Inventing Drusilla
«L’equivoco su Verissimo parte da prima. Da quel Sanremo in cui si è giudicata Drusilla come se fosse una persona vera, entrando nel merito di anatomie genitali, transizioni, eleganza e portamento. Nessuno che abbia analizzato la performance di un attore interprete di una figura di pura immaginazione da lui stesso creata come autore»
Questo non è l’ennesimo articolo sull’inclusività. Non parlerò della capacità della televisione italiana di rappresentare la sua gente, le minoranze, le donne. Non farò nemmeno alcun riferimento al monologo sull’unicità recitato da Drusilla Foer all’1 e 40 di quel giovedì sul palco del teatro Ariston a Sanremo.
Questo weekend Drusilla è stata intervistata a Verissimo, il programma su Canale 5. Non l’attore e autore di questo personaggio, non Gianluca Gori, ma il personaggio stesso. Accolta, Drusilla, e fatta sedere in studio e poi intervistata sulla sua vita, come se fosse vera. Sarebbe il format di Verissimo, parlare della vita privata di personaggi noti. Con la differenza però che, appunto, Drusilla non esiste.
Personaggi di finzione che irrompono nel reale la televisione li usa da sempre, certo. La signora Coriandoli ha condotto Striscia la Notizia, ed è tuttora ospite del tavolo di Fazio la domenica sera come fosse reale. La signora Coriandoli non esiste: esiste il suo interprete e inventore, Maurizio Ferrini, che da se stesso partecipò ad un’edizione dell’Isola dei Famosi. La signorina Carlo poi era nel cast fisso di Quelli che il calcio nel 1998. La signorina Carlo non è mai esistita. Era un personaggio scritto e interpretato dall’indimenticata Anna Marchesini. Eccetera, certo.
Durante l’intervista a Drusilla Foer però accade qualcosa di singolare e anomalo. Alla più classica delle domande per quel programma, la domanda sull’amore, Foer fa riferimento alla storia con il suo compagno Hervé, al fatto che sia prematuramente scomparso, lasciandola appesa ad una relazione che aveva ancora molto da dare e aggiunge che di qualunque grande amore bisogna avere rispetto. Lo dice vincendo una commozione, tradita dall’occhio lucido, a cui la regia alterna quello fattosi altrettanto acquoso della conduttrice. Vero pathos. Verissimo.
Succede che lunedì mi capiti di notare la stranezza di un articolo sul sito del Corriere della Sera in cui Maria Volpe, autrice esperta nello scrivere di spettacolo, riporta la faccenda della commozione della vedova Foer con i seguenti toni:
Come sempre l’attrice, garbata e raffinata, è stata se stessa rispondendo a tutte le domande della conduttrice. Una su tutte, è diventata il momento più commovente dell’intervista. Toffanin ha chiesto «Il tuo vero cognome è Foer? E da dove viene questo cognome?». Un attimo di pausa poi Drusilla risponde: «È la prima volta che mi fanno questa domanda. Foer è il cognome del mio ultimo marito. Mi sento ancora sposa di Hervé Foer»
Il copiaincolla generale ha sparso occhielli su tutte le pagine web di tutti i giornali raccontando di questo inatteso momento di emotività e ricordi. A un certo punto ho cominciato a chiedere ad amici, colleghi e followers se fossi ammattito io, o se davvero c’era un mondo intero che era cascato in un equivoco imbarazzante, che nemmeno l’attore Gori aveva mai voluto provocare: Drusilla Foer non esiste.
Sono stato sommerso di risposte in dm su Instagram, sostanzialmente di tre tipi:
- Vuoi solo screditare Drusilla per invidia;
- Perché dovete sempre rovinare tutto;
- Secondo me comunque Gori ha perso un compagno, o qualcuno di importante, e si è commosso mentre interpretava Drusilla.
Insomma, tutte le 50 shades di opinioni non fondate sui fatti di cui siamo abituati a riempire il web, e a parte un numero esiguo di lucidi osservatori del fenomeno artistico Foer, praticamente tutt* ci erano cascat*.
Ma l’equivoco parte da prima. Da quel Sanremo in cui si è giudicata Drusilla come se fosse una persona vera, entrando nel merito di anatomie genitali, transizioni, eleganza e portamento. Nessuno che abbia analizzato la performance di un attore interprete di una figura di pura immaginazione da lui stesso creata come autore.
Al netto della ritrosia di una cospicua quota della generazione di giornalisti boomer a informarsi una volta per tutte sulle questioni di un certo genere, volendo coprire l’argomento soltanto perché funziona, fa fare click, senza essere disposti a provare a capire, c’è comunque una generale resa di fronte alla sfida che è contenuta in ogni forma di narrazione da che esiste una storia, qualcuno che la racconta e qualcuno che la ascolta: la distinzione tra reazione vera e fatto reale. Dove vero è tutto ciò che si muove in noi, le emozioni e i sentimenti, anche quelli che ci neghiamo, e con cui il racconto ci insegna a entrare in confidenza, ad accettarlo come parte di noi e nostra ricchezza immensa. La paura, l’odio, l’invidia, la passione, la menzogna, il tradimento, la rabbia, la fame, la sete, la violenza, il sopruso, il perdono, la miseria, la pietà, la solitudine, la nostalgia, la morte, la nascita, la fiducia, l’amore, il rispetto, l’orgoglio, la noia. Ecco cosa mi viene in mente di getto quando penso alle storie e a ciò di cui trattano. Tutto vero, perché lo proviamo. Sentimenti che ci abitano davvero, anche per qualcosa che non è reale, come un racconto, per esempio, un film, o uno spettacolo a teatro.
Non distinguere ciò che è un sentimento vero da ciò che lo ha scatenato, e che può essere falso, renderebbe possibile che qualcuno, vedendo un film sull’Odissea o sentendo leggere ad alta voce l’Iliade, si prepari per andare a combattere la guerra di Troia. Che non è oggi, e probabilmente non è mai esistita. Ma questo oggi non è più così ovvio.
Ciò che è successo a Drusilla e Gianluca in realtà accadde già con Martina Dell’Ombra – la ragazza di Roma nord dalle idee piuttosto nostalgiche – e Federica Cacciola, l’attrice che ne ha scritto il personaggio e lo ha interpretato su social media e in televisione. C’è un’intervista con Paola Saluzzi per Sky Tg24 in cui pare evidente che nessuno avesse capito di essere al cospetto di una performance. Drusilla e Martina, l’inclusiva e l’odiatrice, sono esattamente l’opposto. Una anziana colta e forbita nel linguaggio, l’altra giovane, impreparata e gretta nel parlare. Ma hanno una cosa in comune: sono state inventate di sana pianta.
Ho chiesto all’amica filosofa Maura Gancitano di aiutarmi in merito, e mi ha ricordato il racconto di Borges che si chiama Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (da cui lei e il marito Andrea Colamedici hanno preso il nome nel loro progetto di divulgazione: Tlon, appunto), inserito nella raccolta Finzioni, in cui un gruppo di esperti finge di aver scoperto una civiltà, ne ricostruisce in un libro lingua e usi, e il mondo finisce per impazzire perché decide di voler vivere in quel modo, rifiutando il mondo reale.
Ecco. C’è un rifiuto alla base di questo equivoco. Il racconto dovrebbe servire ad entrare in contatto con parti profonde di noi, a generare sentimenti veri per generare una catarsi nel mondo reale. Forse è da questa catarsi che fuggiamo, conservando le multidimensioni del racconto anche nel bidimensionale del nostro quotidiano reale.
Per cui se tutto è performance continua, non c’è mai il tempo in cui si torna a casa da teatro e si prova a mettere in discussione la vita vera. E magari cambiarla. Tutto resta in quell’ambito, che qualcuno chiamò profeticamente la società della performance. Intendeva altro rispetto alla messa in scena artistica di un altro da sé, ci era sembrato, ma forse non era poi così vero.
In questo complica le cose anche che in alcuni contesti la finzione non venga mai svelata, o quasi mai, come in quello in cui Drusilla Foer ci appare quasi sempre solo come Drusilla Foer: e non aiuta che molti giornali e siti di news non diano nessun elemento di distinzione. Così come è impossibile far capire a mia mamma che è inutile arrabbiarsi per le ingiustizie che restano impunite quotidianamente a Forum, in cui le storie sono scritte e interpretate da attori. Ma per mia mamma, e forse per tutti noi, basta che funzioni. Non vogliamo più credere ai fatti, ma ad una storia, sempre e comunque.
Ecco cosa raccontano due nuove serie su Netflix: Inventing Anna, storia vera in cui una giovanissima ha truffato un sacco di ricchissimi rampolli della società ricca, colta e molto snob di mezzo mondo, fingendo di essere ciò che loro volevano che fosse, e Il truffatore di Tinder, che racconta la storia – sempre vera – di un seriale tombeur de femmes che usava uno schema Ponzi per arricchirsi alle spalle di indebitate innamorate colpevoli di essere delle credulone e di avergli prestato molto denaro per aiutarlo a uscire da eventi sfortunati. Noi vogliamo credere a tutto, purché funzioni.
Abbiamo creduto per un anno intero alla faccenda di Pamela Prati e Mark Caltagirone.
Vogliamo solo che ci si racconti ancora qualcosa. Ancora, ancora. Purché non restiamo nemmeno un attimo soli di fronte al reale, a guardarci per quello che siamo davvero. E in questo, i giornali, sono spesso degli ottimi alleati. Il Corriere intanto ha modificato la pagina web rispetto alla pubblicazione iniziale, aggiungendo la parola “fantomatico” al titolo su Drusilla che parla del marito, e una serie di incisi volti a spiegare che tutto il racconto “non appartiene alla realtà”. Ma tutti gli altri?
Don’t look up.