Il Freedom Convoy potrebbe diventare un problema
La protesta nata tra i camionisti canadesi sta diventando un movimento di rilievo e sta creando sempre più difficoltà a governi e forze dell'ordine
La protesta contro le restrizioni per il coronavirus nota come “Freedom Convoy”, cominciata tra i camionisti canadesi di Ottawa, si è progressivamente allargata altrove e ha raggiunto Stati Uniti, Europa, Australia e Nuova Zelanda. Il modo in cui è evoluta sta suscitando parecchie preoccupazioni: benché numericamente piuttosto limitata, sta cominciando a creare problemi logistici e diverse difficoltà per le autorità e le forze dell’ordine. Se la sua espansione dovesse continuare, come sembra in questi giorni, fermarla potrebbe non essere facile.
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La protesta dei camionisti canadesi, stando alla loro pagina Facebook, è nata il 15 gennaio, con l’inserimento, da parte del governo canadese, dell’obbligo vaccinale per i trasportatori che entravano in Canada arrivando dagli Stati Uniti: secondo il piccolo gruppo di camionisti della provincia di Alberta che l’aveva organizzata, il governo aveva «oltrepassato il limite». La protesta si era poi progressivamente allargata fino a comprendere, di fatto, tutte le restrizioni in vigore per il contenimento dei contagi, tra cui lockdown, limiti agli assembramenti e mascherine.
In breve tempo il centro della protesta era diventato Ottawa, la capitale del Canada, dove centinaia di camionisti hanno bloccato il traffico parcheggiando in mezzo alla strada i propri veicoli e suonando i clacson per ore. La protesta, in cui sono comparsi anche simpatizzanti dell’estrema destra, ha avuto poi un’enorme diffusione online, tra gruppi Facebook e Telegram, milioni di dollari raccolti in petizioni e l’aperto sostegno di personaggi pubblici seguitissimi, tra cui l’ex presidente americano Donald Trump, l’imprenditore Elon Musk e, in Europa, la politica di estrema destra Marine Le Pen.
Il motivo per cui si sta parlando sempre di più di queste proteste, però, riguarda soprattutto la loro espansione ben oltre i confini di Ottawa.
Prima di tutto negli Stati Uniti, i cui camionisti erano in parte coinvolti nelle stesse proteste di Ottawa: uno degli organizzatori ha detto al New York Times che proteste simili a quella canadese sarebbero state pianificate «dalla California a Washington», e in questi giorni si sta parlando di quella più imminente, che sembra essere prevista per questo fine settimana a Los Angeles, dove tra l’altro ci sarà il Super Bowl, l’attesa finale del campionato di football americano. Pare che la protesta si sposterà poi a est, forse proprio verso Washington.
La protesta ha raggiunto anche l’Australia, dove col cosiddetto «convoglio a Canberra» sono arrivati in città camion, rimorchi, camper e macchine, come a Ottawa. Ma anche la Nuova Zelanda e l’Europa. Secondo Politico ci sono progetti per organizzare proteste in numerosi paesi: per ora il Freedom Convoy è stato organizzato a Helsinki, in Finlandia, a Parigi e a Bruxelles, dove tra l’altro nei mesi scorsi ci sono già state violente e partecipate proteste contro le restrizioni.
Per cercare di contenere la protesta, i vari governi hanno adottato misure diverse. A Ottawa, il 6 febbraio, il sindaco Jim Watson aveva dichiarato lo stato di emergenza, dicendo che la situazione era «completamente fuori controllo» e che i poliziotti non riuscivano a contenere le proteste, anche perché erano numericamente inferiori ai manifestanti: con lo stato di emergenza, il sindaco aveva potuto chiedere rinforzi a livello provinciale e federale, e in città erano arrivati altri 1.800 poliziotti. Ne erano seguiti una ventina di arresti e oltre un migliaio di multe. Venerdì anche la provincia dell’Ontario ha dichiarato lo stato d’emergenza, cosa che potrebbe dare ulteriori mezzi contro i camionisti che protestano (che potrebbero, per esempio, vedersi revocata la propria licenza).
In Nuova Zelanda, lo scorso giovedì, la polizia ha arrestato oltre 120 persone che da tre giorni occupavano l’area del Parlamento a Wellington, la capitale del paese, ispirandosi apertamente alle manifestazioni dei camionisti di Ottawa.
A Parigi e altrove sono state invece adottate misure preventive: la protesta è stata direttamente vietata. Il numero imprecisato di camionisti e automobilisti che avrebbe dovuto bloccare con i propri veicoli la città non potrà entrare in centro, e chi violerà le regole rischia la sospensione della patente fino a tre anni, 4.500 euro di multa e fino a due anni di prigione. Nonostante questo, nel fine settimana vari manifestanti hanno annunciato che potrebbero cercare ugualmente di protestare. Anche a Bruxelles e a Toronto, in Canada, la protesta è stata preventivamente vietata.
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L’adozione di misure preventive da parte di alcuni governi fa capire quanto i possibili sviluppi del Freedom Convoy siano temuti e guardati con una certa preoccupazione. A Ottawa, da cui tutto è partito, sono anche state fatte diverse ipotesi su come potrebbero evolvere le cose: dalla più rosea, cioè che il Freedom Convoy si estingua da solo, alla più pessimista, cioè che venga messo di mezzo l’esercito per reprimerlo. Questi timori hanno diverse ragioni.
La prima riguarda la possibilità che il Freedom Convoy continui a espandersi, magari trasformandosi in un movimento globale, come sostenuto da alcuni osservatori. Il modo in cui la protesta è nata e si è evoluta rende quest’ipotesi quantomeno plausibile: benché sia nata in un contesto molto specifico, la protesta è finita per diventare onnicomprensiva, contro tutte le restrizioni contro il coronavirus, e ha preso piede anche in luoghi lontani e completamente diversi, contro regole che, di fatto, sono ancora in vigore un po’ ovunque (e, nel caso dei vaccini, lo saranno anche in futuro).
La seconda ragione ha a che fare col fatto che, benché contenuta numericamente, il Freedom Convoy può comunque avere un impatto molto significativo sull’economia dei vari paesi e sul normale svolgimento delle attività quotidiane.
Al Freedom Convoy, almeno per ora, ha partecipato qualche migliaio di persone: alle proteste per la morte di George Floyd, per fare un paragone noto e recente, avevano partecipato tra i 15 e i 26 milioni di persone (solo negli Stati Uniti). Il Freedom Convoy, però, è già riuscito a creare grossi problemi logistici: in queste ore si sta parlando molto del blocco dell’Ambassador Bridge, il ponte che collega Detroit, in Michigan, a Windsor, in Ontario (Canada). Il ponte, di solito trafficatissimo, permette quasi un terzo dei commerci tra Stati Uniti e Canada, e ogni giorno ci passano moltissimi camion, con carichi da centinaia di migliaia di dollari, che a loro volta permettono a varie industrie, soprattutto automobilistiche, di procedere con le proprie attività.
Da giorni il ponte è parzialmente bloccato dai manifestanti, e aziende come Ford, Toyota, Honda e General Motors hanno già dovuto sospendere le proprie attività in alcuni stabilimenti o ridurle, in mancanza dei rifornimenti necessari per procedere a pieno ritmo. Venerdì sera il giudice della Corte Suprema dell’Ontario, Geoffrey Morawetz, ha firmato un’ordinanza con cui ha imposto ai camionisti radunati sul ponte di andare via. A una decina di ore dall’entrata in vigore del provvedimento, però, c’è ancora un centinaio di camionisti sull’Ambassador Bridge.
Il blocco si è aggiunto ad altre interruzioni che c’erano state nella catena di approvvigionamento durante la pandemia: se il Freedom Convoy evolvesse così anche altrove le conseguenze sarebbero significative. In questi giorni, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha definito la protesta una minaccia per l’economia canadese.
Un’ultima ragione per cui le proteste del Freedom Convoy sono guardate con molta attenzione riguarda il modo in cui si deciderà di gestirle. In questi giorni, col blocco dell’Ambassador Bridge, gli Stati Uniti hanno chiesto al Canada di intervenire a livello federale per fermare le proteste. Cosa che fino ad ora il primo ministro canadese Justin Trudeau non ha fatto, per varie ragioni, anche radicate nella cultura politica canadese e nel modo in cui è gestita la polizia in Canada.
Di fatto però, al di là dei personaggi che la sostengono e delle retoriche anche aggressive ed estremiste dei partecipanti, il Freedom Convoy è rimasto almeno per ora una protesta tutto sommato pacifica: secondo un editoriale del New York Times, gestirla richiederà bilanciare il mantenimento di posizioni ferme sulle richieste dei manifestanti con il garantire il diritto di protesta, senza alimentare ulteriori conflitti.
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