Che fine hanno fatto gli afghani arrivati in Italia
Dopo la caduta di Kabul, la maggior parte di loro vive ancora in centri di emergenza: ma le cose stanno andando lentamente a posto
di Luca Misculin
Lo scorso agosto il governo italiano mise in piedi un’imponente operazione civile e militare per evacuare migliaia di afghani da Kabul, la capitale del paese, durante i primi giorni del nuovo regime dei talebani. Per una decina di giorni due aerei dell’Aeronautica Militare, il C-130 e il KC 767, fecero la spola fra Roma e Kabul trasportando i collaboratori dell’ambasciata e della missione militare italiana e le loro famiglie, oltre a decine di altre persone in difficoltà. In tutto arrivarono a Roma 4.890 afghani: l’Italia risultò il paese dell’Unione Europea che aveva accolto il numero più alto di persone.
In realtà il processo di accoglienza era appena iniziato. Per rifarsi una vita in un paese straniero e per molti versi alieno occorrono diversi anni, e una serie di pezzi fatti di relazioni, opportunità e connessioni che devono incastrarsi nel posto giusto. In questo senso gli sforzi dello stato stanno proseguendo, ma hanno anche limiti assai evidenti.
Il sistema italiano di accoglienza non era pronto per ricevere quasi cinquemila persone scappate in fretta e furia da un contesto di guerra civile, e di età, profili ed esigenze diversissime fra loro. «In diversi casi si è fatto ricorso a soluzioni del tutto inadeguate per ospitarle», racconta al Post Filippo Miraglia, vicepresidente e responsabile per l’immigrazione di ARCI, una delle associazioni più coinvolte nell’accoglienza delle persone afghane evacuate da Kabul.
Secondo dati del ministero dell’Interno forniti al Post, a oggi delle 4.890 persone arrivate in Italia col ponte aereo da Kabul, 3.671 si trovano nelle strutture di accoglienza italiane. Soltanto una su cinque, però, è stata assegnata a una struttura che si occupa di costruire e applicare progetti di integrazione nella società. Cioè le strutture inserite nella rete SAI (Sistema Accoglienza Integrazione).
Sicilia, Valle d'Aosta e Friuli Venezia Giulia non hanno accolto afghani
Le altre 3.003 sono state sistemate nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Nel gergo di chi lavora nell'accoglienza sono definite dei «parcheggi», perché chi li gestisce è tenuto a garantire soltanto i servizi minimi di ospitalità: un letto, tre pasti al giorno, un bagno pulito, una piccolissima quantità di denaro per acquisti personali. Nei CAS, tutto ciò che viene fatto dai gestori e dagli operatori per favorire l'accoglienza e l'integrazione degli ospiti avviene su base rigorosamente volontaria. Non esattamente una condizione ideale, per una persona che ha appena perso tutti i propri punti di riferimento e spesso si trova in una condizione di fragilità.
«I CAS sono serviti a dare un primo aiuto da un punto di vista materiale», racconta al Post Simona Lanzoni, vicepresidente della onlus Pangea, «ma sono centri che per esempio non sono tenuti ad avere uno psicologo nel proprio staff. E a volte nemmeno gli psicologi hanno una formazione che consente di gestire persone che provengono da un certo contesto culturale, parlano solo inglese o una lingua locale, e mantengono una grande angoscia per chi hanno lasciato indietro».
Lanzoni spiega che gli afghani hanno famiglie tradizionalmente molto larghe composte da sei, dieci, e anche quindici persone: anche quelli che sono riusciti a portare in Italia i propri familiari più stretti hanno lasciato in Afghanistan decine di cugini, nipoti, amici per cui rimangono preoccupatissimi, dato che i talebani potrebbero rivalersi su di loro per punire le persone che oggi vivono in Occidente. «Per avere a che fare con queste persone servono capacità di ascolto e conoscenza della loro cultura», dice Lanzoni.
Il governo e il ministero dell'Interno sapevano da subito che i CAS non sarebbero stati strutture adeguate per lavorare sull'integrazione degli afghani arrivati da Kabul col ponte aereo. Il problema è che non c'erano altri posti dove metterli; a eccezione di alcune centinaia di posti che sono stati garantiti ai più vulnerabili, fra cui donne incinte e famiglie con disabili.
Per attivare nuovi posti la rete SAI – che oggi è fatta di circa 35mila posti – prevede una responsabilità condivisa fra le strutture e i Comuni dove hanno sede, e diversi passaggi burocratici. Ha quindi una struttura rigida e poco in grado di assorbire flussi improvvisi di nuovi ospiti. I CAS, invece, fanno capo al ministero dell'Interno e possono essere aperti anche in pochi giorni con una decisione della singola prefettura.
Il governo aveva iniziato a lavorare per allargare la rete SAI con ulteriori 3.000 posti dopo l'estate, chiedendo ai Comuni quanti di loro fossero disponibili ad aumentare la propria quota di posti SAI. La scadenza per comunicare la propria disponibilità era fissata per novembre, ma la quota di 3.000 posti fu raggiunta soltanto dopo un secondo giro di richiesta di disponibilità. Una volta definito dove attivare i posti, il governo ha dovuto trovare i soldi necessari – circa 101 milioni di euro fino al 2023 – e decidere come distribuirli. Gli elenchi dei Comuni la cui proposta di ampliamento delle strutture SAI è stata accettata sono stati pubblicati fra dicembre e gennaio.
Il Comune che più spicca in questo elenco è quello di Bologna, che si è impegnato ad aumentare di 300 posti la propria rete SAI: più di qualunque altro Comune o consorzio di Comuni, compresi Milano (200 posti), Torino (40 posti), Genova (50 posti). Il Comune di Roma non ha presentato alcuna richiesta. Anche il Comune più volenteroso, però, non è ancora riuscito ad attivare i suoi 300 posti. «Ha individuato le associazioni, ma queste devono stilare un progetto di integrazione, trovare le case, e fare altre cose per cui ci vuole tempo», spiega Miraglia dell'ARCI.
Per alcuni, la macchina amministrativa dello stato sta facendo quello che può con le risorse che ha a disposizione. Altri sono convinti che ci si poteva muovere molto tempo prima.
«Già da gennaio sapevamo che avremmo dovuto smobilitare il contingente italiano dall'Afghanistan», ricorda al Post Oliviero Forti, responsabile nazionale delle Politiche migratorie di Caritas. «Lo stato avrebbe potuto avviare le evacuazioni prima di agosto. L'emergenza era parzialmente inevitabile, ma una parte delle persone poteva essere trasferita in anticipo», magari alla fine di un percorso di graduale avvicinamento. Nessun paese europeo, però, ha preso provvedimenti di questo tipo.
La confusione e la fretta di quei giorni hanno fatto sì che i posti rimasti nei SAI siano stati rapidamente occupati dalle persone in assoluto più vulnerabili, mentre tutte le altre sono state alloggiate nei CAS, dove le reti di supporto, se esistono, sono informali e volontarie. Lanzoni racconta di gestori e operatori di CAS che hanno fatto di tutto per mettere a proprio agio i nuovi arrivati e favorire la loro integrazione; ma anche di una coppia di afghane, madre e figlia, sistemate in una casa isolata in un paesino sperduto della Toscana, da dove chiesero di essere trasferite perché ne erano terrorizzate. Le due afghane non sono le uniche a cui è capitata un'esperienza simile, spiega Lanzoni.
«Scappare di casa in tutta fretta, scavalcare un muro dell'aeroporto, per poi alla fine arrivare in un luogo che non si sa nemmeno indicare su una mappa, magari accanto a persone che vengono da altri contesti e paesi come la Nigeria o il Mali, rallenta e mette a rischio i percorsi di integrazione», dice Forti di Caritas.
Tutti gli operatori raccontano di afghani arrivati in Italia e poi scappati poco dopo, verosimilmente verso i paesi del nord. I dati forniti al Post dal ministero permettono di farsi un'idea di quanti siano. Le persone arrivate in Italia col ponte aereo da Kabul e inserite nel sistema di accoglienza sono state 4.732. Di queste, 3.671 si trovano ancora nel sistema. Invece 1.061, cioè poco più di una su cinque, se ne sono andati dall'Italia.
Molti, verosimilmente, hanno raggiunto parenti e amici che si trovano in Germania o nei paesi più a nord come Svezia e Danimarca. Non sappiamo esattamente quanti se ne siano andati per via delle condizioni trovate al loro arrivo in Italia.
Per quelli che hanno scelto di rimanere, le cose si stanno lentamente mettendo a posto.
Proprio in queste settimane gli operatori riferiscono che sono in corso trasferimenti di intere famiglie dai CAS alle strutture SAI. Nel frattempo il ministero dell'Interno fa sapere che sono state presentate 2.535 domande d'asilo, di cui 1.778 già concluse. A parte alcuni casi isolati, a tutti gli afghani arrivati col ponte aereo è stato garantito lo status di rifugiato, cioè la forma di protezione che garantisce maggiori tutele. Miraglia stima che entro il 2022, «forse addirittura entro l'estate», verranno esaminate le richieste di tutti: cosa che garantirà almeno un po' di stabilità a persone che non hanno avuto una vita facile, negli ultimi mesi.