Omicron ha avuto origine negli animali?
È un'ipotesi sempre più condivisa tra i gruppi di ricerca, ma non convince tutti: scoprirlo potrebbe aiutarci a prevedere meglio le evoluzioni della pandemia
Quando la variante omicron del coronavirus fu identificata nell’Africa meridionale a novembre dello scorso anno, i ricercatori che si occuparono di analizzarla notarono da subito qualcosa di strano. Omicron aveva quasi 50 mutazioni rispetto alla versione del coronavirus emersa alla fine del 2019 in Cina, e circa 40 di queste interessavano la proteina spike, quella impiegata dal virus per legarsi alle cellule, eluderne le difese e sfruttarle per replicarsi.
La grande quantità di mutazioni – di gran lunga superiore a quelle rilevate nelle precedenti varianti (alfa, beta, gamma e delta) – ha spinto diversi gruppi di ricerca a chiedersi quale sia stata l’origine di omicron. Scoprirlo non è una cosa da poco, ma potrebbe rivelarsi estremamente utile per comprendere meglio come evolve il coronavirus SARS-CoV-2, fornendo informazioni preziose su come potrebbe procedere la pandemia.
Le ricerche sono ancora in corso e ci sono ipotesi contrastanti sull’origine di omicron, ormai diffusa in oltre 120 paesi e responsabile delle nuove ondate dell’epidemia, anche in Italia. Nelle ultime settimane si è tuttavia discusso molto di un’ipotesi in particolare, secondo la quale le numerose mutazioni di omicron avrebbero avuto origine in seguito al passaggio del coronavirus dagli esseri umani ad alcuni animali e poi nuovamente agli esseri umani.
Origine animale
In due anni di pandemia, SARS-CoV-2 ha mostrato di avere una certa versatilità e di poter infettare numerose specie. Il coronavirus è stato riscontrato in animali domestici come cani e gatti, in ippopotami, leopardi e altri grandi felini e in varie specie di ruminanti. In Europa, si è diffuso rapidamente negli allevamenti di visoni, rendendo necessario l’abbattimento di milioni di esemplari e mettendo in durissima crisi il settore delle pellicce fatte con questi animali, già da tempo in difficoltà.
I contagi negli allevamenti di visoni avevano confermato che in alcune circostanze – per quanto rare – i visoni contagiati dagli operatori potessero a loro volta contagiare altre persone. I virus del resto mutano di continuo e alcune di queste mutazioni, del tutto casuali, possono rivelarsi essenziali per l’adattamento in specie diverse.
Il processo non avviene sempre e con tutti i virus: molto dipende da come sono fatti e dalle condizioni in cui proliferano, ma il SARS-CoV-2 ha una notevole capacità di adattamento, probabilmente favorita dal fatto di essere altamente contagioso e di sfruttare una porta di ingresso alle cellule relativamente comune tra animali di specie diverse.
Le analisi condotte in laboratorio negli ultimi mesi hanno evidenziato come omicron sia ancora più versatile rispetto alle varianti precedenti. Vari gruppi di ricerca hanno notato che la proteina spike di omicron si attacca facilmente alla proteina ACE2 di varie specie, compresi i polli e i topi. In particolare, due sue mutazioni favoriscono il legame con ACE2 di numerosi altri roditori.
Secondo una ricerca pubblicata alla fine del 2021 sul Journal of Genetics and Genomics, la quantità e la tipologia di mutazioni che interessano omicron può essere spiegata ipotizzando che la variante si sia evoluta in specie diverse dalla nostra. L’ipotesi è che quindi una versione del coronavirus fosse a un certo punto passata da una persona infetta a un topo, nel quale sarebbe poi andata incontro a varie mutazioni prima di passare nuovamente agli esseri umani. È un’ipotesi che ha raccolto grande interesse, anche se al momento non ci sono elementi per capire come possa essere avvenuto l’ultimo passaggio.
Come hanno mostrato numerose ricerche, il coronavirus è presente nelle acque fognarie e può essere rilevato con analisi a campione, che vengono svolte periodicamente in numerosi paesi proprio per stimare la diffusione del virus in determinate aree geografiche. Ratti e topi vivono spesso nelle fogne e potrebbero essersi contagiati in questo modo: un’infezione più lunga del solito in uno o più di questi animali potrebbe avere favorito l’evoluzione del coronavirus verso omicron. Il ratto o topo infetto sarebbe poi venuto in contatto con una persona, dando origine alla diffusione della nuova variante.
Lunga infezione
Non tutti sono però convinti da questa ipotesi. Omicron fu identificata a novembre, ma gli studi condotti in seguito hanno concluso che fosse in circolazione a partire dalla fine di settembre del 2021. Nel Sudafrica, uno dei primi paesi a identificarla, fu tracciata in un’area densamente popolata tra le città di Pretoria e Johannesburg, prima che si diffondesse in altre zone del paese e nel vicino Botswana.
Oltre a essere piuttosto grande, l’area in cui fu identificata comprende un grande aeroporto, quello internazionale di Johannesburg, e non si può quindi escludere che omicron fosse presente in qualche altra parte del mondo e fosse poi arrivata in Sudafrica con un viaggiatore infetto.
L’intenso processo di mutazione che portò alla nascita di omicron potrebbe essere avvenuto inosservato in un’area del mondo diversa da quella dell’Africa meridionale, magari dove non si effettuano molti controlli e soprattutto non si fanno analisi genetiche (sequenziamenti) dei campioni prelevati con i test, per verificare un’eventuale positività al coronavirus. Questa ipotesi ha però ricevuto alcune critiche, perché appare improbabile che così tante mutazioni si siano accumulate in un arco di tempo relativamente breve, senza essere rilevate in altre aree dove si fanno più sequenziamenti e dove potrebbe essere transitata una persona infetta.
Una teoria alternativa discussa nelle ultime settimane riguarda la possibilità che le mutazioni siano avvenute in una persona con un’infezione da coronavirus cronica, dovuta ad altri problemi di salute come alcune carenze nel sistema immunitario. Il virus avrebbe avuto settimane se non mesi di tempo per continuare a replicarsi nella persona infetta, andando via via incontro a un’ampia serie di mutazioni casuali, alcune delle quali si sarebbero poi rivelate utili per eludere le difese del sistema immunitario.
I riscontri per questa ipotesi non mancano. A inizio pandemia, per esempio, una donna sviluppò un’infezione da coronavirus che impiegò circa cinque mesi per risolversi. In quel periodo di tempo furono riscontrati alcuni cambiamenti nelle caratteristiche della proteina spike, dai campioni di coronavirus analizzati. La velocità di mutazione suscitò l’interesse dei ricercatori, considerato che per altri virus i tempi sono solitamente più lunghi.
A oggi, però, nessuno dei virus analizzati da pazienti con infezioni croniche ha mostrato di avere la quantità di mutazioni riscontrata in omicron. Non è nemmeno chiaro se così tanti cambiamenti possano avvenire nel corso di una singola infezione e in tempi relativamente brevi, senza che questo abbia effetti tangibili sulla salute della persona infetta.
Anche per questo motivo è stato ipotizzato che l’emersione di omicron sia avvenuta in seguito a più infezioni croniche in diverse persone, anche se non è chiaro come si sarebbe poi giunti alla variante che conosciamo oggi. Un’altra ipotesi è che le mutazioni siano avvenute in una sola persona rimasta a lungo infetta, e che altre si siano accumulate tra la popolazione prima che venisse identificata la nuova variante. Se ne potrebbe avere la conferma solamente risalendo alla persona o alle persone in cui avvennero le mutazioni più significative, ma appare un obiettivo difficile se non impossibile da realizzare.
L’ipotesi dell’origine di omicron negli animali aiuterebbe a risolvere alcune di queste difficoltà, ma l’esperienza con le precedenti varianti è un ulteriore elemento di scetticismo per molti esperti. Quando le prime versioni del coronavirus passarono dagli esseri umani agli animali, come i visoni, non furono osservate così tante mutazioni come quelle riscontrate con omicron e in tempi ristretti.
Nuove analisi
Un’analisi più approfondita delle varianti presenti negli animali potrebbe aiutare a dare qualche risposta, ma i sequenziamenti svolti nelle altre specie sono stati finora pochi. I ricercatori hanno isolato poche migliaia di sequenze per lo più dai visoni e da alcuni animali domestici. Le analisi in questi ambiti sono piuttosto trascurate e non vengono investite molte risorse, rispetto a quelle spese in altri ambiti della pandemia.
Non si può comunque escludere che omicron abbia avuto le proprie origini in processi che hanno sia coinvolto diverse specie sia infezioni di lunga durata, tra gli esseri umani. Per capirne qualcosa di più, l’Organizzazione mondiale della salute (OMS) confida sul lavoro dello Scientific Advisory Group for the Origins of Novel Pathogens (SAGO), un gruppo di analisi e ricerca incaricato di studiare caratteristiche e genesi dei nuovi patogeni, come virus e batteri. Tra qualche giorno SAGO dovrebbe diffondere un primo rapporto su omicron, ma difficilmente fornirà risposte definitive sulle sfuggenti origini della variante.