Come funzionano i dischi d’oro, di platino e di diamante
Storia, evoluzioni e curiosità sui simboli del successo discografico in Italia (che peraltro sono targhette, non dischi)
In ambito musicale, succede spesso che si parli di dischi d’oro, di platino e di diamante. Sono riconoscimenti citati più volte in questi giorni al Festival di Sanremo, quando vengono presentati gruppi o cantanti e si vuole sottolinearne il successo commerciale. Capita poi spesso di sentire i rapper che elencano i propri per competizione con i rivali. Spesso si sente dire che i cantanti li “vincono”, anche se in realtà si tratta per l’appunto di riconoscimenti ottenuti di fatto automaticamente al raggiungimento di certi risultati, e non vengono assegnati da nessuna giuria.
Ci sono probabilmente molte cose che i non addetti ai lavori non sanno sui dischi d’oro, di platino e di diamante, che ovviamente non sono davvero d’oro, di platino o di diamante. Per esempio che si ottengono sia per i dischi (o album) sia per i singoli e, cosa forse un po’ più spiazzante, che non sono dischi bensì targhette.
L’assegnazione di questi riconoscimenti avviene al raggiungimento di determinate soglie di vendita e di ascolto certificate con cadenza settimanale dalla FIMI – la Federazione Industria Musicale Italiana, che rappresenta imprese discografiche produttrice e distributrici – in collaborazione con la società di analisi dei dati GFK. Sulla base di parametri che nel tempo sono cambiati più volte (l’ultima qualche settimana fa) e che da qualche anno tengono in sempre maggiore considerazione gli ascolti in streaming, oltre che le ormai marginali copie fisiche vendute nei negozi.
L’assegnazione di particolari dischi per certificare il raggiungimento di determinati risultati di vendita è una pratica che iniziò negli Stati Uniti degli anni Trenta. All’inizio a farlo furono alcune case discografiche, in modo autonomo, per pubblicizzare i traguardi dei rispettivi artisti. Allora a essere consegnati erano spesso veri vinili, magari con incisa sopra qualche traccia non necessariamente legata a chi li riceveva. Alla fine degli anni Cinquanta l’abitudine di consegnare dischi come premi fu poi ufficializzata dalla RIAA, l’associazione dei discografici statunitensi, la quale decise che per avere un disco d’oro era necessario aver venduto ai negozi un milione di copie di determinati singoli o album (a prescindere dal fatto che poi i clienti li comprassero o meno).
Nella seconda metà del Novecento certificazioni simili furono adottate anche in altri paesi: i criteri di assegnazione furono adattati alle dimensioni di ogni mercato, e poi in seguito al crescere o diminuire del volume di vendite con il susseguirsi di supporti diversi: prima le musicassette e i Compact Disc, che tra gli anni Settanta e Ottanta sostituirono progressivamente i vinili, e poi a partire dagli anni Duemila la musica digitale. Negli anni, insomma, le soglie necessarie per certi riconoscimenti furono prima abbassate e poi, con l’arrivo dello streaming, di fatto reinventate.
In Italia, FIMI e GFK iniziarono a stilare classifiche di vendita – e quindi ad assegnare certificazioni per certi traguardi raggiunti – nel 2010. Rossella Lo Faro, responsabile della comunicazione di FIMI, dice che «prima non c’era un ente che effettivamente regolasse ufficialmente classifiche e certificazione di vendita, per cui ciascuna casa discografica dichiarava il proprio venduto senza che un ente dall’alto potesse valutare i dati comunicati». Addirittura, aggiunge, «c’erano i cosiddetti platini in prenotazione», che le case discografiche si facevano da sole prima ancora che gli album uscissero.
All’inizio FIMI contava solo le vendite di copie fisiche, poi furono aggiunti i download e, nel 2017, le riproduzioni in streaming su piattaforme come Spotify, Deezer o Google Music. Per considerarle, però, fu necessario fare una conversione stabilendo quante riproduzioni fossero diventate l’equivalente di quello che un tempo era una copia di un disco venduta in un negozio: non fu facile, e ancora oggi i criteri sono di frequente messi in discussione.
Per conteggiare gli ascolti di musica online, la FIMI considera che 130 riproduzioni in streaming valgono quanto un download digitale a pagamento, e che un download digitale a pagamento corrisponde a un acquisto fisico. La FIMI spiega che «vengono conteggiati fino a un massimo di 10 ascolti per utente al giorno» e che «sono escluse le tracce streaming con durata inferiore a 30 secondi, gli streaming via radio e gli ascolti su piattaforme di video streaming».
Soprattutto, vengono conteggiate solo le riproduzioni “streaming premium”, cioè quelle fatte da utenti abbonati alle versioni a pagamento di piattaforme come Spotify: se siete tra quelli che ascoltano la pubblicità, quindi, i vostri ascolti non contano. Così come non contano quelli su YouTube. Secondo molti, comunque, si tratta di parametri più laschi di quelli di un tempo: perché 130 persone che ascoltano una canzone inserita in una playlist assai popolare di Spotify non sono la stessa cosa di una persona che un tempo usciva di casa e andava in un negozio a comprare un singolo, oppure che spendeva qualche euro per comprarlo online.
Questo abbassamento delle asticelle è il risultato di un settore economico e artistico completamente ribaltato dall’arrivo della musica in streaming e dai modelli economici adottati dalle piattaforme, che retribuiscono agli artisti una frazione di centesimo di euro per ogni singolo ascolto ricevuto perché fanno affidamento su utenti ormai disposti a spendere poco per ascoltare la musica. Le abitudini e il livello di impegno dei fruitori di musica è radicalmente cambiato negli ultimi vent’anni, e soprattutto negli ultimi dieci: e abbassare le soglie è stata di fatto una forma di adattamento naturale per l’industria discografica. Se i dischi d’oro si ottenessero ancora come li ottenevano le popstar degli anni Settanta e Ottanta, sarebbe un riconoscimento riservato a molti meno cantanti.
Ma questo processo di adattamento ha dovuto correggersi in corso d’opera, proprio perché per anni si sono adottate soglie troppo basse. Il più recente tra le modifiche delle soglie di vendita necessarie per ottenere dischi d’oro e di platino è in vigore da quest’anno. Fino al 2021, per avere il disco d’oro o di platino grazie a un singolo bastavano infatti 35mila e 70mila copie vendute, che ora sono diventate 50mila e 100mila. Sono invece rimaste invariate le soglie relative ai riconoscimenti per le vendite di “Album & Compilation”: sono ancora 25mila per l’oro e 50mila per il platino.
Sia per i singoli che per gli album, si possono ricevere più dischi di platino. Un singolo che superi le 200mila copie ottiene per esempio due dischi di platino (più noto come “doppio platino”). E così via fino alla soglia delle 900mila copie, corrispondente a nove dischi di platino. Per un singolo, la soglia del milione corrisponde poi al disco di diamante. Nel caso degli album, per il disco di diamante bastano invece 500mila copie.
Fare i paragoni col passato può essere fuorviante, perché quelle sulle vendite sono sempre state stime in molti casi esagerate per ragioni promozionali e spesso fatte dalle stesse case discografiche. Quella che viene associata a Thriller, il disco di Michael Jackson che è tuttora il più venduto della storia, è di 30 milioni di copie nel mondo poco più di un anno dopo l’uscita. Nel 1995 il disco Io sono qui di Claudio Baglioni fu accompagnato dalla stima di circa 400mila copie in due settimane, mentre quella più conservativa che circola su Squérez dei Lunapop è di più di un milione di copie nei primi due anni di uscita, tra il 1999 e il 2001. Vanno prese con delle belle pinze.
La FIMI – che già qualche anno fa aveva alzato da 25mila a 35mila la soglia per ottenere il disco d’oro con un singolo – ha motivato la recente scelta di alzare le soglie di vendita con numeri che spiegano bene quanto negli ultimi anni fossero aumentati i dischi (soprattutto d’oro, ma anche di platino) assegnati per i singoli. Cosa che comportava una conseguente svalutazione del riconoscimento. Nel 2015 i dischi d’oro erano stati 105, poi dal 2016 al 2019 furono rispettivamente 262, 440, 397 e 602. Nel 2020, anno in cui a causa della pandemia erano usciti pochi dischi (che vengono ormai programmati in modo da essere accompagnati dai tour, rimasti una delle più rilevanti fonti di ricavo per i musicisti), erano stati comunque oltre 500.
Nel gennaio di quell’anno il giornalista Alberto Scotti scrisse sul Fatto Quotidiano un articolo intitolato “Anche il tuo vicino di casa ha vinto un disco d’oro?”, in cui notò: «negli ultimi anni la soglia davvero troppo bassa per le certificazioni ha fatto sì che queste abbiano perso quel valore, quell’aura di sacralità che davano peso al successo della musica». Nello stesso periodo, erano invece rimasti più stabili i dischi assegnati per le vendite di “Album & Compilation”. Nel 2020 i dischi d’oro per “Album & Compilation” furono 80.
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C’è poi la questione non trascurabile che i dischi sono targhette. La FIMI, infatti, non produce, commissiona o spedisce nessun disco. I dischi si aggiungono poi, ognuno come gli pare: «sono abbellimenti estetici di plastica e non hanno alcun valore», dice Emiliano Colasanti, fondatore dell’etichetta 42 Records. Contano solo le targhette.
Lo Faro spiega che ogni lunedì FIMI elabora e comunica chi ha raggiunto determinate soglie e ha quindi diritto di richiedere dischi d’oro, di platino o di diamante. A quel punto le case discografiche (ma talvolta anche altre figure come produttori, manager o autori, e in un paio di caso addirittura gli artisti stessi) scrivono alla FIMI (c’è anche un modulo per farlo rapidamente online) per richiedere una o più targhette che attestino il risultato raggiunto. «Il 75 per cento circa delle richieste arriva dalle major» dice Lo Faro, e in genere «l’80 per cento delle richieste riguarda certificazioni recenti», ma c’è anche chi chiede ora targhette relative a certificazioni di qualche anno fa.
Fino a un paio di anni fa, dice Lo Faro, «le targhette le producevamo qui, poi visto che i numeri aumentavano abbiamo esternalizzato la produzione». Tuttavia, le targhette passano ancora tutte dalla FIMI perché venga aggiunto un apposito ologramma, che riproduce il marchio registrato “Top of The Music”.
A prescindere dal fatto che riguardi dischi d’oro, di platino o di diamante, ogni etichetta costa 24,40 euro, a cui si aggiungono le spese di spedizione a carico di chi la richiede.
Non c’è un numero stabile di targhette che la FIMI spedisce ogni settimana, perché varia il numero di singoli e album che raggiungono le certificazioni («nelle ultime settimane del 2020 certificavamo anche 20 o 30 singoli a settimana», ricorda Lo Faro), e poi perché non si può sapere se chi ha diritto a una targhetta ne richiederà una o più.
Lo Faro dice che di recente molte targhette le ha richieste la Sugar, la casa discografica di Madame e Sangiovanni, e che nel 2021 ne sono state fatte molte per Blanco, che addirittura ha raggiunto la certificazione con tutte le canzoni del suo album di debutto. Lo Faro aggiunge che uno degli artisti che negli ultimi anni hanno raccolto più certificazioni è Ultimo, e che quindi Believe, la società che ne distribuisce gli album, ha commissionato molte relative targhette. A proposito di Ultimo e di rap che parla di dischi di platino: nella prima canzone del suo album Noi, loro, gli altri, Marracash dice:
Sono al quinto platino e so che non è l’ultimo
Sono al quinto platino e non sono Ultimo
È anche successo che la casa discografica di Sfera Ebbasta chiedesse un po’ più delle due-tre targhette che in genere si chiedono, per metterne alcune, da destinare ai fan, in dei cofanetti speciali di un suo disco. In genere, dice Lo Faro, le case discografiche tendono a ordinarle prima di tour o concerti importanti, oppure prima di Natale o del compleanno di chi se le è meritate (e quindi per regalarle), o magari in occasioni di ospitate in tv, così che qualcuno le consegni agli artisti.
Di fatto, comunque, la FIMI spedisce e consegna solo delle targhette. I dischi e le cornici ce le aggiunge la casa discografica o comunque chi le riceve, a volte mettendone insieme diverse. Non essendo quella la parte importante, i dischi ognuno se li fa come preferisce: «decidi tu la forma grafica che può avere, io cerco di farli supersobri» dice Colasanti, «stile anni Sessanta».
Sempre Colasanti dice che, per quanto lo riguarda, ha qualche disco d’oro e di platino, ma aggiunge: «ho un rapporto un po’ conflittuale con questa cosa, che trovo come una messa in scena dell’impero che non mi piace, in cui non mi ritrovo». Li ha in ufficio, dice, ma non appesi alle pareti.
Sul significato che i dischi d’oro, di platino o d’argento possono avere verso il pubblico, dice: «non credo che il fatto di dire che un pezzo ha fatto tot dischi di platino faccia vendere più dischi, credo però sia un modo per spiegare in maniera molto facile al pubblico il risultato di un progetto, specie in un’epoca in cui mettersi a spiegare le vendite non è più possibile come qualche decennio fa». Fa l’esempio di Sanremo, «dove in questi anni è stato fatto un cambiamento generazionale in virtù del quale sono stati inclusi tra i big una serie di nomi probabilmente poco noti al pubblico di Rai 1». In questo senso, dichiarare quanti dischi di platino ha raggiunto un artista è quindi un modo per motivarne la presenza e dare agli spettatori una misura della sua grandezza e rilevanza.
Per i più curiosi, l’archivio di tutte le certificazioni, settimana per settimana, è qui, e un archivio un po’ più comodo da consultare è invece qui. Per chi non è così curioso e si accontenta di un esempio, nella quarta settimana del 2022 hanno raggiunto la soglia per il platino i singoli “Come nelle canzoni” di Coez e “Sapore” di Fedez e Tedua. È invece arrivato al disco d’oro il singolo “Solite pare” di Sick Luke, tha Supreme e Sfera Ebbasta. Sono solo tre per via delle nuove soglie più stringenti in vigore dal 2022.
Nell’ultima settimana tra gli album che hanno raggiunto la soglia per il disco d’oro, insieme a quelli di Iron Maiden e Machine Gun Kelly, c’è Una donna per amico di Lucio Battisti, uscito nel 1978. Come scrive la FIMI, succede perché «nel passato i dischi d’oro e di platino venivano assegnati in Italia sulla base di autocertificazioni delle aziende e non era disponibile un sistema di monitoraggio ufficiale», sicché «può capitare che solo adesso album con una lunga storia nella musica o grandi hit del passato raggiungono le più piccole soglie».
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