Le carenze della politica migratoria europea in un campo profughi in Bosnia
Nel campo di Lipa, costruito in gran parte con i soldi dell'Unione, i migranti sono isolati e lasciati senza vere alternative
Lo scorso novembre è stato inaugurato a Lipa, nel nord della Bosnia, un nuovo campo per migranti, quasi un anno dopo il grave incendio che nel dicembre del 2020 distrusse completamente un accampamento spontaneo non lontano: allora quasi 2.000 uomini, donne e bambini rimasero senza riparo e assistenza nel rigido inverno bosniaco, attirando brevemente l’attenzione dei media di tutta Europa.
Il nuovo campo è gestito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM, agenzia collegata alle Nazioni Unite) e finanziato principalmente dall’Unione Europea e dai governi di Austria, Germania, Svizzera e Italia. Può ospitare fino a 1.500 persone, e sulla carta la prima ragione della sua costruzione riguarda la necessità di rispondere alle esigenze di base dei migranti bloccati sul confine bosniaco-croato, che altrimenti sarebbero alloggiati in accampamenti di fortuna, senza elettricità e acqua corrente, in balia di freddo ed eventi atmosferici.
Ma il campo di Lipa è anche un esempio dei limiti della politica dell’Unione Europea nella gestione dei flussi migratori ai suoi confini: la costruzione di campi come quello di Lipa risponde alla volontà dell’Unione di tenere i migranti fuori dal suo territorio, dove invece il regolamento di Dublino obbliga gli stati ad occuparsi di tutte le richieste di asilo.
Il campo è situato su un altopiano distante decine di chilometri dal primo centro abitato, e i migranti vivono isolati e sorvegliati dalla polizia bosniaca. Attraverso l’OIM e i governi locali, viene offerta loro la possibilità di un “rimpatrio volontario e assistito”: gli uffici nei campi organizzano ritorni a casa finanziati dai fondi dell’Unione. L’unica alternativa è tentare l’attraversamento illegale e pericoloso del confine: quasi tutti scelgono quest’ultima opzione.
L’area di Bihać, nel nord della Bosnia, è diventata dal 2018 un punto cruciale della “rotta balcanica”, la via che dalla Turchia e poi dalla Grecia risale i Balcani fino ai confini dell’Unione Europea. Qui – come a Mavrovouni, Kos e Leros in Grecia, Harmanli in Bulgaria, Kuznica in Polonia e ora Bruzgi in Bielorussia – i migranti in transito verso l’Europa occidentale vengono fermati da muri o respingimenti, raccolti, isolati e costretti in campi profughi a una lunga attesa, che può essere interrotta solo da un attraversamento illegale del confine.
In questi mesi invernali i tentativi sono resi più complessi dalle condizioni atmosferiche e i campi vivono uno stallo in attesa della primavera. Qualcuno però prova comunque il “game”, nome usato per definire i tentativi di ingresso in Croazia. La difficoltà dell’impresa ha creato in questa zona, il cantone di Una-sana, un “collo di bottiglia” che per anni ha alimentato il numero dei migranti nei pressi di Bihać, città di 30mila abitanti interessata da flussi da 5.000-6.000 presenze contemporanee.
Nel nuovo centro di Lipa oggi gli ospiti sono solo 300: per lo più siriani, afghani, pachistani e marocchini, tutti in attesa di tentare, o più spesso ritentare, il “game”. Chi ha più disponibilità economiche si affida a trafficanti che usano taxi o camion, la maggior parte si muove a piedi. È un viaggio complesso e pericoloso per via delle condizioni atmosferiche, del passaggio necessario fra boschi, passi montani e fiumi, reso ulteriormente rischioso dall’equipaggiamento di fortuna dei migranti. Il confine croato è poi fortemente presidiato dalla polizia, che impedisce l’accesso al territorio con la violenza e la pratica dei respingimenti (“pushback”), illegali secondo il diritto internazionale. I migranti intercettati dalle forze di polizia vengono respinti con la forza oltre al confine bosniaco, e viene rifiutata loro la possibilità di richiedere asilo.
Nel 2020, scriveva Politico, più di 110 testimonianze all’ong Border Violence Monitoring Network raccontavano di oltre 1.500 migranti oggetto di respingimenti attuati con trattamenti degradanti o torture: distruzione degli oggetti personali, furto di cellulari e denaro e pestaggi. I respingimenti croati sono particolarmente noti e violenti, ma non certo gli unici: la pratica è attiva anche in Grecia, in Serbia, in Slovenia e secondo alcune denunce anche ai confini orientali italiani.
Un altro pericolo del “game” è costituito dagli attraversamenti dei fiumi. Lungo la rotta balcanica non si tiene una contabilità centralizzata di morti e dispersi, il che rende impossibile stime delle vittime dei tentativi di attraversamento. L’ong Danish Refugee Council ha raccontato ad al Jazeera di aver registrato 19 casi di annegamento dall’agosto 2019, ma la stima è sicuramente al ribasso, tanto che le ong che lavorano sul posto hanno creato gruppi Facebook per raccogliere informazioni sulle persone scomparse lungo il tragitto.
Il campo profughi di Lipa, istituito su un terreno comunale nell’aprile del 2020 come risposta preventiva all’epidemia di Covid-19, nei primi mesi arrivò a contenere oltre 1.500 ospiti, con quattro dormitori da 120 posti, tende, nessuna rete idrica, una cisterna con pompe e generatori a gasolio per un funzionamento parziale della parte elettrica. Le condizioni del campo, degradanti e inumane, portarono l’OIM a stabilirne la chiusura il 23 dicembre 2020. In quei giorni, in circostanze mai chiarite, si sviluppò un incendio che distrusse del tutto il campo. Dal gennaio 2021 nella stessa zona, grazie anche alle donazioni internazionali, fu poi istituto un campo temporaneo.
Lo scorso novembre è stato infine inaugurato il nuovo Centro di Ricezione Temporanea: benché sia stato presentato come una soluzione in grado di rispondere alle esigenze dei migranti, è situato su un altipiano a 800 metri di altitudine, a due chilometri dalla strada asfaltata e a 24 chilometri da Bihać. Servono 4-5 ore di cammino per arrivare a supermercati, ospedali ma anche per entrare in contatto con qualsiasi persona che non sia ospite del campo stesso. I residenti del centro sono liberi di entrare e uscire fino alle 10 di sera, ma non è permesso loro di usare i mezzi pubblici.
L’isolamento del luogo (deciso per evitare tensioni con i residenti locali), la rete metallica che lo circonda e la sicurezza affidata dalla polizia bosniaca lo rendono simile a un centro di detenzione, spiega un rapporto di “RiVolti ai Balcani”, rete di associazioni che si occupano dei diritti dei migranti.
Rispetto al passato almeno le condizioni di base sono migliorate: è attrezzato con container da sei posti letto con riscaldamento elettrico, container igienico-sanitari, aree mensa, cucine. Il campo ha acqua corrente e luce elettrica, vengono forniti vestiti, alloggio e tre pasti al giorno e c’è una copertura Wi-Fi: la struttura insomma è in grado di rispondere ai bisogni essenziali.
Il TRC (Temporary Reception Center) è diviso in tre zone separate: 1.000 posti dedicati a uomini soli, 300 per le famiglie, 200 per i minori non accompagnati. Quasi tutti i presenti attualmente appartengono alla prima categoria: nonostante l’intenzione fosse di chiudere i campi limitrofi e spostare a Lipa anche famiglie e ragazzi, al momento le due aree a loro riservate restano vuote. Fuori dalle recinzioni del parco sono nate spontaneamente attività commerciali tenute da bosniaci: piccoli bar e spacci alimentari, più rivendite di oggetti utili per il “game”, come zaini, scarpe, salvagenti.
Negli ultimi anni nel cantone di Una-sana ci sono state proteste, anche violente, della popolazione locale contro i migranti e la politica non ha mai elaborato un piano di gestione dei flussi migratori. La Bosnia Erzegovina è uno stato molto povero e attraversato da anni da tensioni etniche che hanno portato a un frazionamento del governo centrale e delle amministrazioni locali: la stessa gestione ordinaria del paese è complessa.
Secondo l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU, tra gennaio 2018 e ottobre 2021 sono state 84mila le presenze in transito in Bosnia, numero che ha reso insostenibile la situazione negli accampamenti improvvisati sui confini. La gestione dell’emergenza è stata così delegata alle agenzie dell’ONU e all’Unione Europea. L’Unione, con la creazione dei TRC, si muove sul confine fra garantire le esigenze di base delle persone in transito ed evitare ogni altra possibile concessione che possa venir interpretata come un incentivo indiretto alle migrazioni e quindi essere osteggiata dai governi locali.
Gli interventi risultano così parziali, non risolutivi e guidati non da princìpi umanitari, ma anzi dalla necessità di sicurezza e controllo. Fortemente incentivata è la soluzione dei “rimpatri volontari assistiti” dei migranti: funzionari dell’OIM gestiscono, qui come in altri stati europei o in Libia, rientri gratuiti nei paesi d’origine, con promesse raramente mantenute, come racconta Euronews, di aiuti di reinserimento nel mondo del lavoro.
Ai confini dell’Europa sorgono così decine di campi in cui i richiedenti asilo devono scegliere fra tornare al punto di partenza dopo mesi o anni di viaggi quasi sempre traumatici, oppure restare bloccati in condizioni al limite, con nessuna prospettiva di proseguire il viaggio in modo legale, costretti a tentare la fortuna e rischiare la vita su percorsi impervi, affidandosi a trafficanti e cercando costantemente di fuggire dalle guardie di frontiera.