Breve storia degli insulti diplomatici
Da Putin a Erdogan a Chávez, sono prediletti soprattutto da autocrati e populisti, come mezzo di affermazione del proprio potere
La settimana scorsa i media anglosassoni hanno molto commentato la disastrosa visita a Mosca della ministra degli Esteri britannica Liz Truss, che oltre a non aver ottenuto particolari risultati sulla crisi ucraina (come diverse altre in questi giorni) si è anche conclusa in una disastrosa conferenza stampa con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che ha di fatto insultato Truss.
Durante la conferenza stampa Lavrov, che è uno dei diplomatici più scaltri ed esperti al mondo, ha detto con un sorriso sarcastico che il dialogo tra lui e Truss era stato «come quello di un muto con un sordo». E quando Truss alla fine della conferenza stampa ha nuovamente invitato, con una certa gravità, la Russia a ritirare i propri soldati dal confine, Lavrov si è guardato intorno, e con fare sufficiente e un po’ sbrigativo se n’è andato, lasciando la stanza senza aspettarla.
La conferenza stampa di Lavrov e Truss è uno dei tanti esempi di insulti in diplomazia e nella gestione degli affari esteri. Oggi, l’insulto in diplomazia è usato soprattutto da autocrati e populisti, come vedremo, ma gli insulti, i dileggi e le mancanze di rispetto tra capi di stato e ambasciatori hanno ovviamente una storia secolare, e a seconda dei periodi e dei protagonisti si sono svolti con forme e modalità diverse, più o meno esplicite e violente.
Gli atti irrispettosi di Lavrov nei confronti di Truss non si sono limitati alla conferenza stampa seguita al loro incontro: secondo quanto ricostruito dalla giornalista russa Elena Chernenko, Lavrov avrebbe anche fatto a Truss una domanda a trabocchetto sulla geografia del conflitto in corso, riuscendo nell’intento di farla sembrare impreparata. Lavrov avrebbe infatti chiesto a Truss se il Regno Unito riconoscesse la sovranità della Russia sulle province di Rostov e Voronezh, e Truss avrebbe risposto molto assertivamente che no, il Regno Unito non l’avrebbe «mai riconosciuta», salvo poi venire informata che quelle province si trovano in Russia e non erano quindi oggetto del contendere.
Nella storia, ha raccontato l’Economist in un articolo sul tema, ci sono stati noti esempi di insulti diplomatici, alcuni anche violenti: come quando Selim I, sultano dell’impero Ottomano tra il 1512 e il 1520, volle annunciare la propria vittoria nel Dulkadir, territorio cuscinetto tra l’impero Ottomano e l’allora territorio egiziano. Selim I inviò un ambasciatore al sultano egiziano: una volta arrivato sul luogo, l’ambasciatore aprì una borsa e fece rotolare ai piedi del sultano egiziano la testa mozzata del governatore del Dulkadir, suo stretto alleato.
Un altro celebre insulto diplomatico fu quello rivolto da Hussein III, sovrano algerino, a un console francese, nel 1827: al culmine di una disputa che riguardava alcuni pagamenti arretrati della Francia a due mercanti di Algeri, disputa poi allargatasi, il sovrano di Algeri colpì il console francese in testa con uno scacciamosche: il re di Francia Carlo X usò l’episodio per pretendere le scuse del sovrano di Algeri e bloccare il porto della città. Le cose degenerarono, e l’insulto diplomatico dello scacciamosche è oggi ricordato dagli storici come uno degli eventi che inasprirono i rapporti tra Francia e Algeria, poi invasa dalla Francia, che avviò una dominazione coloniale durata quasi 130 anni, fino al 1962.
In tempi più recenti, una figura spesso ricordata per i suoi insulti diplomatici è Hugo Chávez, presidente del Venezuela per 14 anni. Gli insulti più ricordati sono quelli che Chávez rivolse all’ex presidente americano George W. Bush: nel 2006, nel corso di un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, disse che Bush era «il diavolo in persona» e che il podio da cui stava parlando, usato dallo stesso Bush il giorno prima, «odorava ancora di zolfo».
Sempre nel 2006, durante un discorso televisivo, Chávez disse che Bush era «un ignorante, un asino», poi lo chiamò «mister Pericolo» e aggiunse che era anche «un vigliacco, un assassino, un genocida, un alcolizzato, un ubriacone e un bugiardo». Dal punto di vista diplomatico, Chávez era così maleducato che nel 2007 il re di Spagna si rivolse a lui, mentre continuava a interrompere il primo ministro spagnolo, gridandogli: «Perché non te ne stai zitto?».
In tempi recenti a prediligere l’insulto diplomatico sono stati soprattutto autocrati e populisti: gli insulti non ottengono praticamente mai risultati in politica estera, ma generano molta attenzione, che spesso i populisti ricercano. Inoltre consentono a chi li fa di presentarsi come forti e capaci di sfidare le minacce esterne, soprattutto nei confronti del pubblico interno al proprio paese.
È il caso dell’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, che definì l’ex primo ministro britannico Tony Blair un «ragazzetto in calzoncini corti», o dei diplomatici cinesi che, qualche mese fa e con lo stesso paternalismo, definirono il primo ministro canadese Justin Trudeau un «ragazzino» che aveva trasformato il Canada nel «cagnolino degli Stati Uniti». L’Economist ricorda anche quando nel 2016 Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, si rivolse all’Unione Europea – che criticava le sue dure politiche sulla droga – con un chiaro e pubblico «fuck you».
Altri noti esempi riguardano lo scambio di insulti tra l’ex presidente americano Donald Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che definì Trump un «rimbambito», dopo essere stato da lui definito, in un discorso alle Nazioni Unite contro il rafforzamento del suo arsenale di armi, un «rocket man impegnato in una missione suicida». O quando, nel 2018, la guida suprema iraniana definì Israele un «cancro maligno» con un tweet.
Ma gli insulti diplomatici possono anche essere fatti di gesti, come quando, nel 2007, il presidente russo Vladimir Putin accolse l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel facendola sedere vicino a un grosso Labrador nero, pur conoscendo la sua paura dei cani: «Volevo fare qualcosa di carino per lei», disse Putin successivamente.
O quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, lo scorso aprile, ha lasciato la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, senza un posto dove sedersi durante un incontro ad Ankara, con chiaro disappunto della stessa Von der Leyen, poi costretta a sedersi su un divano separato, dato che le uniche due sedie disponibili erano occupate da Erdogan e dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel.
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