La Corte Costituzionale deve valutare i referendum su cannabis, eutanasia e giustizia
Domani deciderà se i quesiti promossi da Radicali e Lega sono ammissibili, ma c'è una sovrapposizione con la riforma Cartabia
Martedì la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità di otto referendum: quelli su eutanasia attiva e cannabis legale, e i sei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. I quindici giudici giudicheranno se le questioni al centro dei referendum non rientrano in una delle quattro categorie di leggi che, secondo l’articolo 75 della Costituzione, non possono essere sottoposte a questo tipo di votazione, e valuteranno se ci siano altri criteri di inammissibilità. Se i giudici si pronunceranno a favore dei referendum il presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, indirà con un decreto i referendum stessi fissandone la data tra il 15 aprile e il 15 giugno.
In questi ultimi giorni, il nuovo presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato si era espresso anticipando che approccio avrebbe prediletto, in un modo accolto positivamente dalle associazioni e dai partiti che hanno promosso i referendum. Aveva infatti spiegato: «davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione, perché il nostro punto di partenza è consentire, il più possibile, il voto popolare».
Il referendum sull’eutanasia legale propone di abrogare una parte dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio di una persona consenziente: in questo modo sarebbe permessa l’eutanasia attiva, che avviene quando il medico somministra il farmaco necessario a morire e che al momento è illegale in Italia.
Il referendum sulla cannabis interviene sul Testo Unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative di una serie di condotte in materia di droghe. Propone, innanzitutto, di depenalizzare la coltivazione e di eliminare il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. Sul piano amministrativo il quesito propone di eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori, oggi prevista per tutte le condotte finalizzate all’uso personale di qualsiasi sostanza stupefacente o psicotropa.
I referendum sulla giustizia, se ammessi, potrebbero invece causare alcuni problemi. I sei quesiti sono stati infatti proposti in un momento particolare, proprio mentre il parlamento sta lavorando a una riforma strutturale della giustizia il cui ultimo capitolo – dopo quelli sul processo penale e sul processo civile che sono già diventati legge – ha a che fare con la riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e dell’ordinamento giudiziario. Un tema che coincide in parte con quello dei referendum.
L’11 febbraio il Consiglio dei ministri aveva approvato la proposta di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Durante una conferenza stampa, il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva spiegato che l’approvazione era arrivata all’unanimità anche se fra le diverse forze politiche di maggioranza c’erano e permangono delle «differenze di vedute». «È stata una discussione ricchissima e anche molto condivisa», aveva detto Draghi presentando la riforma, aggiungendo che c’è l’impegno per approvarla senza fare ricorso alla fiducia (cioè lavorando per mettere d’accordo tutta la maggioranza) e in tempo per le prossime elezioni del Csm, previste per luglio.
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La riforma del Csm approvata in Consiglio dei ministri inizierà il suo iter in commissione alla Camera mercoledì. E ci sono diverse preoccupazioni che la discussione parlamentare sovrapposta alla campagna referendaria, che partirà se la Consulta darà il suo via libera, possa creare confusione e diversi problemi politici.
Il primo e il secondo quesito dei referendum di Lega e Radicali riguardano la responsabilità civile dei magistrati e la separazione delle carriere, il terzo interviene sulla custodia cautelare, il quarto chiede di abolire la legge Severino nella parte in cui prevede la sanzione accessoria dell’incandidabilità e del divieto di ricoprire cariche elettive e di governo dopo una condanna definitiva. Il quinto riguarda il requisito della raccolta firme per il magistrato che intende candidarsi al Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura, e l’ultimo referendum interviene sulla valutazione dei magistrati: cioè sugli organi che hanno il compito di valutare l’operato dei magistrati e che possono essere composti anche da membri non togati (da avvocati, ad esempio), ma nei quali, oggi, solo i membri togati hanno diritto di voto. Lega e Radicali vogliono dare anche ai membri non togati la possibilità di esercitare il diritto di voto sulle valutazioni dei magistrati.
Dei sei referendum proposti, ce ne sono due che potrebbero influire sulla discussione che inizierà alla Camera sulla riforma della ministra della Giustizia Cartabia: quello sulla separazione delle carriere e quello sulla responsabilità civile dei giudici. Il primo avrebbe una conseguenza precisa sul testo. Come ha spiegato il giurista Nello Rossi su Repubblica, più che di separazione delle carriere dei magistrati sarebbe corretto parlare di separazione delle funzioni: quella tra giudice e pubblico ministero. L’obiettivo del quesito è eliminare la possibilità di passare da una funzione all’altra: oggi questo passaggio è possibile farlo quattro volte. La riforma Cartabia ridurrebbe i passaggi a due, mentre il referendum propone che il magistrato scelga all’inizio della carriera la funzione che poi manterrà durante tutta la vita professionale.
Il referendum sulla responsabilità civile diretta avrebbe soprattutto conseguenze politiche. Il referendum prevede che il magistrato paghi di tasca propria l’eventuale condanna per l’errore giudiziario commesso, eliminando pertanto il “filtro” dello stato, il fatto cioè che sia lo stato a rivalersi economicamente sul magistrato. Se il referendum venisse approvato e poi votato dalla maggioranza dei cittadini, commenta Repubblica, suonerebbe «come l’espressa richiesta di una legge molto severa contro i giudici».
Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile giustizia della Lega, ha dichiarato che i quesiti referendari sulla giustizia e la riforma del Csm di Cartabia «sono due binari che corrono in parallelo e non sono sovrapponibili» e che «la volontà popolare che si esprimerà sui quesiti referendari scuoterà il timido approccio del Parlamento su temi di grande interesse». Per il Partito Democratico, invece, deve essere il Parlamento a decidere sul tema della riforma della giustizia e Pietro Grasso, oggi senatore di Liberi e Uguali ed ex magistrato, ha dichiarato che il «corto circuito» tra riforma, referendum e campagna referendaria potrebbe «incendiare il clima a danno della possibilità di una buona riforma condivisa».