La corsa al “Web3”
Cos'è l'evoluzione di internet, da molti considerata imminente e oggetto di grandi investimenti, che tra i molti entusiasmi sta suscitando crescenti perplessità e critiche
Uno degli spazi pubblicitari venduti dalla rete americana che domenica scorsa ha trasmesso il Super Bowl è stato acquistato per la prima volta da Coinbase, tra i più grandi e importanti siti per comprare criptovalute. Lo spot, durato un minuto, ha mostrato per quasi tutto il tempo soltanto un QR code in movimento che rimandava a una pagina promozionale con un’offerta dedicata ai nuovi clienti della società californiana. La popolarità dello spot e l’estensione del pubblico che lo ha visto sono state tali da rendere temporaneamente indisponibile la app.
Altri spazi pubblicitari sono stati acquistati da società simili a Coinbase come FTX e Crypto, che fornisce digital wallet (portafogli digitali) per custodire o pagare in criptovalute. All’inizio del 2020, un Bitcoin – la più popolare criptovaluta al mondo – valeva circa 6.500 euro. Oggi viene scambiato a circa 38 mila euro, e il valore stimato di tutte le criptovalute è di circa 2 mila miliardi di euro.
Insieme agli NFT (Non-Fungible Token) – particolari certificati di autenticità digitale tracciati attraverso una sorta di registro digitale, la blockchain, e venduti anche per decine di milioni di euro – le criptovalute sono considerate uno dei tratti distintivi di una nuova era di Internet definita Web3. Aggiungendo nuovi elementi a una quantità crescente di segni di questa evoluzione, da qualche settimana Twitter è diventata una tra le prime piattaforme di grandi social network a promuovere l’uso degli NFT, permettendo di utilizzarli come immagine del profilo.
Con connotazioni in gran parte teoriche, simili ma un po’ meno letterarie e fumose rispetto a quelle del “metaverso”, “Web3” è una parola sempre più presente nel dibattito sulle trasformazioni digitali e sulla possibile, e secondo alcuni imminente, evoluzione di Internet. Evoluzione che, nei termini delle persone del settore che ne parlano e scrivono da diversi mesi, dovrebbe basarsi sulla blockchain, cioè la tecnologia delle criptovalute, e realizzare compiutamente una serie di fenomeni come la decentralizzazione delle reti – a scapito delle attuali grandi aziende di Internet – e l’economia fondata sugli NFT.
In una lettera pubblicata il 25 gennaio scorso sul blog aziendale riguardo ai piani per il 2022, l’amministratrice delegata di YouTube Susan Wojcicki ha scritto che l’azienda considera il Web3 un’opportunità «precedentemente inimmaginabile» per accrescere le connessioni tra i creatori di contenuti e il loro pubblico. Nello stesso giorno un importante dirigente, il capo della sezione gaming di YouTube Ryan Wyatt, parlando della sua passione per la blockchain e gli sviluppi del Web3, ha annunciato la sua decisione di lasciare l’incarico a fine mese per diventare il CEO di una società del Web3, Polygon Studios.
Secondo la società di analisi di mercato americana PitchBook, dall’inizio del 2021 al 24 novembre i venture capitalist (imprenditori che investono su progetti molto rischiosi ma potenzialmente molto promettenti) hanno investito su start up di criptovalute per un totale di circa 24 miliardi di euro: una quantità superiore a quella dei precedenti 10 anni messi insieme.
Sebbene sia circondato dal grande ottimismo di un pubblico di nicchia, in larga parte costituito da tecno-entusiasti e grandi investitori, il Web3 è anche un fenomeno da molte altre persone considerato quasi alla stregua di una grande truffa. Come lo schema Ponzi e il marketing piramidale. O, nella migliore delle ipotesi, come un piano per rendere ancora più ricche persone già ricche.
È tuttavia abbastanza condivisa, al netto delle reazioni più estreme, l’idea che il Web3 sia un fenomeno sempre più concreto e impossibile da ignorare, come recentemente sostenuto su Re/code dall’esperto di tecnologia Peter Kafka, solitamente bene informato sui mercati dell’economia digitale e sulle evoluzioni di Internet. «Quell’ottimismo tecnologico […] può sembrare una favoletta, sulla stampa. Ma nel mondo in cui vivo, o almeno in quello a me vicino, è sempre più la regola», scrive Kafka, indicando quell’ottimismo come la ragione per cui tantissime persone che lavorano nella tecnologia ad alti livelli – «e che sono già molto ben ricompensate» – stanno lasciando i loro attuali incarichi in società consolidate del Web 2.0 per avere ruoli in società del Web3.
– Leggi anche: Gli NFT, spiegati
Una delle prime definizioni di Web3 viene attribuita al cofondatore della blockchain Ethereum Gavin Wood, che nel 2014 utilizzò questa parola per indicare un «ecosistema online decentralizzato basato su blockchain». La popolarità di questo concetto è cresciuta molto nel corso della seconda metà del 2021, principalmente a causa dell’interesse suscitato tra appassionati di criptovalute e influenti società di investimenti come Andreessen Horowitz, che ha indicato le tecnologie, i protocolli e le risorse digitali del Web3 anche come una possibile soluzione al problema della regolamentazione di Internet.
Il numero 3, secondo le analisi dei teorici del nuovo paradigma di Internet, sarebbe un riferimento alle due precedenti “ere” di Internet. Il Web1 è considerato oggi il modello informatico utilizzato durante la prima diffusione di Internet negli anni Novanta, in larga parte costituito da siti aziendali o amatoriali e basato in sostanza su una interazione unilaterale tra utente e fornitore di contenuti. Il Web2 (o anche Web 2.0), diffuso a partire dai primi anni Duemila, è invece il paradigma basato sui cosiddetti contenuti generati dagli utenti e, in generale, su una maggiore semplicità d’uso degli strumenti di interazione e condivisione.
Il Web3 dovrebbe essere il modello che secondo i suoi sostenitori, «tramite meccanismi di consenso come la blockchain», permetterà alle persone di organizzarsi online senza necessità di ricorrere ai servizi e alle infrastrutture delle grandi aziende di Internet come Facebook, Amazon o Google, dominanti nel Web2. Utilizzerà cioè una tecnologia basata su una rete mondiale di computer che comunicano tra loro e convalidano e registrano le transazioni senza intervento umano e senza una supervisione centralizzata. Questo stesso principio ma in un senso più esteso – tralasciando quindi la sua applicazione finora prevalente: la compravendita di beni digitali – è alla base delle cosiddette organizzazioni autonome decentralizzate (DAO), una sorta di collettivi di Internet in cui la tecnologia blockchain automatizzata dovrebbe rendere semplice stabilire le divisioni di proprietà e potere decisionale tra i membri.
Per molti aspetti, l’interesse per il Web3 mostrato dalle aziende di investimento o da personaggi pubblici con una lunga esperienza nel settore come l’ex CEO di Twitter Jack Dorsey non è un fatto sorprendente. Molte di queste persone, secondo Kafka, sono quelle che hanno più da perdere o da guadagnare a seconda di come si svilupperà il Web3.
the joylessness of this conversation is really quite affecting. i'll be thinking about it for a while. https://t.co/om2nkniKe2
— Carl Kinsella (@TVsCarlKinsella) January 25, 2022
– Leggi anche: Le celebrità si stanno appassionando agli NFT
Esiste secondo alcune persone la possibilità che il Web3, in una delle previsioni peggiori, finisca per essere soltanto una nuova bolla delle dot-com (il fallimento nel 2000 di molte società di internet, causato da un aumento eccessivo del prezzo delle loro azioni dovuto, in parte, a una sopravvalutazione degli analisti). Ma anche in quel caso, sottolinea Kafka, non è detto che non ne rimarrà qualcosa di valore che entrerà a far parte della nostra quotidianità, come per esempio i browser web utilizzati ancora oggi, che emersero appunto durante una bolla tecnologica e sopravvissero quando la bolla si sgonfiò.
Una parte del crescente interesse per il Web3, secondo gli esperti consultati da Kafka, è legata anche a paure politiche. Secondo loro, per quanto possa far piacere ad alcuni che un anno fa a Donald Trump sia stato negato l’accesso ai principali social media, bisognerebbe essere preoccupati del fatto «che una manciata di aziende possa defenestrare l’ex presidente degli Stati Uniti». Nel Web3, teoricamente, Donald Trump sarebbe invece espulso da un social network solo se lo volessero gli utenti del social network. Utenti che di quel social network sarebbero anche i proprietari, in quanto proprietari – attraverso la blockchain – dei servizi necessari per costruirlo e utilizzarlo. E anche ammesso che lo facessero, ci sarebbero comunque altre piattaforme sul Web3 a disposizione di Trump.
Il fatto che il Web3 non esista ancora compiutamente, secondo Kafka, è un’altra delle ragioni del fascino che esercita tra molte persone desiderose di nuovi assetti non dominati da grandi aziende tecnologiche. Come anche tra quelle nostalgiche dei primi tempi di Internet, «quando nessuno sapeva cosa si potesse o non si potesse fare perché nessuno ci aveva ancora provato». I sostenitori del Web3 vedono nella decentralizzazione, per esempio, un modo di far lavorare insieme gruppi di persone in tempi rapidi e in modo equo ed efficiente – anche ma non soltanto in contesti finanziari – senza molti degli intermediari al momento necessari, tanto più quando le persone vivono in paesi diversi.
Tuttavia, secondo Kafka, se c’è qualcosa che abbiamo imparato dal Web2 è che «anche la tecnologia più emozionante comporta complicazioni e conseguenze indesiderate». E fa l’esempio di Twitter, che inizialmente sembrò ad alcuni un modo divertente di far sapere alle persone cosa mangiavamo per pranzo e poi, per breve tempo, «uno strumento utile alla liberazione di popoli oppressi», prima che diventasse chiaro che poteva anche essere «un pozzo nero di odio e bugie».
Una delle critiche più note riguarda l’impatto delle attività di “estrazione” di criptovalute, il cosiddetto mining, da molti considerato uno spreco di energia tanto più irresponsabile in un momento storico caratterizzato dall’emergenza climatica. Altre persone obiettano a queste critiche giudicandole esagerate e sostenendo che il futuro sviluppo delle criptovalute porterebbe a processi di estrazione più efficienti sul piano energetico.
Un’altra perplessità molto diffusa riguarda le questioni di sicurezza e le attuali difficoltà pratiche legate alle operazioni richieste per utilizzare gli strumenti del Web3. Kafka ha raccontato una sua esperienza nel tentativo recente di acquisto di un NFT.
Ho scaricato MetaMask, un famoso “portafoglio” di criptovalute – un posto in cui archiviare le chiavi dei tuoi beni in criptovalute – che funziona come un’estensione del browser Chrome. Poi ho accuratamente registrato la “seed phrase” di 12 parole, che è l’unico modo per accedere al tuo account se dimentichi la password, e che MetaMask avvisa di tenere estremamente al sicuro (suggeriscono, tra le varie tecniche, di metterla in una cassetta di sicurezza, e ti dicono che se la perdi non sarai più in grado di accedere al tuo account, mai più).
A quel punto mi serviva acquistare ethereum da inserire nel mio account, cosa che MetaMask mi ha suggerito di fare usando servizi come Wyre, di cui non avevo mai sentito parlare prima. E si scopre che non posso usarlo a New York, perché qui non è autorizzato. A quel punto ho rinunciato perché non ero minimamente pronto a collegare il mio conto di risparmio a un servizio di criptovalute di cui non avevo mai sentito parlare prima. Magari è sicuro. Ma che succede se non lo è?
Proprio l’assenza di una gestione centralizzata, un concetto che sta alla base del Web3, è da molti considerata anche la ragione dell’assenza di grandi garanzie in termini di protezione dei consumatori. Per i sostenitori del Web3 non ce ne sarebbe alcun bisogno, dal momento che il sistema di computer collegati crea un’economia in cui ogni transazione è registrata e verificabile, in cui non è necessaria alcuna supervisione. Eppure, fa notare Kafka, nel Web3 esistono già numerosi esempi di inettitudine e di imperfezioni sfruttate da opportunisti, e anche autentiche truffe, come nel caso di creatori di false criptovalute che raccolgono i soldi e poi scompaiono.
«La nuova tecnologia non significa che siamo una nuova specie», sostiene Kafka, concludendo che «anche la versione più ottimista di Web3 può ricreare alcuni dei problemi esistenti nel Web2 o nel resto del mondo». E sembra inoltre un po’ sospetto, a suo avviso, il fatto che alcune delle persone entusiaste delle prospettive possibili nel Web3 tendano in pubblico a fare proselitismo o ad assumere toni difensivi.
Sembrano infine discutibili anche due principi che una parte della retorica sul Web3 sembra a volte dare per scontati: che ci sia una così estesa volontà da parte delle persone di “possedere” beni digitali, anziché limitarsi a fruire di servizi e piattaforme; e che la possibilità delle grandi aziende di Internet di decidere chi ammettere e chi estromettere dalle loro piattaforme sia necessariamente percepita dalle persone come un pericolo. In un certo senso, sarebbe forse più temibile il potere di estromissione esercitato da futuri sistemi decentralizzati del Web3, estromissione che Kafka paragona al finire fuori da un locale per effetto del «pogare» anziché per mano di un buttafuori.
Perplessità simili a queste sono state recentemente espresse anche da Kaitlyn Tiffany, che sull’Atlantic si occupa principalmente di tecnologia e cultura pop. Tiffany ha parlato con alcuni dei moderatori delle conversazioni sul Web3 nei canali Reddit specifici più attivi e frequentati, dove i partecipanti più entusiasti sono a volte presi in giro e paragonati «ai giovani maschi palestrati che vendono frullati dietetici tramite marketing multilivello su Facebook», e altre volte sono invece descritti come persone che ambiscono esplicitamente a provocare e coordinare crolli dei mercati finanziari.
– Leggi anche: Cosa ha insegnato la storia di GameStop
Durante la pandemia, parallelamente all’entusiasmo – e ai profitti – di molte persone riguardo ad alcuni strumenti finanziari e di marketing, secondo Tiffany, sono cresciute anche una certa sensibilità pubblica riguardo al rischio delle truffe e una tendenza a intravederle facilmente in molti comportamenti. Circostanza che avrebbe portato all’attuale situazione molto polarizzata anche nel caso dei sentimenti prevalenti nei confronti delle criptovalute e degli NFT, e del Web3 di riflesso. Sui social network tanto i sostenitori quanto i movimenti avversi a questi strumenti sono in crescita costante.
In generale, i movimenti e i gruppi che mettono in guardia dalle truffe hanno ottenuto grande popolarità dando l’impressione di raccogliere un’estesa «frustrazione per il modo in cui funzionano le cose» e una sensazione condivisa da molte persone di non essere tenute abbastanza in considerazione. Con il Web3, allo stesso modo, una certa rabbia collettiva sembra collegata alla «consapevolezza che le persone normali potrebbero non essere in grado di sottrarsi alle possibili tragiche ripercussioni di qualcosa che non hanno né perseguito né sostenuto». E il risentimento verso questa sensazione di essere trascinate in qualcosa loro malgrado, secondo Tiffany, sta diventando un sentimento sempre più diffuso tra le persone.
Come ha detto recentemente a Vox Hilary Allen, docente di diritto dell’American University a Washington, il rischio di così tanti investimenti speculativi e artificiosi sul mercato è legato soprattutto ai potenziali effetti a catena. «Se è soltanto una bolla delle dot-com, è una fregatura soltanto per le persone che hanno investito, ma se è come la crisi del 2008 allora siamo fregati tutti, e questo non è giusto», ha detto Allen.
– Leggi anche: Il “collasso del contesto” sui social
Secondo l’informatico statunitense Ian Bogost, un altro noto autore dell’Atlantic e sviluppatore di videogiochi, docente alla Washington University di St. Louis, a prescindere dalle reazioni più o meno entusiaste o più o meno avverse, è comunque sbagliato concepire il Web3 in termini di assoluta novità. «Fin dall’inizio le aziende di Internet si sono presentate come creatrici di cultura, anche se il loro vero obiettivo era creare valore finanziario», ha scritto Bogost. Ora, da questo punto visita, l’idea di un mercato finanziario di dati digitali – dati esplicitamente trasformati in strumenti finanziari attraverso gli NFT – sarebbe se non altro una svolta meno ipocrita.
Già il Web1, secondo Bogost, fu di fatto una forma di commercializzazione: strumenti utilizzati in precedenza da ricercatori e nerd per comunicare tra loro diventarono negli anni Novanta un’opportunità per le aziende di trasferire dal mondo fisico a quello online le loro attività di vendita al dettaglio. Successivamente le aziende del Web 2.0, che semplificarono la pubblicazione e condivisione di contenuti, diventarono famose per offrire i propri servizi in modo apparentemente gratuito.
Quello che fecero fu accumulare dati sui comportamenti degli utenti, prima milioni e poi miliardi, per ottenere grandi profitti attraverso gli annunci pubblicitari: «L’atto di monetizzare, un tempo obiettivo esoterico di banchieri moralisti, era diventato un’attività quotidiana e un obiettivo naturale per i “creatori” stabili di contenuti». Banchieri e finanzieri, che avevano sempre avuto una reputazione un po’ opaca, per i tecnologi diventarono «parassiti indolenti che non producevano niente e depredavano invenzioni altrui». A differenza degli imprenditori del web, che invece realizzavano strumenti di lavoro e rendevano possibili modi di vivere online completamente nuovi.
Ma anche a volersela raccontare con l’apparente utilità dei loro prodotti, secondo Bogost, quegli imprenditori ottimizzarono il loro lavoro in funzione di ricchezza e potere proprio come avevano fatto banchieri e fondi speculativi. «L’unica differenza era che in più affermavano che stavano cambiando il mondo in meglio». Bogost considera il Web3 un ritorno dall’«idealismo santarellino» del Web2 all’«avidità sfacciata di Wall Street».
Senza dubbio gli NFT hanno permesso ad alcune persone di rendere molto proficua la loro arte, ma nel complesso sia le persone responsabili della costruzione di queste piattaforme e strumenti sia gli investitori stanno soltanto cercando di produrre ricchezza attraverso la speculazione. Come per qualsiasi titolo nel mercato finanziario, sostiene Bogost, il valore di un NFT «ha meno a che fare con ciò che è di quanto abbia a che fare con quanto potrebbe valere».
– Leggi anche: Perché l’arte degli NFT è così dozzinale
Inoltre, per quanto i teorici del Web3 insistano sulla decentralizzazione, una forma di controllo centralizzato è già in parte esercitata da grandi aziende di portafogli di criptovalute come MetaMask e dai principali mercati di NFT come OpenSea, uno dei più grandi nonché quello usato da Twitter come riferimento per gli NFT da utilizzare come foto profilo.
La «promessa d’oro» del Web3, conclude Bogost, è che qualsiasi cosa che possediamo o facciamo – non soltanto tweet, messaggi di testo, fotografie e email, ma ogni aspetto della vita umana – ha un correlato digitale. E che quel correlato avrà un valore garantito da una rete di computer. «Potreste trovare queste nuove risorse digitali eccitanti o terrificanti. In ogni caso, l’assurdità non farà che crescere».