“Il favoloso mondo di Amélie” piace o non piace
Arrivò in Italia vent'anni fa: incassò tantissimo, si fece notare ed ebbe un grande impatto sul cinema, anche criticato
Il 25 gennaio 2002 arrivò in Italia, con quasi un anno di ritardo dalla sua uscita francese, Il favoloso mondo di Amélie. Allora e ancora oggi, dopo vent’anni, resta un film su cui è difficile mettersi d’accordo, perché nel suo essere volutamente estremo in quasi ogni aspetto è piuttosto divisivo: per qualcuno è romantico, sognante e pacificante, per altri pacchiano, stucchevole e artefatto. Di certo, ha lasciato il segno.
In Francia, Il favoloso mondo di Amélie arrivò nei cinema il 25 aprile 2001. I suoi produttori avrebbero voluto farlo andare al Festival di Cannes ma, nonostante il suo essere un film parecchio francese, dopo averne visto una versione incompleta e senza ancora colonna sonora l’allora direttore Gilles Jacob lo rifiutò giudicandolo «non interessante». Costato circa dieci milioni di dollari, solo in Francia incassò quattro volte tanto, diventando il film più visto dell’anno. Andò bene anche negli Stati Uniti – dove arrivò alcune settimane dopo gli attentati dell’11 settembre e fu raccontato come un possibile pretesto per un paio d’ore di spensieratezza – e nel resto del mondo, per incassi totali di oltre 170 milioni di dollari, quasi quanto La vita è bella.
Il favoloso mondo di Amélie è il terzo film di Jean-Pierre Jeunet, che insieme con Marc Caro aveva diretto Delicatessen (un film grottesco ambientato in una Francia postapocalittica) e La città perduta (un film di fantascienza steampunk) e che era stato a Hollywood per Alien – La clonazione, il quarto della serie. Per il ruolo di Amélie, la prima scelta di Jeunet era l’attrice britannica Emily Watson, ma la cosa non andò in porto: un po’ perché il suo francese non fu ritenuto adeguato, un po’ perché lei preferì andare a girare Gosford Park di Robert Altman. Al suo posto fu scelta la venticinquenne Audrey Tatou, il cui nome le era stato dato in omaggio a Audrey Hepburne e che dopo la laurea in letteratura alla Sorbona si era fatta apprezzare nel film Sciampiste & Co.
Della riconoscibilissima fotografia del film si occupò il quasi debuttante Bruno Delbonnel, che poi avrebbe avuto una fortunata carriera a Hollywood, la tuttora nota colonna sonora è di Yann Tiersen, compositore e polistrumentista al suo primo film (che avrebbe poi rimpianto il momento in cui accettò di farlo).
Il favoloso mondo di Amélie racconta – peraltro con una presentissima voce narrante con la quale interagisce Amélie stessa – la storia di una cameriera di un bar di Montmartre: timida, solitaria e parecchio propensa a gustarsi certi piccoli momenti di secondo lei per nulla trascurabile felicità, a cedere al «fascino discreto dalle piccole cose della vita», come «tuffare la mano in un sacco di legumi; rompere la crosta della crème brulée con la punta del cucchiaino; e far rimbalzare i sassi sul canale Saint-Martin».
Dopo aver presentato Amélie, il film la fa diventare protagonista di una piccola indagine per trovare il proprietario di una scatoletta di giochi e ricordi trovata nel suo appartamento. Amélie porta a termine l’indagine, fa avere la scatola al legittimo proprietario e, avendoci preso gusto, decide di provare a fare una serie di piccoli gesti per migliorare la vita di chi secondo lei se lo merita, oltre che di peggiorare un po’ quella di un fruttivendolo per nulla gentile verso il suo garzone. Per esempio, facendo viaggiare per il mondo il nano da giardino di suo padre, rimasto vedovo (una cosa che Jeunet aveva visto fare in un cortometraggio di qualche anno prima).
Nel film, Amélie incontra anche Nino, «un tipo stravagante» che «ha minuziosamente ricomposto e archiviato» decine di «foto tessere scadenti che la gente delusa ha spiegazzato, strappato, abbandonato» (altra idea ispirata da un cortometraggio). Nino e Amélie si trovano in mezzo a un’altra mini-indagine ma, soprattutto, si baciano.
Il film piacque in Francia – ci fu chi apprezzò il fatto che «dava gioia al cuore e alla testa» e Le Parisien scrisse che ridava «tutto il suo senso alla parola capolavoro» – e in genere anche all’estero. In Italia, Piera Detassis ne scrisse: «È una cavalcata radiosa e piena di invenzioni visive che riconcilia con il mondo, la vita e perfino il cinema. Per chi ama la vecchia Parigi di Montmartre: una boccata di realismo magico».
Ai molti a cui piacque, tra i critici e tra gli spettatori, Il favoloso mondo di Amélie piacque perché non aveva mezze misure. Grazie a drastiche scelte di scenografia, fotografia e postproduzione ha colori intensi, quasi da cartone animato. La sua Parigi è sempre pulitissima, ordinatissima, cartolinesca e fuori dal tempo (per ottenerla la troupe dovette ogni volta ripulire le strade da ogni possibile sporcizia o i muri da ogni eventuale graffito). I dettagli di strade, stanze o vestiti sono sempre curatissimi.
Anche per quanto riguarda scelte più prettamente di regia, Il favoloso mondo di Amélie è un film altamente riconoscibile, e secondo certe analisi lo è così tanto perché – deluso dall’esperienza che Jeunet aveva avuto nel fare un tentato blockbuster come Alien – La clonazione – decise di realizzare un film più personale e azzardato. Senza dubbio, come mostra bene il video qui sotto, Jeunet non fu parsimonioso o tradizionalista nell’uso di grandangoli, nei quasi incessanti movimenti di cinepresa (anche in scene in cui sarebbe stato comprensibile lasciarle ferme), nel modo un po’ alla Sergio Leone con cui la cinepresa si avvicina a certi visi, nel modo in cui certi altri visi compaiono all’improvviso nelle inquadrature, nella ricercata simmetria di certe scene (quando uscì, Wes Anderson già aveva diretto alcuni film).
Come ha scritto Gabriele Niola su BadTaste, il film di Jeunet fu inoltre «il primo grande film di successo a non appartenere ai generi classici (azione, fantascienza, horror, fantasy…) che unisse finto e reale grazie al digitale. Mostrando il cuore di Amelie che batte sotto i vestiti o la sua abat-jour che si anima. Era una commedia romantica ambientata in un altro mondo e questo altro mondo era creato anche grazie al digitale».
In molti casi, le principali critiche di quelli a cui non piacque Il favoloso mondo di Amélie ruotavano proprio intorno al fatto che enfatizzando molto frasi, sguardi, colori, ambienti, inquadrature finiva per essere naïf e fastidioso: scrivendone per LA Weekly, la critica Manohla Dargis lo definì «noioso e frenetico» e aggiunse che «insiste troppo per ottenere l’adorazione degli spettatori, senza però richiedere la loro intelligenza».
Un altro ordine di critiche al film, arrivate soprattutto più avanti negli anni, riguardano invece il suo sfacciato uso delle possibilità offerte dai computer per aggiungere, togliere o modificare quel che non andava bene, a partire dai suoi colori. Come ha scritto il Guardian, in quel periodo – più o meno quello del primo Matrix – «il cinema stava entrando in un periodo di estrema plasticità, in cui il mondo poteva essere piegato e perfezionato in ogni suo pixel».
C’è infine chi di Il favoloso mondo di Amélie ha parlato male in conseguenza del suo grande successo e del suo non indifferente impatto su certi film successivi che andarono a ricercare in modo simile colori esagerati, approcci sdolcinati o personaggi eccentrici. In questo senso, non è che non piacque il film: non è piaciuto l’effetto che ha avuto.
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