I molti processi di Flavio Carboni
È morto lunedì a 90 anni: il suo nome è legato ad alcune delle vicende più controverse degli ultimi decenni, a cominciare dal fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi
Il nome di Flavio Carboni, morto lunedì a 90 anni, è comparso fin dagli Ottanta in molte vicende controverse della storia d’Italia. Più volte indagato, arrestato, processato, è stato accusato di falso, truffa, riciclaggio, omicidio, tentato omicidio, bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, trasferimento fraudolento di valori. Alla fine, è stato condannato in via definitiva una sola volta, per il fallimento del Banco Ambrosiano.
Accanto al suo nome compariva sempre il termine “faccendiere”, un termine spesso usato dai media per definire chi opera in una zona grigia tra politica e istituzioni, e al margine della legalità. Lui diceva: «Ma perché mi chiamano così? Io sono un imprenditore, un uomo d’affari».
Nel corso di circa cinque decenni, i processi contro di lui sono stati numerosissimi: soltanto pochi giorni fa era stato condannato in primo grado a due anni e 4 mesi di reclusione nel processo per il fallimento della Geovision, azienda di imballaggi con sede a Badia al Pino, in provincia di Arezzo. Con lui erano stati condannati anche la sua ex moglie, Maria Laura Stenu Concas, e il socio Valeriano Mureddu. Quest’ultimo è stato riconosciuto colpevole di bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Carboni e l’ex moglie sono stati invece condannati per aver riciclato i proventi di quelle fatture collaborando così a prelevare dall’azienda 20 milioni di euro.
Imprenditore immobiliare in Sardegna
Carboni, nato nel 1932 a Torralba, in provincia di Sassari, era inizialmente un imprenditore immobiliare molto ambizioso, attivo in Sardegna fin dagli inizi degli anni Settanta. Nel 1973 aveva acquistato per 150 milioni di lire dalla famiglia del giornalista televisivo Jas Gawronski un terreno agricolo con una casa colonica a Punta Lada, nei pressi di Porto Rotondo. I terreni da agricoli divennero quasi subito edificabili: Carboni voleva realizzare un complesso immobiliare chiamato Costa delle Ginestre, ma il progetto venne accantonato per mancanza di liquidità.
Trovandosi in difficoltà economiche, Carboni accettò l’aiuto di finanzieri che lo misero in contatto sia con elementi della banda della Magliana sia con Pippo Calò, cassiere romano di Cosa Nostra. Quei due contatti sarebbero divenuti fondamentali in molte delle numerose inchieste che hanno coinvolto Carboni nel corso dei decenni successivi. Antonio Mancini, appartenente alla banda della Magliana, il gruppo criminale che comandava a Roma negli anni Ottanta e divenuto collaboratore di giustizia, disse ai magistrati: «Carboni costituiva l’anello di raccordo tra la banda della Magliana, la mafia di Pippo Calò e gli esponenti della loggia P2 di Licio Gelli».
Sempre alla ricerca di finanziamenti, Carboni cercava anche interlocutori nel mondo politico romano. Nella primavera del 1978 aveva contattato alcuni esponenti della Democrazia Cristiana dicendosi in grado di sollecitare un intervento della mafia per far liberare Aldo Moro.
Tra il 1979 e il 1980 il terreno di Punta Lada – quello comprato anni prima – fu acquistato da Silvio Berlusconi: la casa colonica, chiamata Villa Monastero, prese il nome di Villa Certosa, divenuta poi una delle residenze più note di Berlusconi. Così ne parlò anni dopo lo stesso Carboni, romanzando probabilmente molto la vicenda della vendita: «L’acquisto di Villa Certosa? Un furto, una rapina. Lo venni a sapere quando ero in carcere a Parma e mandai telegrammi a Berlusconi, Dell’Utri, Confalonieri, diffidandoli dal comprarla. Diedero al mio assistente Emilio Pellicani mi pare 800 milioni di lire, ma non corrispondevano neanche a un ventesimo del suo valore».
Nello stesso periodo Carboni mise a punto, sempre assieme a Silvio Berlusconi, il progetto Costa Turchese, chiamato anche Olbia 2, che prevedeva la realizzazione di 4mila ville, 3mila appartamenti e una serie di alberghi nella zona di Capo Ceraso, in Sardegna, a meno di dieci chilometri da Olbia. Il progetto, poi molto ridimensionato, prevedeva all’inizio la realizzazione di due milioni di metri cubi di edifici.
In quel periodo Carboni divenne anche proprietario del 35 per cento delle quote azionarie del quotidiano Nuova Sardegna ed editore di Tuttoquotidiano. Per il fallimento di quest’ultimo fu condannato in primo grado e assolto in appello per vizio di forma.
Il caso del Banco Ambrosiano e la morte di Roberto Calvi
Nel 1981 il nome di Carboni iniziò a comparire nelle vicende che riguardarono il fallimento del Banco Ambrosiano, un dissesto finanziario che coinvolse politici, massoneria, banca del Vaticano, organizzazioni criminali. Nel 1978 gli ispettori della Banca d’Italia scoprirono una considerevole serie di irregolarità nell’istituto bancario, guidato allora da Roberto Calvi, che era chiamato “il banchiere di Dio” per gli stretti rapporti che aveva con il Vaticano.
Per conto di Paul Marcinkus, presidente dello IOR, l’Istituto opere religiose, Calvi aveva creato una serie di società off-shore situate in paradisi fiscali attraverso cui faceva transitare operazioni finanziarie che, come poi accertarono le inchieste giudiziarie, che coinvolgevano la criminalità organizzata ma anche la massoneria. Le inchieste giudiziarie scoprirono che attraverso le società situate nei paradisi fiscali veniva riciclato denaro di provenienza illecita. Parallelamente, il Banco Ambrosiano finanziava movimenti anticomunisti attivi nell’Europa dell’Est, nel contesto della Guerra fredda.
Nel 1980 e nel 1981 il Banco Ambrosiano si trovò ad affrontare una crisi di liquidità. Calvi chiese aiuto allo IOR che però, benché fosse stato il principale azionista del Banco Ambrosiano, rifiutò di intervenire. Il debito delle società offshore controllate dallo IOR nei confronti del Banco Ambrosiano era di 1,2 miliardi di dollari. Nel 1984, pur respingendo qualsiasi responsabilità, l’istituto vaticano versò alle banche creditrici del Banco Ambrosiano 406 milioni di dollari a titolo di risarcimento volontario.
Nel frattempo, era stata scoperta la loggia massonica segreta P2, a cui Calvi era stato iscritto, e quindi era venuta a mancare anche la protezione di Licio Gelli, capo della P2, e dei suoi esponenti, inseriti in molte posizioni di rilievo nel mondo della politica, della finanza e dell’imprenditoria. Tra coloro con cui Calvi era entrato in affari c’erano Pippo Calò, che grazie al banco Ambrosiano riciclava denaro di Cosa Nostra, e Flavio Carboni, che era sospettato di essere mediatore e gestore di gran parte delle operazioni finanziarie.
Dopo il dissesto finanziario del Banco Ambrosiano, Calò e Carboni cercarono di recuperare dall’istituto bancario più denaro possibile temendo che la Banca d’Italia ne decidesse la messa in liquidazione, cosa che avvenne il 6 agosto 1982. Il vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone si oppose però alle operazioni poco trasparenti dei due: come guida della banca dopo che Calvi si era reso irreperibile in seguito a un mandato di arresto, vietò tra l’altro ulteriori prestiti senza garanzia concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate proprio a Flavio Carboni.
Il 27 aprile del 1982, un esponente della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati, tentò di uccidere Rosone. Gli sparò in via Oldofredi a Milano, riuscendo però solo a ferirlo alle gambe. Una guardia giurata sparò poi ad Abbruciati, uccidendolo.
Carboni e Calò furono accusati di essere i mandanti di quel tentato omicidio. Nel processo che seguì Carboni fu condannato a dieci anni e quattro mesi di reclusione ma fu poi assolto nel processo d’appello. Nel 1997 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado: il nuovo processo d’appello condannò nuovamente Carboni a dieci anni e due mesi ma la corte di Cassazione annullò nuovamente la condanna e lo assolse definitivamente.
Carboni nel frattempo era stato anche accusato dell’omicidio di Roberto Calvi. Il banchiere venne trovato impiccato il 18 giugno 1982 a Londra sotto il ponte dei Frati Neri. Nei giorni precedenti aveva scritto una drammatica lettera con una richiesta d’aiuto a papa Giovanni Paolo II. In un primo tempo l’inchiesta inglese venne archiviata e come causa della morte fu indicato il suicidio. Una seconda inchiesta, sempre nel Regno Unito, terminò senza che si arrivasse di fatto a una conclusione: secondo gli investigatori, la morte di Roberto Calvi poteva essere avvenuta sia per omicidio sia per suicidio.
In Italia furono alcuni collaboratori di giustizia a sostenere che si trattava di un omicidio. Francesco Marino Mannoia, pentito di Cosa Nostra, disse: «Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò ». Mannoia disse anche: «Flavio Carboni e Licio Gelli si erano occupati di numerosi investimenti di denaro sporco per conto di Pippo Calò, che curava gli interessi finanziari del clan dei Corleonesi».
Francesco Di Carlo, un mafioso attivo nel Regno Unito, negò di essere l’autore dell’omicidio ma ammise che Calò in effetti gli aveva chiesto di uccidere Calvi anche se poi «si era organizzato in altro modo». Pippo Calò e Flavio Carboni furono dunque accusati di essere i mandanti dell’omicidio di Roberto Calvi. Il giudice per le indagini preliminari fece riesumare il cadavere del banchiere: una nuova autopsia escluse l’ipotesi del suicidio. Si aggiunsero poi le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia che indicarono sempre Calò e Carboni come mandanti del delitto.
Il 6 giugno del 2007 il pubblico ministero Luca Tescaroli chiese l’ergastolo per Calò, Carboni, Ernesto Diotallevi, esponente della banda della Magliana, e Silvano Vittor, considerato uno degli esecutori materiali. Gli imputati furono tutti assolti ai sensi dell’articolo 502 art.2 del Codice penale, ovvero la vecchia insufficienza di prove. Nelle motivazioni della sentenza fu scritto che era però stato provato che Cosa nostra aveva utilizzato «il Banco Ambrosiano e lo IOR come tramite per massicce operazioni di riciclaggio». L’assoluzione venne poi confermata in appello.
Flavio Carboni non uscì invece indenne dal processo per il fallimento del Banco Ambrosiano. Fu condannato con Licio Gelli e con il finanziere Umberto Ortolani. Anche l’arcivescovo Paul Marcinkus, che era alla guida dello IOR e il cui nome tornò più volte negli anni seguenti in merito alla scomparsa di Emanuela Orlandi, fu incriminato per bancarotta fraudolenta ma non venne arrestato in quanto residente nello Stato del Vaticano che non concesse l’estradizione. Carboni fu condannato a otto anni e sei mesi, ma grazie alle applicazioni delle amnistie del 1986 e del 1989 e dei periodi già trascorsi in carcere in attesa di processo non dovette scontare ulteriori periodi di detenzione.
Dopo la morte di Calvi, Carboni si mise in contatto con la famiglia del banchiere dicendo di essere in possesso della valigetta che lo stesso Calvi aveva con sé nei giorni precedenti alla sua morte. Carboni disse che la valigetta era arrivata nelle sue mani dopo che alcune persone l’avevano trovata per caso. Secondo le ricostruzioni dei magistrati un vescovo cecoslovacco, Pavel Hnilica, contattò Carboni proponendo di consegnargli due assegni da 600 milioni di lire per impedire che dalla valigetta uscissero informazioni imbarazzanti sulle disinvolte attività finanziarie dello IOR. L’allora segretario di Stato vaticano, Agostino Casaroli, impedì però il pagamento di quegli assegni.
Carboni e Hnilica furono accusati di aver tentato di ricattare il Vaticano: ci furono anni di processi e infine nel 2005 la Cassazione disse che non c’era «alcuna certezza sul prelievo, sul percorso e sul trasferimento della borsa e del suo prezioso carico, da Calvi agli imputati». Di quella valigetta e del suo contenuto non si è più saputo nulla.
La cosiddetta P3
Nell’ottobre del 1989 era cominciata nel frattempo un’altra indagine, e Carboni era stato arrestato di nuovo. Fu accusato con il fratello Andrea e i figli Claudio e Marco nell’ambito dell’operazione Bingo 2: un camorrista pentito, Pasquale Centore, ex sindaco di San Nicola la Strada (Caserta), accusò i Carboni di aver riciclato soldi provenienti dal narcotraffico costruendo un villaggio turistico in Sardegna. Furono sequestrati, per un valore di 130 miliardi di lire, il resort turistico Smeralda village con 177 appartamenti di lusso, terreni a Milano e a Basiglio, e una villa al Casaletto, in provincia di Roma. Nel 2002 tutti gli imputati furono assolti.
Il nome di Carboni tornò sui giornali nel 2010 nell’ambito di un’inchiesta sull’energia eolica in Sardegna. Fu indagato con il presidente della regione, Ugo Cappellacci, con l’allora coordinatore del Popolo delle Libertà Denis Verdini, e con il senatore Marcello Dell’Utri. Secondo l’accusa Carboni, assieme agli altri, aveva influenzato a livello regionale le decisioni sul settore delle energie rinnovabili. In primo grado fu condannato a 6 anni e 6 mesi.
Dall’inchiesta sull’eolico nacque anche l’indagine sulla cosiddetta P3, chiamata così in riferimento alla loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli. Secondo la Procura di Roma, Carboni aveva cercato di condizionare il funzionamento degli organi costituzionali intervenendo con pressioni sui giudici della Corte Costituzionale.
In base alla sentenza di primo grado del 2018 l’associazione P3 violava la legge Anselmi sulle società segrete, approvata nel 1982 dopo lo scandalo P2, e puntava a condizionare il funzionamento degli organi costituzionali dello Stato e degli apparati della pubblica amministrazione, come recitava il mandato d’arresto, «con l’obiettivo di rafforzare sia la propria capacità di penetrazione negli apparati medesimi mediante il collocamento, in posizioni di rilievo, di persone a sé gradite, sia il proprio potere di influenza, sia la propria forza economico finanziaria». Carboni fu condannato a sei anni e sei mesi mentre Verdini venne assolto e la posizione di Marcello Dell’Utri fu stralciata.
Due settimane fa, Carboni era stato infine assolto dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al trasferimento fraudolento di valori. Secondo l’accusa tra il 2009 e il 2016 aveva creato società-schermo londinesi costituite per nascondere attività finanziarie illecite. Carboni è stato assolto dall’accusa di associazione a delinquere perché il fatto non sussiste e dalla seconda imputazione perché il fatto non costituisce reato. Con lui sono stati assolti anche la seconda moglie, Antonella Pau, e il figlio, Diego.
Negli ultimi tempi Flavio Carboni stava scrivendo, per l’editore Chiarelettere, un suo libro di memorie. Non si sa ancora se uscirà postumo. Nell’ultima intervista rilasciata all’Adnkronos nel marzo del 2021 aveva detto: «Non ho mai conosciuto Gelli, non ho mai fatto parte della P2. Anzi, non ho mai fatto parte della massoneria in generale. Che poi abbia conosciuto tanti personaggi di primissimo piano, come tutti a quell’epoca del resto, che potessero avere simpatie o aderire a logge è un’altra storia». Aveva concluso dicendo: «Se si dovesse dare retta alle accuse cosa sarei io? Riina farebbe ridere al mio confronto».