L’ossessione di Putin per l’Ucraina
Gli interventi della Russia nel paese dipendono anche da antiche ambizioni imperiali e dall'idea, traballante, che russi e ucraini siano "un solo popolo"
di Eugenio Cau
Le ragioni per cui il presidente russo Vladimir Putin sta minacciando la seconda invasione dell’Ucraina in meno di dieci anni riguardano soprattutto la strategia militare e la geopolitica: tra le altre cose Putin vuole impedire l’espansione della NATO in Ucraina (espansione che peraltro la NATO non ha nessuna intenzione di mettere in atto) e limitare la presenza politica e militare dell’Occidente vicino ai confini russi (che invece si è estesa negli ultimi vent’anni). Un’altra ragione molto citata dallo stesso Putin, e usata soprattutto nella propaganda interna, riguarda la storia.
Da diversi anni Putin sostiene pubblicamente che russi e ucraini siano «un solo popolo». Lo disse nel 2014 in occasione dell’annessione della Crimea, lo ha ripetuto frequentemente durante le interviste e negli interventi pubblici e lo ha spiegato lungamente in un saggio verboso pubblicato nel luglio del 2021 e intitolato “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”, in cui Putin scriveva di «credere fermamente» che i due popoli siano «una sola unità».
La convinzione che russi e ucraini siano un solo popolo si esprime anche nella sua conseguenza più evidente: un solo popolo non ha bisogno di due stati, e chiunque provi a dividerlo sta andando contro la storia. Per questo Putin ritiene che la fine dell’Unione Sovietica, che comportò tra le altre cose la separazione tra Russia e Ucraina, abbia avuto come conseguenza la disastrosa «disintegrazione della Russia storica», intendendo con questo che i confini della Russia storicamente intesi dovrebbero comprendere anche il territorio ucraino (e quello della Bielorussia).
Portando poi questo ragionamento alle estreme conseguenze, più e più volte Putin e i suoi alleati politici hanno sostenuto che l’Ucraina «non è nemmeno uno stato». In un’intervista di qualche tempo fa, Vladislav Surkov, consigliere di Putin sulla questione ucraina poi caduto in disgrazia, disse che l’Ucraina non è una nazione ma «uno stupefacente entusiasmo per l’etnografia, portato agli estremi».
Secondo vari esperti, Putin ha una specie di ossessione nei confronti dell’Ucraina, e quest’ossessione è condivisa con il resto dell’establishment russo che, come ha scritto di recente l’Economist, «non ha mai accettato l’indipendenza» del paese. L’ossessione si alimenta di interpretazioni parziali della storia e teorie sulla formazione etnica dei popoli russo e ucraino, oltre che su pretese imperialistiche che risalgono al periodo sovietico, e in alcuni casi ancora prima, al periodo zarista.
Ma il problema principale, come stiamo vedendo in questi mesi di tensioni militari, e come si vede in realtà ormai da un decennio, è che l’ossessione russa nei confronti dell’Ucraina non è ricambiata.
Nel suo saggio, Putin ha scritto che la ragione principale per cui russi e ucraini (e anche i bielorussi) sarebbero oggi lo stesso popolo è che tutti sono «discendenti» della cosiddetta Rus di Kiev, cioè un insieme di tribù slave, baltiche e finniche che nel Nono secolo creò una lasca entità monarchica che si estendeva dal mare Bianco nel nord al mar Nero nel sud, e che dunque comprendeva parte dell’attuale territorio ucraino, bielorusso e russo. L’unità della Rus di Kiev, consacrata dalla conversione al cristianesimo ortodosso, è per Putin il fondamento della cultura russa che ancora oggi lega assieme i tre popoli. Tutto questo, prima ancora che Mosca fosse fondata.
Molti storici oggi sostengono che questa interpretazione della Rus di Kiev debba essere considerata un mito. Non tanto perché la Rus di Kiev non abbia avuto un ruolo nelle varie formazioni che sono venute dopo, quanto perché trarre conclusioni politiche da fatti storici avvenuti oltre un millennio fa è piuttosto irragionevole.
Inoltre la Rus di Kiev si divise ben presto. Semplificando molto, fu invasa dai mongoli, che mantennero per qualche secolo il controllo della parte russa, mentre i territori dell’attuale Ucraina furono dominati in vari modi da lituani, polacchi, svedesi e in parte anche dall’impero austroungarico. La lingua ucraina si sviluppò separatamente da quella russa, e per secoli l’aristocrazia ucraina, soprattutto nella parte occidentale del paese, rimase legata all’Europa continentale.
Anche quando l’impero zarista conquistò nel Diciottesimo secolo buona parte dell’attuale territorio ucraino, i programmi di integrazione culturale e linguistica della “piccola Russia” (così era chiamata una parte di territorio ucraino sotto l’impero russo) non ebbero mai pieno successo.
I tentativi di integrazione proseguirono anche dopo la Rivoluzione russa, con risultati alterni. Non contribuì alla causa russa il fatto che i coltivatori locali furono tra le principali vittime delle disastrose politiche agricole di Stalin, che unite alla repressione all’inizio degli anni Trenta provocarono la morte di milioni di ucraini (le stime variano dai tre ai cinque milioni di persone) e che oggi sono considerate un genocidio da molti ucraini.
Ciò non significa che i legami storici, culturali e linguistici tra Russia e Ucraina non siano fortissimi: oggi la maggior parte degli ucraini è bilingue, e soprattutto nella parte orientale del paese (quella occupata dalle forze separatiste filo-russe, per non parlare della Crimea, che è stata annessa) la maggior parte degli abitanti ha origine russa e parla il russo come lingua principale. Questo vale anche per Volodymyr Zelensky, il presidente del paese, che viene dalle regioni orientali e, benché sia bilingue, parla il russo più fluentemente dell’ucraino.
Ma, come ha scritto l’Economist, mentre per la maggior parte degli ucraini questi legami e vicinanze fanno parte di un importante patrimonio storico, per i russi sono un elemento identitario: «Per secoli l’Ucraina ha determinato l’identità russa. […] L’idea che Kiev potesse essere soltanto la capitale di uno stato vicino era impensabile per i russi. Ma non lo era per gli ucraini».
L’Ucraina è sempre stata al centro dei progetti imperiali russi, e perdere il dominio sul paese significava, di fatto, rinunciare alla possibilità di un impero.
Lo si vide con il crollo dell’Unione Sovietica, il cui scioglimento come entità politica fu deciso definitivamente nella notte dell’8 dicembre 1991 nella dacia di Belaveža, in Bielorussia, dopo un lunghissimo incontro tra il presidente russo Boris Yeltsin, quello ucraino Leonid Kravchuk e quello bielorusso Stanislav Shushkevich. In quel periodo, l’economia russa era al collasso e fu Yeltsin a farsi promotore, benché riluttante, della dissoluzione dell’Unione Sovietica, con l’obiettivo di concentrarsi soltanto sulla Russia, sganciare i pesi morti delle altre repubbliche e l’onere delle ambizioni imperiali sovietiche.
La decisione di dissolvere l’Unione Sovietica e rinunciare a ogni forma di controllo ufficiale su Ucraina e Bielorussa fu estremamente complessa, non soltanto perché l’Ucraina era la seconda economia dell’Unione e conservava sul suo territorio abbastanza testate nucleari da essere la terza potenza mondiale in questo settore (la questione poi fu risolta con l’accordo di Budapest del 1994). Quando Mikhail Gorbachev, che era ancora presidente dell’Unione Sovietica, seppe della decisione di Yeltsin, si infuriò, tra le altre cose perché sua madre era ucraina, e lui stesso aveva trascorso l’infanzia immerso nella cultura ucraina: rinunciare all’Ucraina significava rinunciare a un pezzo di identità.
In quel periodo Alexander Solzhenitsyn, uno degli intellettuali russi più influenti del Novecento, aveva da poco pubblicato un saggio intitolato Come ricostruire la nostra Russia in cui, tra le altre cose, esortava l’Unione Sovietica a concedere l’indipendenza alle repubbliche sovietiche non slave (cioè quelle dell’Asia centrale), e a costruire un grande stato slavo che comprendesse Russia, Ucraina, Bielorussia e parte del Kazakistan.
E se questo non fosse stato possibile, in ogni caso i legami tra i popoli slavi e russificati avrebbero dovuto essere mantenuti a ogni costo. Anche Solzhenitsyn, come Putin e altri, citava tra le ragioni di questa unione la Rus di Kiev e la religione ortodossa, tra le altre cose.
Negli ultimi anni la Russia di Putin è intervenuta in tutti i paesi citati da Solzhenitsyn, attraverso azioni militari o inviando aiuti ai dittatori locali. Ma appunto, il problema principale di quest’ossessione russa per l’Ucraina è che non è ricambiata.
Già da decenni l’Ucraina e la sua società gravitano verso l’Europa e l’Occidente. Con l’accordo di Budapest del 1994, l’Ucraina accettò di consegnare tutte le sue armi nucleari in cambio della garanzia che la Russia avrebbe rispettato i suoi confini (promessa rimangiata due decenni dopo). Nel 2004 la “rivoluzione arancione”, in difesa della vittoria elettorale del candidato filo europeo Viktor Yushenko, fu per Putin il primo allarme del fatto che rischiava di perdere la sua influenza sull’Ucraina, confermato poi dalle proteste di Kiev del 2014, che sfociarono nella tesa situazione attuale.
Oggi, il 90 per cento degli ucraini vuole che il paese resti indipendente, e i sentimenti di vicinanza all’Europa sono molto forti soprattutto tra i giovani che non hanno vissuto l’epoca dell’Unione Sovietica: tra i nati dopo il 1991, il 75 per cento vorrebbe entrare nell’Unione Europea. Perfino nella parte orientale del paese, dove buona parte della popolazione ha origini russe, quasi il 60 per cento dei giovani vorrebbe entrare nell’Unione (a livello dell’intera popolazione, i favorevoli all’ingresso nell’Unione sono il 62 per cento).
E come ha detto la giornalista ucraina Nataliya Gumenyuk al New Yorker, per il regime di Vladimir Putin non costituisce una minaccia soltanto l’indipendenza dell’Ucraina, ma anche la sua libertà e democrazia, benché imperfette: «Putin si sente offeso e tradito dall’Ucraina e dagli ucraini, non soltanto dal governo ucraino. E penso che per lui sia piuttosto importante provare che no, la democrazia in Ucraina non è davvero genuina, che è stata imposta dall’Occidente. Perché ammettere che le società possono essere democratiche autonomamente significa ammettere che il cambiamento è possibile in Bielorussia, in Georgia e perfino in Russia».