La memoria della Shoah senza i sopravvissuti alla Shoah
Gli ebrei scampati alla persecuzione nazista sono sempre meno, e il modo in cui si racconta l'Olocausto dovrà cambiare
Per decenni la trasmissione della memoria della Shoah, cioè del genocidio di oltre sei milioni di ebrei compiuto dal regime nazista nel corso della Seconda guerra mondiale, è stato affidato in maniera predominante alle testimonianze dirette dei sopravvissuti, i cui racconti hanno contribuito a informare ed educare milioni di persone.
Incontrare nel corso del proprio percorso scolastico un sopravvissuto della Shoah è da tempo un’esperienza comune a molti studenti, e un’esperienza che il sito dello Yad Vashem, il memoriale ufficiale delle vittime dell’Olocausto, che ha sede a Gerusalemme, definisce «decisiva» per la trasmissione della memoria: «È fondamentale che l’esperienza umana delle vittime sia raccontata in prima persona affinché essa possa essere, almeno in parte, compresa».
Ormai da diversi anni, e per ovvie questioni anagrafiche, i sopravvissuti della Shoah sono però sempre meno – e il rischio è che la trasmissione della memoria perda l’impatto e la capacità di coinvolgere gli ascoltatori che ha avuto per decenni. Per questo, gli enti educativi e le istituzioni che si occupano del mantenimento della memoria, e in alcuni casi anche i governi e le istituzioni internazionali, stanno adottando vari accorgimenti per fare in modo che la memoria della Shoah rimanga viva anche quando, nei prossimi anni, la maggior parte dei sopravvissuti sarà morta.
Una prima precisazione da fare riguarda il termine di “sopravvissuto” della Shoah, il quale non si riferisce soltanto alle persone (ebree e non) che sopravvissero ai campi di sterminio nazisti, ma anche alle tante che subirono altre forme di persecuzione in ghetti e in campi di lavoro forzato, per esempio. Inoltre, si considerano sopravvissuti anche tutti gli ebrei che vissero in Germania o nei territori interessati dall’occupazione nazista, perché sottoposti a un progetto di sterminio sistematico, anche se da questo sterminio scamparono fuggendo in altri paesi, vivendo in clandestinità o unendosi alla lotta partigiana.
Questo vale ovviamente anche per le persone che appartenevano ad altre categorie soggette all’Olocausto, come per esempio i rom.
È piuttosto complicato stimare quanti sopravvissuti della Shoah siano ancora in vita. La Claims Conference, un’associazione che rappresenta i sopravvissuti ebrei nella loro richiesta di compensazioni per le persecuzioni del regime nazista, dice che sarebbero circa 400 mila, secondo la definizione più ampia: una percentuale importante di questi, però, al momento dell’occupazione nazista era bambino o poco più. Gli ebrei effettivamente sopravvissuti ai campi di concentramento oggi sono pochissimi.
Secondo una stima fatta dall’Economist, verso il 2035 anche i più giovani tra i sopravvissuti, quelli che erano soltanto bambini durante l’Olocausto, saranno morti.
Le testimonianze dei sopravvissuti sono state importanti anche per la ricostruzione storica. Un buon esempio è Shlomo Venezia, un ebreo italiano morto nel 2012 che fu fra i pochissimi superstiti del Sonderkommando del campo di concentramento di Birkenau, cioè della squadra di internati che veniva costretta a occuparsi di rimuovere i cadaveri delle vittime dalle camere a gas e di cremarli e i cui membri furono di fatto i testimoni più diretti dell’Olocausto. Gli appartenenti al Sonderkommando venivano uccisi periodicamente dai nazisti per evitare che le notizie sullo sterminio trapelassero, e Shlomo Venezia si salvò soltanto perché i russi liberarono il campo di Birkenau prima che toccasse anche a lui.
Prima di fuggire dal campo, però, i nazisti avevano raso al suolo le camere a gas: la testimonianza di Venezia e di altri fu dunque importante per ricostruirne il funzionamento.
Ma l’impatto principale delle testimonianze dei sopravvissuti in questi decenni ha riguardato soprattutto la trasmissione della memoria.
Migliaia di sopravvissuti, nel corso dei decenni e in tutto il mondo, hanno contribuito a trasmettere la memoria della Shoah parlando nelle scuole e durante eventi e cerimonie pubbliche. Per alcuni di loro, raccontare la propria esperienza è stato liberatorio, per altri doloroso: in alcuni casi, hanno aspettato anche decenni prima di sentirsi pronti a parlarne. Ma l’importanza del loro contributo è comunque difficile da sottovalutare.
Continuare a trasmettere la memoria della Shoah senza il contributo dei sopravvissuti «è un problema che ci poniamo da vent’anni, ma che ormai è imminente», racconta Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità ebraica di Roma e tuttora una delle figure più note all’interno del mondo ebraico italiano.
In effetti, l’urgenza di trascrivere e registrare le testimonianze dei sopravvissuti esiste da decenni. Nel 1994, per esempio, il regista Steven Spielberg fondò la USC Shoah Foundation a Los Angeles con il compito quasi esclusivo di registrare in video le testimonianze dei sopravvissuti, per conservarle. E questo stesso lavoro archivistico viene compiuto da tempo, con vari mezzi e metodi, dai tantissimi musei e istituzioni dedicati a preservare la memoria dell’Olocausto sparsi in tutto il mondo.
Di recente, inoltre, si sono moltiplicati i programmi che non si limitano soltanto a raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti, ma anche a trasmetterle e proporle al pubblico.
Alcuni musei, per esempio, hanno creato delle esperienze in realtà virtuale che riproducono il più fedelmente possibile la testimonianza di un sopravvissuto. In altri casi sono usati espedienti meno tecnologici: il giornale Haaretz, per esempio, ha scritto che in Israele un gruppo di figli di sopravvissuti ha cominciato a frequentare specifici corsi di recitazione per poter raccontare l’esperienza dei propri genitori al loro posto, parlando in prima persona.
Anche i governi di vari paesi stanno mettendo a punto programmi per favorire l’insegnamento dell’Olocausto. Alla fine dell’anno scorso Nadhim Zahawi, ministro dell’Istruzione britannico, partecipando a una conferenza della European Jewish Association a Cracovia, spiegava al Post che l’obiettivo del suo governo è di inserire l’educazione sul tema nel programma di ogni livello scolastico: «Ogni bambino deve imparare cosa successe durante l’Olocausto, e questo è un punto non negoziabile».
Il problema è che l’insegnamento della Shoah senza i testimoni della Shoah non potrà avere lo stesso impatto: «Anche se la tecnologia negli ultimi vent’anni ha consentito di raccogliere e rendere accessibile tantissima documentazione, le interruzioni, i sospiri, le emozioni, i particolari del racconto in prima persona non sono replicabili», dice Pacifici, secondo il quale tuttavia cercare di ripetere i racconti dei sopravvissuti ormai morti sarebbe «un’impostura, perché quel tipo di trasmissione della memoria compete alla generazione dei sopravvissuti, ma non a quelle che sono venute dopo».
Il rischio che vede Pacifici è che gli ebrei rimangano in un certo senso intrappolati nel ruolo di «testimonial della sofferenza», e che attorno a loro la narrativa dominante sia unicamente quella del compatimento.
C’è anche il problema, sotto certi punti di vista, che per molte persone l’identità del popolo ebraico equivale quasi perfettamente a quella dei sopravvissuti, e dunque a quella di vittime. La morte dei sopravvissuti comporterà, per certi versi, anche uno slittamento d’identità per il popolo ebraico, almeno agli occhi del resto del mondo.
«Noi siamo qui nonostante la Shoah», dice Pacifici. «E abbiamo un’identità che va oltre quella di vittime: la Shoah è stata una parentesi, per quanto dolorosa, della storia del popolo ebraico». Per Pacifici, se il ruolo dei sopravvissuti era quello di essere testimoni, quello delle generazioni successive è di essere «sentinelle della memoria: abbiamo acquisito i valori dei sopravvissuti e abbiamo le antenne più sensibili degli altri per capire quando qualcosa non va».