Le sanzioni funzionano?
Se lo stanno chiedendo in tanti dopo quelle annunciate contro la Russia: dipende dal tipo di sanzioni, e dalla forza economica di chi le impone
Martedì sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno annunciato l’imposizione di alcune sanzioni economiche contro la Russia, in risposta all’operazione militare avviata dal presidente russo Vladimir Putin nei territori dell’Ucraina orientale occupati dai ribelli separatisti. L’imposizione di sanzioni era stata, fin dall’inizio della crisi al confine ucraino, una delle minacce principali fatte dall’Occidente alla Russia nel caso di un’invasione. L’utilità e l’efficacia di queste sanzioni, però, è molto discussa e tutt’altro che scontata: dipende da molte variabili, compreso quanto i paesi che le emettono sono disposti a rischiare ripercussioni sulla loro economia.
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Le sanzioni annunciate martedì sera dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea sono mirate e piuttosto specifiche: soprattutto nel caso dell’Unione Europea riguardano soggetti coinvolti a vario titolo nelle azioni militari nelle repubbliche autoproclamate dell’est dell’Ucraina, più singoli personaggi politici russi. Tra questi, scrive Politico, ci sono per esempio 351 parlamentari russi che hanno votato a favore del riconoscimento delle repubbliche autoproclamate, gli 11 parlamentari che hanno promosso l’iniziativa, una serie di banche russe e gli stessi territori autoproclamati, che non potranno più avviare commerci con l’Unione Europea. Le sanzioni annunciate dagli Stati Uniti, invece, riguarderanno il debito pubblico della Russia, due tra i principali istituti finanziari del paese e alcune famiglie che appartengono alla classe dirigente russa.
Sia il presidente americano Joe Biden sia la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno comunque fatto capire che quelle approvate martedì sono soltanto una prima porzione di sanzioni, e che se la situazione al confine tra Russia e Ucraina dovesse peggiorare ne seguiranno altre.
Sull’utilità e l’efficacia di queste sanzioni si è già aperto un notevole dibattito, che riguarda sia questioni di ordine generale sia altre più legate allo specifico contesto della crisi ucraina.
In generale, l’efficacia delle sanzioni come strumento di politica estera è molto dibattuto, ormai da anni, da economisti ed esperti di politica internazionale. In linea teorica le sanzioni sono uno strumento potente e molto efficace: permettono di attuare una politica estera aggressiva e di esercitare pressioni su un altro stato in situazioni in cui la diplomazia tradizionale è insufficiente, ma in cui l’intervento militare sarebbe esagerato o troppo rischioso. Per questo motivo le sanzioni sono diventate l’arma più utilizzata in tutte le principali questioni internazionali che vedono l’Occidente contrapposto ad altri paesi: dall’Iran alla Russia, fino a Corea del Nord, Venezuela e Cina.
In alcuni casi le sanzioni hanno effettivamente portato a buoni risultati, benché in molti casi provvisori: servirono per esempio all’ex presidente americano Barack Obama per fare forti pressioni sull’Iran e riuscire ad aprire il negoziato sul nucleare (da cui il suo successore, Donald Trump, era poi uscito); hanno permesso a Trump, assieme ad altri strumenti, di ridurre enormemente la presenza sul mercato occidentale dell’azienda tecnologica cinese Huawei, considerata dagli Stati Uniti un pericolo per la sicurezza; e anche nel caso specifico della Russia le sanzioni sono state utili negli anni passati: tra le altre cose, quelle imposte dopo l’invasione della Crimea nel 2014 contribuirono ad aprire la strada ai negoziati di pace di Minsk, che poi la Russia ha palesemente disconosciuto con l’invasione di questa settimana.
Ma in molti casi i risultati delle sanzioni sono mediocri e spesso deludenti, soprattutto a causa dell’eccessiva facilità, frequenza e per certi versi vaghezza con cui l’Occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, le usano per intervenire nelle crisi internazionali.
Nel corso degli ultimi vent’anni, l’utilizzo delle sanzioni da parte soprattutto degli Stati Uniti è diventato quasi indiscriminato: la lista di soggetti sanzionati dal dipartimento del Tesoro americano è quasi raddoppiata in pochi anni, passando dai circa 6mila soggetti del 2014 ai quasi 10mila del 2021.
Contestualmente, le sanzioni sono diventate sempre più raffinate e complesse. Se durante la Guerra fredda e fino agli anni Novanta erano misure piuttosto ampie, che miravano a colpire grandi settori dell’economia di un paese, negli ultimi vent’anni si sono fatte sempre più mirate e specifiche, con l’obiettivo di colpire singoli asset finanziari o singoli personaggi o aziende.
Circa dieci anni fa, l’amministrazione di Barack Obama cominciò inoltre a fare largo uso (soprattutto contro l’Iran) delle cosiddette “sanzioni secondarie”, che non penalizzano direttamente il soggetto sanzionato ma chiunque faccia affari con lui. Quando un ente è colpito da sanzioni secondarie (per esempio: le Guardie rivoluzionarie iraniane) sono penalizzati ed effettivamente soggetti a sanzione tutti coloro con cui l’ente intrattiene rapporti economici. Nel caso delle Guardie rivoluzionarie, possono essere le banche che ospitano i conti correnti dei leader del gruppo, i donatori internazionali o i rivenditori di armi e altro materiale.
Il risultato di questo progressivo affinamento degli strumenti sanzionatori è che ben presto i governi hanno cominciato ad abusarne: oggi gli Stati Uniti hanno attive decine di programmi di sanzioni, alcuni dei quali in corso da molti anni (come per esempio sanzioni contro chi «minaccia gli sforzi internazionali di stabilizzazione dei Balcani occidentali», risalenti al 2001) e che in buona parte hanno perso il loro scopo iniziale. Questi problemi si sono accentuati con l’amministrazione Trump, che ha cominciato a usare le sanzioni confusamente, in maniera esagerata, per rispondere a obiettivi di politica estera già spesso imprecisi. Questo ha creato tutta una serie di problemi anche dal punto di vista legale, e ha reso difficili gli affari di molte multinazionali americane all’estero.
A complicare le cose c’è anche il fatto che l’efficacia delle sanzioni dipende dal controllo che chi le impone ha sul sistema economico e finanziario mondiale: dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi questo controllo è stato quasi totalmente mantenuto dagli Stati Uniti, ma le cose stanno cambiando, soprattutto con l’ascesa della Cina come potenza economica mondiale. Sebbene sia ancora molto solido, il dominio degli Stati Uniti sull’economia globale sta lentamente ma costantemente regredendo, e allo stesso modo anche la capacità americana di influenzare l’economia di altri stati.
Russia e Cina, peraltro, da anni si sforzano per cercare di rendersi il più immuni possibile dalle sanzioni americane, accumulando grandi quantità di riserve economiche (per esempio di oro) e riducendo l’esposizione delle loro economie a quelle dell’Occidente.
Per queste ragioni, oggi molti analisti considerano le sanzioni come un’arma poco efficace, resa inoffensiva dagli abusi che l’Occidente stesso ne ha fatto nel corso degli anni.
L’amministrazione del presidente americano Joe Biden è piuttosto consapevole di questi problemi, e con la crisi ucraina di questi mesi aveva cercato di riportare le sanzioni alla loro efficacia originaria.
Nelle scorse settimane, senza mai dire esplicitamente che tipo di provvedimenti avrebbe preso, aveva fatto capire che in caso di invasione dell’Ucraina le sanzioni contro la Russia sarebbero state durissime e molto estese, e che, come un tempo, avrebbero colpito l’economia russa nel loro complesso, non si sarebbero limitate a misure mirate contro singoli individui e istituzioni, avrebbero messo in grossa difficoltà il regime di Vladimir Putin e avrebbero potuto costituire un deterrente economico solido. Queste sanzioni, però, non sono ancora state attivate.
L’occupazione di territori ucraini di fatto già controllati dalla Russia (cioè le repubbliche ribelli del Donbass) ha per certi versi spiazzato l’Occidente, che davanti a un’invasione incerta e tutto sommato ibrida ha preferito utilizzare ancora una volta sanzioni mirate e tutto sommato poco efficaci, limitandosi a minacciare sanzioni più estese in caso di ulteriori manovre militari russe.
Gli esperti sono piuttosto concordi nel sostenere che, con la Russia, queste sanzioni mirate non possano funzionare, ma che invece avrebbero un impatto molto maggiore sanzioni estese, capaci di danneggiare l’economia russa e mettere sotto pressione Putin all’interno del proprio paese: se l’elettorato russo dovesse cominciare a mostrare malcontento, il presidente russo potrebbe essere spinto a ridurre la propria aggressività militare.
Imporre sanzioni estese contro la Russia è tuttavia una decisione politica piena di conseguenze anche per i paesi occidentali che decidessero di imporle, che rischierebbero di danneggiare la propria economia: la Russia è un paese piuttosto integrato nel sistema mondiale, e danneggiare la sua economia, i suoi commerci e le sue esportazioni significherebbe colpire i paesi con cui intrattiene rapporti economici, compresa la gran parte dei paesi europei. Questo senza contare il rischio di una controrisposta russa, che potrebbe comportare un’interruzione delle esportazioni di gas verso l’Europa in un periodo di costi altissimi per reperire l’energia.
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