Il problema di capire chi sta guidando “da fatto”
Un dispositivo sviluppato da un’azienda americana potrebbe ridurre limiti e fallibilità delle misurazioni attuali, ma i risultati restano difficili da interpretare
I processi di legalizzazione e regolamentazione della vendita di cannabis a scopo ricreativo avvenuti in diversi stati americani negli ultimi dieci anni hanno prodotto, tra i vari effetti, una recente intensificazione degli sforzi per individuare con precisione i casi di guida sotto gli effetti del THC, l’ingrediente psicoattivo della marijuana. Sono sforzi che provengono prima di tutto dalle autorità pubbliche, impegnate nel tentativo di sanzionare questo comportamento – noto con la sigla DUI, Driving under the influence, e riferito sia all’alcol che agli stupefacenti – per limitare il rischio di incidenti stradali. Ma provengono anche da aziende interessate a produrre e fornire alla polizia strumenti affidabili in grado di dimostrare e quantificare il condizionamento dei tempi di reazione e del controllo motorio nelle persone che assumono cannabis.
Infatti, mentre è relativamente semplice e già possibile da tempo accertare la positività al THC tramite analisi tossicologiche, attualmente è molto più complicato stabilire quanto tempo prima di mettersi alla guida una persona abbia fatto uso di cannabis. Come è difficile appurare i concreti effetti del THC sulla guida di un mezzo, quando la sostanza è ancora presente nel sangue anche giorni dopo l’assunzione e senza alcuna alterazione psicofisica percepibile da parte dell’interessato. In breve, gli accertamenti tossicologici possono dimostrare l’uso più o meno recente di cannabis ma non l’alterazione psicofisica del soggetto, che dipende da molti fattori.
In Italia la «guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti» è punita secondo l’articolo 187 del Codice della strada, con la stessa sanzione (ammenda da 1.500 a 6.000 euro e arresto da sei mesi a un anno) prevista per l’ipotesi più grave tra quelle di «guida sotto l’influenza dell’alcool», regolata dall’articolo 186. Lo stato di alterazione può essere provato da un test preliminare eseguito al momento della contestazione ma deve essere associato ad altri elementi indiziari riferiti dalla polizia e a successivi accertamenti clinico-tossicologici.
In un lungo articolo la rivista americana Wired ha spiegato difficoltà e limiti attuali della raccolta di prove clinicamente rilevanti per l’accertamento dei casi di guida sotto effetto di cannabis. E ha descritto alcuni nuovi approcci in questo ambito, più attenti alla misurazione puntuale di determinate abilità cognitive tramite strumenti appositi che non all’analisi tossicologica, di scarsa utilità in molti casi. Approcci che al momento non sembrano tuttavia aver fornito indicazioni abbastanza chiare da giustificare l’introduzione di nuovi protocolli.
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Wired è partita dal caso significativo di un gestore di un negozio di cannabis a Seattle, nello stato di Washington, uno tra i primi stati americani ad aver legalizzato l’uso personale a scopo ricreativo. Nel 2017, mentre tornava a casa da lavoro in macchina, con ancora il badge indosso, fu fermato per eccesso di velocità da un poliziotto che gli chiese quando avesse fumato marijuana l’ultima volta. «Non oggi», gli rispose il gestore del negozio, al quale fu quindi chiesto di scendere e completare una serie di test sul lato della strada, tra cui contare a mente un tempo di 30 secondi (si ritiene che essere fatti tenda a far percepire alle persone uno scorrere del tempo rallentato).
I sospetti del poliziotto aumentarono quando il gestore del negozio non riuscì a rimanere in equilibrio su una gamba, cosa che gli veniva difficile, spiegò al poliziotto, da quando aveva subito un’operazione a entrambi i femori in conseguenza di un incidente. A quel punto, dopo aver cominciato a tremare dal nervosismo, il gestore fu arrestato per guida sotto l’effetto di marijuana e portato in manette in un ospedale per un prelievo del sangue.
La legge dello stato di Washington, come quella di altri stati che prevedono la stessa soglia, vieta di guidare se è presente nel sangue una quantità di THC pari o superiore a 5 ng/mL (nanogrammi per millilitro). Quella riscontrata nel sangue del gestore del negozio – che aveva fatto uso di marijuana l’ultima volta prima del controllo la sera precedente, ossia circa 20 ore prima – fu di 9 ng/mL. A seguito di quell’accertamento, scontando una pena abbastanza tipica per un caso come il suo, il gestore fu condannato a 15 giorni di arresti domiciliari e tre anni di libertà vigilata, e a pagare più o meno 4 mila dollari (circa 3.500 euro) tra multe e spese.
Una delle principali difficoltà nell’accertamento dell’alterazione psicofisica causata dal THC, spiega Wired, è che non esiste un «etilometro per la cannabis». In pratica, non c’è modo di sapere se una persona è “fatta” nel momento in cui si sottopone a un test, perché non c’è un fattore biologico che indichi: «non il sangue, né l’urina, né i capelli, né l’aria espirata, né la saliva». L’assorbimento, la distribuzione negli organi e nei tessuti, le trasformazioni metaboliche e la concentrazione della sostanza nei liquidi organici sono talmente variabili che, anche tra due persone che condividono una stessa canna, una potrebbe scendere sotto 5 ng/mL in due ore e l’altra potrebbe rimanere al di sopra di quella soglia per giorni.
L’assunzione di cannabis può interferire in modo significativo con alcune abilità che sono essenziali quando si è alla guida: quelle visuo-spaziali, i tempi di reazione e la velocità di elaborazione delle informazioni, per esempio. Ma collegare questi effetti con i dati sugli incidenti stradali è in genere un’operazione complicata e molto esposta al rischio di correlazioni fuorvianti.
Secondo uno studio del 2020, negli anni successivi alla legalizzazione della marijuana nello stato di Washington (2012) la percentuale di persone coinvolte in incidenti mortali e positive al THC è raddoppiata, anche se il numero complessivo di morti è diminuito. Il dato sull’aumento significativo delle positività potrebbe banalmente essere legato al fatto che più persone assumono cannabis da quando è legale farlo. Tuttavia in quel numero sono presumibilmente comprese anche persone che si sono messe alla guida molte ore, giorni o persino settimane dopo aver assunto cannabis.
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La scarsa rilevanza clinica degli esami tossicologici – su cui concordano praticamente sia le forze di polizia che le persone fermate – implica, tra le altre cose, che una parte essenziale della valutazione degli effetti della marijuana sulla guida sia basata in definitiva sul giudizio umano espresso dalla polizia durante i controlli, con tutti i limiti che ne conseguono. A differenza del gestore del negozio, che era un bianco, i neri negli Stati Uniti hanno circa quattro volte più probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana, sebbene non ci siano grandi differenze tra i loro livelli medi di consumo e quelli di altri gruppi, scrive Wired.
Un dispositivo autorizzato dalla FDA nel 2015 e sviluppato circa 15 anni fa per altre ricerche da Charles Duffy, un neurobiologo del centro medico della University of Rochester, a New York, è da alcuni anni oggetto delle attenzioni dei molti che confidano possa permettere in futuro una valutazione rapida e attendibile degli effetti delle sostanze sullo stato psicofisico delle persone. Si chiama Cognivue – come il nome dell’azienda che l’imprenditore e filantropo americano Tom Golisano acquistò direttamente da Duffy – e serve a valutare tramite un test di 10 minuti la memoria, la capacità dell’occhio di vedere distintamente gli oggetti (acuità visiva), il tempo di reazione e le capacità di ragionamento e concentrazione.
Cognivue ha più o meno l’aspetto e la forma di un vecchio notebook Apple, ma al posto della tastiera ha una specie di piccola manopola girevole simile a quella delle centrifughe per insalata. Il software, che non può girare su altri dispositivi, utilizza un algoritmo basato sulle risposte a determinati stimoli visivi fornite da migliaia di individui sani. Ai soggetti da valutare viene richiesto di soddisfare le richieste che compaiono sullo schermo, una dopo l’altra, ma se impiegano troppo tempo a rispondere il test passa alla richiesta successiva, mentre tiene traccia dei progressi. Sono compiti relativamente semplici ma anche minimi errori o pochi millisecondi di ritardo nelle risposte incidono sulla valutazione.
Cognivue era stato inizialmente progettato per la misurazione del deterioramento cognitivo in pazienti con malattie neurodegenerative. L’obiettivo era quello di eliminare l’elemento della fallibilità umana, impedendo che le valutazioni cognitive potessero essere condizionate da errori e pregiudizi del personale medico incaricato di compierle. Il gruppo di ricerca introdotto da Golisano perfezionò ulteriormente gli sviluppi del dispositivo, estendendo il campo delle possibili applicazioni. A un certo punto l’azienda intuì che Cognivue poteva essere uno strumento di grande aiuto per l’esecuzione automatizzata – e quindi non condizionata dalle percezioni di un esaminatore – di test di deterioramento cognitivo da cannabis.
Per misurarne le potenzialità in questo campo di applicazione fu organizzato nel 2021 un test clinico che coinvolse un gruppo di consumatori abituali di marijuana e l’unità Drug Recognition Expert (DRE) dello stato di New York, la sezione della polizia i cui agenti si ritiene abbiano le maggiori competenze e abilità nel riconoscere le limitazioni cognitive in conducenti che sono sotto l’effetto di sostanze diverse dall’alcol. Sebbene siano gli agenti responsabili della maggior parte degli arresti di questo tipo, non è chiaro quanto siano accurate le loro valutazioni, recentemente definite dal Boston Globe «poco più che pseudoscienza».
Il test si svolse nel giugno del 2021 a Denver, in Colorado, sotto la supervisione del biologo molecolare Frank Conrad, che in Colorado dirige un laboratorio di test sulla cannabis. Furono reclutate 48 persone che facevano uso quotidiano di cannabis, alle quali fu offerta una ricompensa da 150 dollari (circa 130 euro) e un vaporizzatore omaggio – un tipo di sigaretta elettronica che permette di fumare anche erba – in cambio di «valutazioni delle prestazioni cognitive prima e dopo l’inalazione di THC».
Il programma prevedeva che i soggetti venissero convocati di mattina per essere sottoposti agli esami del sangue, a un test tramite Cognivue e a un test dell’unità DRE dello stato di New York, presente con 10 dei 350 agenti dell’unità, per stabilire le prestazioni cognitive iniziali di ciascuna persona. Dopo una pausa pranzo, sarebbe stato chiesto ai partecipanti di fumare marijuana tramite un vaporizzatore e sottoporsi alle stesse valutazioni più volte durante il pomeriggio, finché non fossero tornati a sentirsi come prima di aver fumato.
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La giornalista americana Amanda Chicago Lewis, autrice dell’articolo di Wired e persona presente durante il test, ha scritto di quanto l’atmosfera fosse insolitamente amichevole e a tratti surreale tra i poliziotti e i partecipanti: «come se Tom e Jerry si prendessero una pausa dagli inseguimenti senza fine». La situazione diventò ancora più bizzarra dopo pranzo, quando i partecipanti cominciarono a fumare e poi a ridere. Poi fu chiesto loro di riporre i vaporizzatori in buste da lettera da richiudere e consegnare a Conrad.
Il primo test di Cognivue fu un’esperienza abbastanza travolgente per molti dei partecipanti, ha scritto Wired: «Continuavo a mettere in dubbio le mie facoltà mentali», raccontò uno di loro. In particolare la consegna che prevede di seguire con il cursore un insieme di puntini mobili lampeggianti mandò in confusione praticamente tutti: «Puntini? Non ci sono puntini», disse uno dei partecipanti.
Il test dei DRE, che includeva anche misurazioni strumentali come il controllo del battito al polso e una scansione della lingua con luce ultravioletta, durò circa 45 minuti. Altre operazioni richieste erano toccarsi la punta del naso con un dito – alcune persone non riuscirono a farlo – o contare 10 passi, mentre gli agenti osservavano scrupolosamente i movimenti dei soggetti in cerca di brevi contrazioni muscolari involontarie.
Furono quindi eseguiti altri test di entrambi i tipi durante il resto del pomeriggio, in fasi in cui i soggetti erano convinti di non essere più fatti e i DRE si aspettavano invece di trovarli ancora sotto l’effetto della cannabis. Secondo l’agenzia per la sicurezza stradale americana NHTSA (National Highway Traffic Safety Administration), il deterioramento cognitivo da cannabis raggiunge il picco circa un’ora e mezza o due dopo l’assunzione di THC. Alcune persone sostenevano di essere in verità ancora più vigili, dopo aver fumato, e che in alcune circostanze fumassero di proposito proprio per guidare più lentamente e con più attenzione.
Quella di essere ancora più attenti da fatti è una convinzione piuttosto diffusa tra i consumatori abituali di marijuana, ha scritto Wired. Convinzione peraltro sostenuta da alcune ricerche che mostrano che i consumatori esperti tendono a iper-compensare il loro deterioramento cognitivo con maggiore cautela e concentrazione. Una ricerca del National Institute on Drug Abuse (NIDA), l’istituto nazionale che si occupa di droghe e dipendenze, suggerisce tuttavia che finché ci sono tracce di THC nel sangue, anche livelli non alti, le persone hanno il doppio delle probabilità di avere un incidente.
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A fine giornata, parlando con la giornalista di Wired, alcuni dei partecipanti al test dissero di ritenere quello dei DRE il metodo migliore per capire se una persona è fatta oppure no. «Però credo che il poliziotto stesse cercando qualcosa che non andasse, e il computer almeno è imparziale», aggiunse una partecipante nera.
Dai risultati del test clinici emerse che i DRE erano stati più indulgenti nella valutazione iniziale, prima dell’assunzione di THC da parte dei soggetti esaminati. Il 74 per cento del campione era “fatto” già all’inizio della giornata, stando agli esami del sangue (aveva cioè un livello di THC superiore a 5 ng/mL). Secondo il test Cognivue, il 47 per cento presentava un deterioramento cognitivo. E secondo i DRE, soltanto il 21 per cento del campione era sotto effetto di marijuana. A Wired alcune persone avevano detto di aver fumato la mattina prima del test, ma la maggior parte aveva detto di no.
Un’ora dopo aver smesso di assumere THC nel pomeriggio, quando molte persone già affermavano di non sentire più alcun effetto, circa la metà non aveva più deterioramento cognitivo, secondo il test Cognivue. Per i DRE era invece ancora fatto il 68 per cento, e quanto agli esami del sangue l’84 per cento presentava livelli di THC superiori a 5 ng/mL. In pratica, in base ai risultati di Cognivue, alcune persone sarebbero state in grado di guidare da fatte e altre no.
I punteggi peggiori al Cognivue furono ottenuti al test dei puntini, quello che misura il tempo di reazione alla cosiddetta «salienza visiva», un’abilità ritenuta abbastanza cruciale per la guida e che fa riferimento alla capacità di distinguere un oggetto dallo sfondo. In modo abbastanza anomalo, alcuni partecipanti migliorarono effettivamente il loro tempo di reazione rispetto alla valutazione della mattina. Anche gli esami del sangue, come le misurazioni tramite Cognivue, mostrarono in definitiva un’estrema variabilità dei risultati da soggetto a soggetto: una persona raggiunse un livello di THC di 2.091 ng/mL dopo aver svapato, un’altra si fermò a un picco di 150 ng/mL e tornò a zero dopo un’ora.
I risultati del test clinico suggerirono, tra le altre cose, l’ipotesi che una quantità significativa di consumatori abituali abbia tempi di reazioni perennemente più lenti, indipendentemente dal fatto che si senta o non si senta sotto l’effetto della cannabis. Dato che sarebbe peraltro compatibile con la ricerca del NIDA riguardo alle maggiori probabilità di avere un incidente in caso di presenza di qualsiasi quantità di THC residuo nel sangue.
Cognivue sta pianificando altri test clinici, anche con l’alcol, ed è attualmente in trattative con il Dipartimento dei trasporti del Colorado per fornire strumenti che agevolino il lavoro della polizia. Potrebbero comunque trascorrere anni prima di un’autorizzazione e di un eventuale utilizzo non sperimentale dei dispositivi su scala locale o nazionale.