidenti che, pur impegnandosi contro il regime sessista del presidente, sono spesso finite al centro delle critiche della comunità femminista russa: per i metodi utilizzati, per il linguaggio scelto e, in generale, per l’accusa di aver costruito un’operazione che potesse ottenere un successo soprattutto mediatico all’estero, più che un cambiamento reale della condizione delle donne nel proprio paese.
La rivista Jacobin ha tradotto e pubblicato l’appello contro l’occupazione e la guerra in Ucraina dei movimenti femministi, nel quale dicono che le autorità russe non li hanno percepiti «come un movimento politico pericoloso», e che quindi rispetto ad altri gruppi politici sono «state temporaneamente meno colpite dalla repressione statale. Attualmente più di quarantacinque diverse organizzazioni femministe operano in tutto il paese, da Kaliningrad a Vladivostok, da Rostov sul Don a Ulan-Ude e Murmansk».
Nel loro manifesto, i movimenti tracciano una semplice e lineare analisi politica di quanto sta accadendo in Ucraina: «Il 24 febbraio, intorno alle 5:30 ora di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato un’operazione speciale sul territorio dell’Ucraina per “denazificare” e “smilitarizzare” questo stato sovrano». L’operazione, spiegano, «era in preparazione da tempo. Per diversi mesi le truppe russe si sono spostate fino al confine con l’Ucraina. Nel frattempo, la dirigenza del nostro paese negava ogni possibilità di attacco militare. Ora sappiamo che si trattava di una menzogna».
La Russia, proseguono, «ha dichiarato guerra» all’Ucraina, «non ha concesso all’Ucraina il diritto all’autodeterminazione né alcuna speranza di una vita pacifica». Per loro, la guerra «è stata condotta negli ultimi otto anni su iniziativa del governo russo. La guerra nel Donbass è una conseguenza dell’annessione illegale della Crimea. Crediamo che la Russia e il suo presidente non siano e non siano mai stati preoccupati per il destino delle persone a Luhansk e Donetsk, e il riconoscimento delle repubbliche dopo otto anni è stato solo una scusa per l’invasione dell’Ucraina con il pretesto della liberazione».
«Come cittadine russe e femministe» dichiarano dunque di condannare «questa guerra», e ne spiegano il motivo:
«Il femminismo come forza politica non può essere dalla parte di una guerra di aggressione e occupazione militare. Il movimento femminista in Russia lotta per i soggetti più deboli e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non ci può essere spazio per la violenza e i conflitti militari.
Guerra significa violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza e mancanza di futuro. Tutto ciò è inconciliabile con i valori e gli obiettivi essenziali del movimento femminista. La guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale: come dimostra la storia, durante la guerra il rischio di essere violentata aumenta di molto per qualsiasi donna».
La guerra in corso, proseguono, «è anche combattuta all’insegna dei “valori tradizionali” dichiarati dagli ideologi del governo, valori che la Russia avrebbe deciso di promuovere in tutto il mondo come missione, usando la violenza contro chi rifiuta di accettarli o intende mantenere altri punti di vista. Chiunque sia capace di pensiero critico comprende bene che questi “valori tradizionali” includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, autoidentificazione e azioni non sono conformi alle ristrette norme del patriarcato».
In conclusione, avvertendo di essere «a rischio di persecuzione da parte dello stato», chiedono ai diversi gruppi femministi locali di unirsi nella resistenza contro la guerra. È necessario, dicono, che le femministe di tutto il mondo partecipino a manifestazioni pacifiche e lancino campagne «contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin, organizzando le proprie azioni». Chiedono di usare gli hashtag #FeministAntiWarResistance e #FeministsAgainstWar, di diffondere informazioni sulla guerra e di condividere, infine, questo stesso appello con altre.