Perché l’Europa è così debole, sull’Ucraina
C'entra la dipendenza dal gas russo, certo: ma non solo
di Luca Misculin
Prima che la situazione al confine fra Russia e Ucraina precipitasse, la comunità internazionale aveva fatto diversi tentativi per evitare una escalation. Un pezzo dei negoziati era stato condotto dagli Stati Uniti, in quanto leader informali della NATO, la principale alleanza militare dei paesi occidentali. Ma la gran parte degli sforzi era stata affidata ai leader europei. In pochi giorni avevano incontrato o parlato al telefono col presidente russo Vladimir Putin tutti i principali capi di stato e di governo europei.
Eppure non è servito a nulla. Lunedì Putin ha ordinato al proprio esercito di entrare nei territori dell’Ucraina orientale controllati dai separatisti. Poche ore dopo sono arrivate fermissime condanne dell’operazione, a parole. E in parallelo una serie di sanzioni giudicate troppo timide dagli osservatori ancora prima che venissero ufficialmente approvate. Quasi nessuno si aspetta che l’Europa risolva la crisi in corso. Eppure sarà proprio l’Europa a subirne le conseguenze peggiori, comunque vada a finire: come hanno notato in molti, non esistono più soluzioni davvero accettabili.
Certo, il rapporto dei paesi europei con la Russia è pesantemente condizionato dal gas. Secondo i dati più recenti di Eurostat, nel 2019 l’Unione Europea importava il 41,1 per cento del suo gas naturale dalla Russia. Ma la dipendenza energetica racconta solo un pezzo delle ragioni della debolezza dimostrata in questi giorni dall’Europa.
Dalla fine della Guerra fredda l’Europa ha cercato di costruire un nuovo rapporto con la Russia, cercando di avvicinarla sempre di più al modello economico-sociale europeo. «L’obiettivo di questa strategia era una specie di “Russia Europea”», ha spiegato di recente il politologo Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center: «cioè una Russia che avrebbe progressivamente accettato le norme e i princìpi elaborati dall’Unione Europea nella propria politica, economia e società, e che avrebbe cooperato strettamente con l’Unione nella propria politica estera. In altre parole, hanno immaginato la Russia non come un membro dell’Unione – neppure un candidato, come la Turchia – ma come un partner permanente».
Questo obiettivo si è ormai sgretolato da una decina d’anni. Da quando cioè si è capito che la Russia di Putin non aveva alcuna intenzione di aderire al ruolo subalterno che l’Europa le aveva ritagliato, e che anzi intendeva restaurare l’antica area di influenza che apparteneva all’Unione Sovietica. Putin lo disse esplicitamente nel citatissimo discorso tenuto nel 2007 all’annuale Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, e lo rese chiaro nel 2008, quando invase l’Ossezia del Sud, in Georgia, per aiutare un gruppo indipendentista filorusso.
Da allora l’Europa non ha più trovato un approccio condiviso nei confronti della nuova aggressività russa, limitandosi a sperare che prima o poi Putin avrebbe cambiato idea: o dietro la pressione degli abitanti della Russia rurale, povera e indietro anni luce ai paesi europei per qualità della vita, oppure della classe media urbana, desiderosa di replicare il modello di sviluppo occidentale. O ancora, più semplicemente, che Putin rinsavisse.
Ma Putin in questi anni ha dimostrato di non agire secondo parametri che gli europei considerano razionali. La Russia ha una spesa militare altissima, un’economia che non produce nulla di innovativo o particolarmente richiesto tranne i combustibili fossili, una demografia insostenibile sul lungo periodo. E negli anni Putin ha fatto scelte assai spregiudicate nella propria politica interna ed estera. Eppure è rimasto saldamente al potere, con qualche crepa appena evidente. È evidente che in Russia non si applicano le regole di potere e consenso che invece sono valide in Europa; forse anche grazie alla colossale macchina della propaganda statale, di cui fino a pochi anni fa si aveva poca coscienza.
I paesi europei e l’Unione Europea, però, si sono affidate a una sorta di pensiero magico, prendendo una serie di decisioni utili a evitare crisi e tensioni nel breve termine, ma che sul lungo periodo hanno inclinato il piano a favore della Russia.
La scelta di comprare forniture sempre più ingenti di gas naturale russo aveva senso per avvicinare sempre di più la Russia all’Europa. Era stata la grande scommessa di Angela Merkel, l’unica politica occidentale che in tutti questi anni ha mantenuto un dialogo costante con Putin. Secondo alcuni, il ragionamento di Merkel era il seguente: maggiori legami la Russia riuscirà a sviluppare con l’Europa, anche solo di tipo commerciale, minori saranno le possibilità che la Russia si isoli sempre di più dal mondo occidentale. Come sostiene una dottrina politica di grande successo, infatti, l’interdipendenza è garanzia di pace e stabilità, mentre l’isolamento alla lunga porta a incomprensioni e conflitti.
Certo, in questo modo anche la Russia è diventata in qualche modo dipendente dal mercato europeo, che ogni anno garantisce entrate di 50 miliardi di euro soltanto per il gas naturale. Ma anticipando un eventuale peggioramento delle relazioni, che alla fine è avvenuto davvero, ha preso le dovute contromisure, come faceva notare qualche settimana fa il Financial Times:
«Già dal 2015 il governo russo ha obbligato i propri cittadini più ricchi a far rientrare in Russia il proprio patrimonio, vietando ulteriori esportazioni all’estero. Mosca ha anche accumulato riserve d’oro e di valute straniere per circa 546 miliardi di euro, dei quali soltanto un sesto è in dollari. Le entrate derivanti da petrolio e gas naturale sono state parzialmente convogliate in un fondo sovrano da 167 miliardi di euro, mentre il proprio debito pubblico rappresenta appena il 20 per cento del PIL».
In altre parole: la Russia ha molto meno bisogno dell’Europa di quanto l’Europa abbia bisogno della Russia. Così facendo, fra l’altro, si è anche messa sempre più al riparo dalle sanzioni occidentali.
Nel 2014, quando migliaia di soldati russi in incognito invasero e occuparono la Crimea, l’Europa rispose con sanzioni economiche piuttosto dure, e ottenne di escludere il presidente russo dalle riunioni del G8. La linea di pensiero era sempre la stessa: prima o poi la forza di gravità delle misure prese avrebbe costretto Putin a tornare sui propri passi.
Nel brevissimo termine l’Europa aveva evitato di innescare una guerra aperta. Intanto però non stava seguendo l’esempio della Russia, magari accelerando notevolmente la transizione verso le energie rinnovabili o cercando di diversificare i paesi da cui acquistare gas naturale. Anzi.
– Leggi anche: Possiamo produrre più gas?
Fra il 2015 e il 2021 la quota di gas naturale proveniente dalla Russia sul totale fra prodotto e importato all’interno dell’Unione Europea ha registrato un lieve aumento. E in alcuni dei paesi più grandi, come ha notato Federico Fubini sul Corriere della Sera di mercoledì, la stima è notevolmente aumentata: «La quota russa nell’import tedesco di gas è passata dal 41 per cento del 2014 al 49 per cento del 2019, fino al 65 per cento del 2020. Quella italiana è salita dal 43 per cento al 47 per cento».
Al contempo si è inceppato un processo che sembrava irreversibile, cioè l’adesione all’Unione Europea dei paesi dell’Europa centrale e orientale che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica o del Patto di Varsavia. La forza di attrazione dell’Unione è rimasta la stessa – per un paese piccolo e povero aderire all’UE significa avere accesso a opportunità impensabili, da fuori – ma all’interno dell’Unione si è rafforzata la percezione che ad alcuni paesi sia stato permesso di entrare nonostante i tempi non fossero ancora maturi.
Sono proprio i paesi dell’Europa centro-orientale, come per esempio sottolinea spesso il presidente francese Emmanuel Macron, che oppongono resistenza a maggiori cessioni di sovranità alle istituzioni europee, a passi in avanti sui diritti civili, la parità di genere, e molti altri temi ancora. Sono i motivi per cui, per esempio, l’Albania e la Macedonia del Nord stanno faticando moltissimo per entrare nell’Unione Europea, molto più di quanto abbiano fatto ai tempi la Romania o la Bulgaria. Nel caso di altri paesi la procedura di adesione si è interrotta o non è mai iniziata.
La Russia è riuscita a sfruttare a proprio vantaggio questa situazione, per esempio attirando a sé paesi che fino ad alcuni anni fa sembravano candidati ideali per entrare nell’Unione come la Serbia. E ancora oggi, anche se pochi paesi sono disposti ad ammetterlo, per riportare l’Ucraina nella propria area di influenza è disposta a fare molto di più di quanto l’Unione Europea e i governi europei sembrino disponibili a offrire. L’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea è scomparso dal dibattito, benché negli anni scorsi fosse stato fatto qualche progresso e da un recente sondaggio è emerso che circa il 62 per cento degli ucraini sarebbe a favore.
L’atteggiamento dei governi europei, fra l’altro, rispecchia in pieno quello degli europei. Secondo un sondaggio realizzato a fine gennaio dallo European Council on Foreign Relations (ECFR) e citato di recente da Domani, in Francia, Italia e Germania appena 4 intervistati su 10, circa, ritengono che il proprio paese dovrebbe difendere l’Ucraina in caso di attacco della Russia.
Se anche la crisi di questi giorni rientrasse, la Russia ne uscirebbe con un controllo più saldo di un pezzo dell’Ucraina orientale: e fra due, tre o quattro anni potrebbe chiedere che l’integrazione nel proprio territorio venga riconosciuta dalla comunità internazionale – come ha appena fatto con la Crimea – e applicare di nuovo la stessa strategia con un altro pezzo della vecchia Unione Sovietica. Sempre che nel frattempo non cambi qualcosa nell’approccio europeo.