Decalifornication
Francesco Costa spiega su The Passenger perché lo stato del sogno americano si stia spopolando a vantaggio dei vicini Texas, Nevada e Arizona
Nell’immaginario collettivo, la California è lo stato simbolo del sogno americano, il posto in cui tutto è possibile: ricco, sempre soleggiato, accogliente, all’avanguardia, sede delle più importanti aziende e start-up informatiche e tecnologiche al mondo e centro del cinema hollywoodiano. Eppure da anni si sta spopolando a causa dello spropositato costo delle case e della vita in generale, diventato insostenibile. La classe media ora si rifugia negli stati vicini, come l’Idaho, il Nevada, l’Arizona e il Texas, portando però con sé i problemi da cui scappava. Lo racconta Francesco Costa, il peraltro vicedirettore del Post, sul nuovo numero di The Passenger, il libro rivista della casa editrice Iperborea su paesi e città, dedicato alla California e appena uscito in libreria.
Questo è il primo numero dedicato agli Stati Uniti e raccoglie, tra le altre cose, un articolo dello scrittore Michele Masneri, che parla della California come stato all’avanguardia a cui guardare per immaginare cosa succederà in fatto di tecnologia, cultura, diritti e persino mode culinarie. C’è una descrizione della sua comunità asiatica, ingabbiata nello stereotipo della “minoranza modello”, scritta dalla giornalista Vanessa Hua; la storia del celebre parco Yosemite, ripercorsa dallo scrittore Francisco Cantú e un reportage di Mark Arax sui grandi incendi che devastano da anni lo stato, causati non solo da fattori climatici ma anche da responsabilità politiche.
Di seguito l’inizio di Decalifornication, l’articolo di Francesco Costa.
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Nel 2013 l’allora governatore del Texas, il repubblicano Rick Perry, comprò degli spazi pubblicitari nelle radio della California per trasmettere uno spot di trenta secondi dal messaggio semplicissimo: «Come check out Texas», venite a vedere come vanno le cose in Texas. Lo spot voleva sedurre principalmente i piccoli imprenditori californiani, invitandoli a valutare la possibilità di trasferire in Texas se stessi e la propria società. L’iniziativa si fece notare: tutti i governatori vogliono rendere attrattivi i propri stati, pochi mettono in piedi una campagna di concorrenza rivolta a uno stato ben preciso. La reazione più comune, però, furono gli sghignazzi. L’unico argomento presentato dallo spot era la nota benevolenza verso le imprese del sistema fiscale texano, ma la California aveva già allora la quinta economia più grande e sviluppata al mondo. Non esattamente un posto inospitale per chi vuole fare business. E poi, si diceva, chi vuoi mai che prenda davvero in considerazione la possibilità di lasciare la California progressista, liberale, accogliente e affascinante per prendere armi e bagagli e trasferirsi nel Texas dei bifolchi ultraconservatori con i cappelli a tesa larga? Cosa avrebbero dovuto fare, poi, comprarsi un cavallo? Quando chiesero all’allora governatore della California che impatto avrebbe avuto quella campagna di comunicazione, la risposta fu sbrigativa: «Barely a fart», a malapena quello di una scoreggia. Sono passati meno di dieci anni, ma a oggi pochi in California oserebbero esibire la stessa spocchia.
L’ultimo censimento decennale statunitense ha mostrato una crescita striminzita della popolazione californiana, la più bassa di sempre. Nel 2020, poi, per la prima volta la popolazione della California si è addirittura ridotta. Di conseguenza, e non era mai accaduto prima, la California ha perso un seggio alla Camera (il Texas, nel frattempo, ne ha guadagnati due: hai capito la scoreggia). Da anni la California compare nelle prime posizioni di tutte le classifiche degli stati americani da cui più persone vanno via: non è lo stato messo peggio nel paese, e ci mancherebbe, ma sono classifiche cui la California non era mai apparsa prima.
Eppure da tempo oltre mezzo milione di persone ogni anno lascia la California: molte più di quante ne arrivino dal resto degli Stati Uniti e del mondo. Di queste, oltre seicentomila si sono trasferite proprio in Texas, e con loro le sedi di aziende gigantesche e influenti come Hp, Tesla, Toyota e Oracle, oltre a centinaia di migliaia di piccole e medie imprese (un centro studi ha deciso di tenerne traccia su un foglio di calcolo disponibile online e costantemente aggiornato, intitolato «The California book of exoduses»). Ma il flusso migratorio in uscita dalla California va molto oltre il Texas. Circa mezzo milione di persone si è trasferito in Arizona dalla California dal 2010 al 2018. Oltre cinquantamila ogni anno si spostano in Nevada, dove oggi risiedono addirittura più adulti nati in California che in Nevada. Perfino l’Idaho sta venendo invaso e trasformato dai californiani. L’Idaho: un posto così povero di fascino che sulle targhe delle sue auto, dove gli altri stati americani negli anni hanno proposto slogan ammalianti come «The last frontier» (Alaska), «The sunshine state» (Florida), «Legendary» (North Dakota) o «Live free or die» (New Hampshire) – avete capito il genere – scrive orgogliosamente «Famous potatoes». In Idaho hanno le patate. E, da un po’ di tempo, un sacco di californiani.
Niente di tutto questo dovrebbe accadere, in teoria. Salvo che in casi di guerre e conflitti, nel mondo contemporaneo i movimenti migratori seguono quasi sempre direzioni segnate dall’economia e dall’occupazione: le persone vanno via dai posti che offrono meno opportunità per raggiungere luoghi che ne offrono di più. Cosa c’entra allora la California? A guardare i principali indicatori, la sua economia è in ottima salute: il suo reddito medio è alto per gli standard statunitensi e il tasso di disoccupazione è inferiore alla media del paese. Il lavoro e le opportunità non mancano. La sua prosperità si fonda innanzitutto sul successo di tre settori giganteschi, attorno ai quali si muove un vastissimo indotto: l’industria tecnologica e digitale, che ha il suo centro di gravità nella Bay Area, attrae investimenti da ogni parte del mondo e ha cambiato la vita di tutti gli esseri umani; quella dello spettacolo, del cinema e della televisione, con la sua straordinaria influenza globale, che ruota attorno a Los Angeles; e l’agricoltura, con una produzione di frutta e verdura che raggiunge ogni angolo del paese. Poi ci sono le banche e la finanza (tutta questa ricchezza qualcuno dovrà pure gestirla), il turismo, l’emergente e sempre meno improbabile settore vinicolo, l’industria petrolifera e quella dell’energia solare. Più che la fredda descrizione del contesto socioeconomico, però, è la storica collocazione simbolica e culturale della California a restituire davvero l’anomalia di questa situazione.